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Cor-rispondenze

lunedì 28 gennaio 2013

Proteggere le proprie origini



Caro professore,
Il Milan stava disputando una partita amichevole di calcio, quando alcuni tifosi avversari iniziarono ad insultare con cori razzisti alcuni giocatori di colore. La reazione fu l’immediato abbandono del campo di gioco e la sospensione della partita. Ma perché di fronte ad insulti di sfondo razziale ci si trova a reagire in un certo modo, mentre di fronte ad insulti che ormai siamo abituati a sentire siamo impassibili? Perché un insulto razziale è peggio di un qualsiasi altro insulto (sono pur sempre tutti insulti!)? E la reazione di Boateng (il principale insultato) è corretta o no? Perché, secondo me, se si fosse trovato di fronte ad un altro tipo di offesa si sarebbe comportato in tutt’altro modo. Io gioco a calcio e anche a me è capitato di essere insultato da fuori, ma non ci ho fatto caso. Se però mi capitasse di essere insultato da cori razzisti non penso che abbandonerei il campo. É quindi giusto nascondersi di fronte agli insulti razzisti (il Milan in un certo senso ha fatto così ritirandosi negli spogliatoi) o bisognerebbe invece rimanere e lottare contro questi insulti?
Michele 2G

Caro Michele,
Anche se un calciatore ha ben presente che certe azioni sono finalizzate a disorientare e a innervosire, gli insulti razzisti generano sofferenza, perché lambiscono una parte profonda del vissuto di una persona che deve ancora lottare per conquistare il proprio riconoscimento nella società in cui opera. Un insulto - determinato dal colore della pelle - non ha lo stesso significato se rivolto ad un bianco o ad un nero. Per una serie di ragioni storiche e psicologiche. Basterebbe leggere il bellissimo libro di Gabriele Turi, “Schiavi in un mondo libero” [Laterza 2012], per comprendere il difficile e sofferto processo di emancipazione dei neri. Anche solo considerando il periodo dall’età moderna a oggi (il periodo in cui si lotta per i diritti), ci si rende conto che le legislazioni dei vari paesi, sebbene abbiano progressivamente acquisito i diritti dei bianchi, hanno omesso di riconoscere gli stessi diritti fondamentali ai neri. Sappiamo che gli schiavi non potevano diventare cittadini, perché considerati “proprietà di altri” e sappiamo che il razzismo ha giustificato nella storia un sistema disuguale di relazioni economiche e sociali; che ha stabilito la “proprietà dell’uomo-merce”; che ha giustificato forme di dominio dell’uomo sull’uomo, ha legalizzato l’istituzione schiavistica, ha legittimato il traffico di esseri umani, lo sfruttamento, la discriminazione, la xenofobia, l’intolleranza e la violazione dei diritti fondamentali. I neri sono stati considerati inferiori dai bianchi, tanto che, come sappiamo - e come scrive l’autore -: «Il razzismo spiega come in molte culture «negro» sia divenuto sinonimo di schiavo» (p. 110). C’è dunque stata un’asimmetria profonda tra bianchi e neri, nella mancata ammissione della condizione paritaria dei secondi. E non dobbiamo dimenticare che ad un certo punto vi è anche stato un razzismo che ha preteso di essere «scientifico» e che anche in Italia nel 1938 sono state emanate delle leggi «razziali» che hanno generato sofferenze insanabili. La storia pesa come un macigno. Perché continuare a subire profonde discriminazioni e non essere riconosciuti come persone con lo stesso status di tutti? Anche allo stadio. La filosofa americana Martha Nussbaum ricorda che «Tutti andiamo avanti per la nostra strada spesso avvolti nella nebbia dei nostri obiettivi e desideri egoistici, [...] vedendo le altre persone come meri strumenti per la realizzazione di quei desideri». Allora anche un calciatore può decidere di non essere un semplice “strumento” per il divertimento di chi lo delegittima considerandolo come schiavo o essere inferiore. E non c’è stipendio che tenga: per quanto alto, nessun compenso sana il bisogno di riconoscimento e di dignità di un uomo, perché, come scrive Charles Taylor: «Un riconoscimento adeguato non è soltanto una cortesia che dobbiamo ai nostri simili: è un bisogno umano vitale».
Un caro saluto,
Alberto

 

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