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Cor-rispondenze

lunedì 23 novembre 2009

Identità e cambiamento



Caro professore,

L'altro giorno stavo osservando delle foto di famiglia di cui non ero mai stato a conoscenza; alcune di esse erano molto vecchie, e tra queste ho trovato una foto di mia nonna; però una non subito ho capito chi fosse... solo analizzando i tratti somatici e la sua espressione ho successivamente capito che era lei, anche se tuttavia mi sembrava di non conoscere la persona ritratta in quella foto... Subito in me è spuntata una domanda che più volte mi sono posto: è possibile che una persona cambi radicalmente o è valido il proverbio: "il lupo perde il pelo, ma non il vizio"? Sinceramente non ho ancora trovato una risposta a questo quesito, perché proprio nel momento in cui penso che il mio giudizio sia orientato verso uno dei due poli, accade qualcosa che mi riporta a quel bivio mentale e i miei dubbi ricominciano ad imperversare nella mia testa...
Mattia


Caro Mattia,
C’è qualcosa che sopravvive al cambiamento, alle più profonde trasformazioni che avvengono dentro di noi nel corso dell’esistenza? Che cosa conserviamo del bambino che eravamo o che cosa conserveremo dell’adolescente che ora siamo nell’età più adulta? E, al termine della vita, dove saranno tutte le varie identità che siamo stati o che abbiamo attraversato? Un importante psicoanalista americano contemporaneo, James Hillman (1926), nel libro La forza del carattere (Adelphi, 2000), ritiene che con il passare dell’età e dopo tutte le irreversibili modifiche a cui va incontro il nostro corpo, in realtà, si riveli sempre più il nostro “carattere”. Più o meno la stessa storia della nave di Teseo è raccontata anche dall’autore con un esempio (un po’ meno elevato di quello mitologico, ma sempre efficace): quello di un paio di calzini. Scrive Hillman: “Prendiamo, per esempio, il nostro paio di calzini di lana preferito. Si fa un buco in un tallone, e noi lo rammendiamo. Poi si fa un buco al posto dell'alluce, e rammendiamo anche quello. Rammenda oggi, rammenda domani, alla fine sono più i rammendi della lana originale e il nostro amato calzino è fatto di una lana completamente diversa. Eppure è sempre lo stesso calzino. In relazione all'aspetto e in relazione al suo compagno infilato nell'altro piede, è sempre lo stesso calzino. I due calzini vanno a spasso insieme, stanno ripiegati insieme nel cassetto; anzi, anche in relazione a se stesso, riguardo alla propria identità, si tratta sempre dello stesso calzino, benché sia diverso.” È cambiata tutta la lana, ma è rimasta la “forma” del calzino. Così avviene anche per il corpo. Dice l’autore: “Il corpo umano è simile al nostro calzino: si scrolla via le sue cellule, ricambia i fluidi, fa fermentare nuove colture di batteri per sostituire quelli morti. Con il passare del tempo, la materia di cui il nostro corpo è fatto diventa tutt'altra, ma noi siamo sempre noi, gli stessi. Non ho un centimetro quadrato di pelle visibile che sia uguale a prima, non un grammo di materia ossea uguale, eppure io non sono qualcun altro”.
Se la differenza tra noi e gli altri fosse definita dalla fisica (Due corpi non possono mai occupare lo stesso spazio nello stesso tempo), dalla logica (A=A, ogni cosa è uguale a se stessa) o dal diritto (tutti gli uomini sono uguali davanti alla legge: ossia ogni individuo ha gli stessi diritti), allora saremmo facilmente interscambiabili. In queste formule è salvaguardata la forma generale, ma non compare ancora l’unicità delle persone. C’è l’individualità, ma mancano le peculiarità specifiche della persona. L’individualità possiamo dire che è la “forma” dell’uguaglianza: ogni individuo è uguale ad un altro dal punto di vista del diritto. Ma l’unicità della persona dipende invece dalle differenze qualitative che formano ciascuno di noi; differenze che si affinano con il tempo. Certamente l’unicità della persona si deve realizzare nel corso di tutta la vita: è come dire che non solo A=A, secondo un principio di identità astratto, ma anche che A =A≠A (Hegel) ossia che A, proprio nella trasformazione, rimane fedele a se stesso. L’identità pertanto non è qualcosa di astratto, ma è legata alla specificità di ognuno di noi; è dunque segnata dai nostri tratti caratteristici e da ciò che ci distingue e ci rende esclusivi.
C’è qualcosa di coerente che si mantiene nel tempo e caratterizza la nostra identità? Pensiamo oggi ai trapianti di organi, agli innesti di vario tipo che già si fanno e che saranno all’ordine del giorno nei decenni futuri. Materiali estranei che entrano a far parte del nostro corpo e che vengono percepiti come qualcosa di noi stessi. Anche se non sempre accade così: il Corriere della Sera, qualche anno fa, riportò un caso famoso di un cinquantenne neozelandese Clint Hallam, operato nel 1998 a Lione da un’équipe di medici internazionali per un trapianto di mano, che poco tempo dopo l’intervento chirurgico rifiutò la nuova mano («Troppo larga per il mio braccio, aveva un colore diverso») e venne pertanto rioperato a Londra nel 2001 (Corriere della sera, 4 febbraio 2001).
Quindi a volte percepiamo ciò che è estraneo come qualcosa che, ormai integrato nel nostro corpo, fa parte di noi stessi, altre volte no. Ciò che viene introdotto nel nostro corpo o nel nostro sistema immunitario può diventare “la mia anca”, “la mia cornea o “il mio cuore” oppure no.
E qui non parliamo ancora della molteplicità di sfumature che viene percepita dagli altri (un po’ come in Uno, nessuno e centomila di Pirandello), ma di quell’identità che percepiamo di noi stessi con il variare del tempo; un’identità data attraverso cambiamenti e trasformazioni. Secondo Hillman, dunque, nel corso del tempo si rivelerebbe sempre più il nostro carattere, una sorta di disposizione, di modo di fare, di inclinazione che modellerebbe anche il nostro volto; come se nella vecchiaia faccia e carattere si amalgamassero maggiormente.
Le diverse psicologie fanno oggi riferimento a diversi concetti per parlare del carattere, ad es. «personalità», «Io», «Sé », «identità», «temperamento», ma secondo Hillman nessuno di questi (un po’ troppo astratti) rende “un insieme di tratti e di qualità, di abitudini e di motivi ricorrenti” della persona. Egli fa dunque riferimento al termine “carattere” (non inteso da un punto di vista religioso o scientifico), cioè alle caratteristiche individuali, all’istinto o all’intelligenza immaginativa di ognuno che rappresentano la tonalità tipica con cui ogni persona si rapporta alle cose e alle persone: “Perché il carattere agisce alla stregua di un istinto sottostante, che sottolinea incisivamente i gesti che facciamo, le parole che diciamo, segnalandone lo stile particolare. È una forza immaginante per cogliere le tracce della quale occorre intelligenza immaginativa. Esiste un sentimento intuitivo che ci impedisce di deviare troppo dalla nostra strada e di oltrepassare troppo i nostri confini coinvolgendoci in mondi estranei alla nostra natura autentica”. Allora, probabilmente, la nonna non ha “perso il pelo”, ma ha semplicemente tracciato la peculiarità della sua unicità, guidata dalla forza del suo carattere. Con questo non voglio che si pensi al carattere in modo deterministico: il vissuto, l’ambiente, la cultura, gli incontri modificano interessi, pensieri e valori. Preferisco pertanto intendere il carattere come quel tratto caratteristico con cui ognuno di noi rende unico quello che fa, la modalità con cui ognuno lascia il proprio tratto personale negli ambiti in cui è impegnato; un tratto che si modifica e si affina in base alle infinite relazioni con il mondo e con gli altri, grazie alle occasioni che via via vengono valutate, scelte o scartate nel corso della vita.

Un caro saluto,
alberto

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