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Cor-rispondenze

lunedì 29 aprile 2013

Mi manca dell’affetto che niente può colmare

 

Caro professore,
Io sono nata qui a Cuneo, ma i miei sono del Marocco. In tutta la mia vita sono andata una sola volta a vedere la mia famiglia. Il padre di mia madre, cioè mio nonno, è morto 25 anni fa e non ho avuto l’occasione di conoscerlo. Mia mamma mi parla molto di lui, dice che era una persona con un cuore d’oro, che ha sempre aiutato tutti...gli voleva molto bene.
A volte quando sono in giro con amiche o con la mia famiglia mi capita di vedere bambini molto piccoli in braccio ai nonni o insieme che passeggiano. Un giorno ero seduta alla fermata del pullman, ascoltavo la musica e di punto in bianco passa un bimbo di circa quattro anni. Mi viene incontro e mi dice: “Lo sai, mio nonno mi porta al parco e mi compra i giocattoli”, e intanto arriva suo nonno che era qualche passo indietro. Io ho sorriso al bimbo e gli ho detto che deve fare il bravo, così avrà tanti giocattoli, così come si parla ad un bambino. E poi lui, guardandomi, mi dice: “dov’è tuo nonno?” ... Lì avevo le lacrime agli occhi, ma gli ho risposto che era molto lontano...allora il bimbo mi ha salutato e se n’è andato. Si può sentire la mancanza di una persona che non hai mai avuto l’occasione di conoscere? Ti può salire il magone quando qualcuno ti dice: “sono dai miei nonni a mangiare”? Mi manca mio nonno, ma non posso fare niente.
Widad, IE


Cara Widad,
Cominciamo con una storia. Nella notte tra il 20 e il 21 agosto del 1911 venne rubata la Gioconda. Per qualche tempo sulla parete del Louvre dove era collocata rimase uno spazio vuoto. Ma la notizia più curiosa è che, da quel momento, moltissime persone che non avevano mai visto l’opera si recarono al Museo per guardare quello spazio vuoto. Attratti dall’assenza. Tutti sapevano che la Gioconda si trovava al Louvre, ma non tutti avevano mai pensato di andare di persona ad ammirarla. Il vuoto, tuttavia, ha generato una fortissima attrazione. Per un certo periodo l’attenzione si è concentrata lì, sulla mancanza, e l’assenza è diventata oggetto di pensieri, di riflessioni, di nostalgia. La mancanza genera sentimenti proprio come la presenza. Alcuni filosofi hanno parlato di una “presenza dell’assenza”, quando ciò che non c’è o non esiste più continua tuttavia a essere più vivo di quanto lo sia l’evidenza concreta. Capita spesso di non notare le persone nella routine, ma quando mancano. Basta pensare alla vita familiare: fino a quando i componenti della famiglia godono di buona salute, l’attenzione non si concentra in modo privilegiato su uno di essi; ma se un familiare sta male o muore, i pensieri si concentrano inevitabilmente e ossessivamente su di lui. L’assenza di una persona cara, spesso, è più consistente della sua presenza abituale; genera riflessioni, preme sulla mente, cattura l’interesse. Si trasforma in un pensiero fisso, ricorrente e causa dolore. Ognuno di noi porta con sé una storia fatta di tante narrazioni. C’è la narrazione della nascita fatta dai genitori, c’è la narrazione del mondo in cui si vive fatta da molte figure educative e c’è la narrazione di una storia che giunge da lontano e ci lega a coloro che sono venuti prima di noi. Anche se non hai conosciuto tuo nonno, la sua vita si intreccia con la tua. La narrazione di tua madre rende viva l’assenza e produce una vibrazione nel tuo cuore; le sue parole che raccontano un’esperienza di amore hanno creato un legame tra te e lui. Le vicende reali di cui sei a conoscenza compongono la tua storia, e ognuno di noi ama custodire la narrazione della propria storia, perché dà forma alla propria identità. C’è dunque un passato che si incunea quasi inconsapevolmente nel presente; ci attrae, ci seduce e ci conquista. E poiché immaginiamo la nostra vita con le possibilità che avremmo potuto avere, talvolta l’assenza di una relazione genera un sentimento che si chiama nostalgia, che letteralmente è il dolore (algos) per il ritorno (nostos). In questo caso è il ritorno dell’assenza di un amore straordinario che avrebbe nutrito le tue relazioni. Tuttavia, la vita  di ciascuno è fatta di assenze. A volte prima della nascita, a volte negli anni immediatamente successivi. Impariamo troppo presto a convivere con il vuoto lasciato dalle persone che abbiamo conosciuto e da quelle che avremmo voluto incontrare. Però portiamo nel cuore alcune storie frammentarie che recuperiamo occasionalmente. Quando tornerai in Marocco, recati nel luogo dove è stato sepolto tuo nonno e fotografa il suo volto. Chiedi a tua mamma di guidarti nei luoghi in cui andavano a passeggio. Chiedi ai tuoi parenti di raccontarti altre vicende. Registra ogni cosa e scrivila. Raccogli più informazioni che puoi. Qualcuno ha detto che non è necessario avere tutto, perché talvolta anche il frammento è un tutto che scalda. E il freddo della distanza chilometrica si stempera progressivamente al calore della prossimità del cuore.
Un caro saluto,
Alberto

lunedì 22 aprile 2013

La ricerca di Dio



Caro professore,
ripensando agli argomenti teologici trattati a scuola mi sorge spontaneo un dubbio relativo all’esistenza divina. Da alcuni anni, infatti, ho smarrito la fede, anche riflettendo su tale questione a partire da temi scientifici. Mi domando dunque come sia possibile continuare ad avere fede in qualcosa di intangibile e soprattutto non comprendo come grandi studiosi continuino a credere in Dio. Non comprendo il vero nocciolo della fede e neanche il parroco e il vicario del mio paese hanno saputo darmi argomentazioni valide per credere. Devo però continuare a cercare risposte che mi porterebbero a divenire ateo o abbandonare tale ricerca e abbracciare l’agnosticismo? Forse dovrei appoggiarmi ad un altro tipo di fede che possa contrastare le teorie scientifiche in cui credo, ma delle quali non sono pienamente convinto? Forse non esiste una vera risposta, ma sono convinto che sia molto utile conoscere il pensiero altrui.
Alessandro (4F)


Caro Alessandro,
Credo che il tuo sacerdote e il vicario abbiano risposto correttamente: non ci sono argomentazioni razionali che determinano la fede. Altrimenti non sarebbe fede, ma una forma di conoscenza da acquisire attraverso buone argomentazioni. Blaise Pascal sapeva benissimo che non si tratta di esibire delle prove: «Le prove metafisiche di Dio – scrive l’autore – sono così lontane dal ragionamento degli uomini e così complicate, che colpiscono poco; e, quando ciò servisse ad alcuni, non servirebbe che nell’istante in cui essi vedessero quella dimostrazione, ma, un’ora dopo, essi avrebbero timore di essersi sbagliati». Egli sapeva che le prove razionali non alimentano la fede nei credenti né la suscitano in coloro che non la possiedono. La fede non si trasmette con il dna, non è un oggetto che viene consegnato inalterato da una generazione all’altra, come un mobile che si eredita con le pertinenze di famiglia. Anche se i genitori sono uomini di fede, i fondamenti della loro credenza accettati supinamente conducono ad una fede superficiale, di facciata, dunque inesistente, perché la fede individuale non è la riproposizione inconsapevole di credenze altrui. Nell’adolescenza si mette in dubbio tutto quello che proviene dal mondo degli adulti e anche la fede non si sottrae all’esercizio della impetuosa critica della ragione. Ogni generazione rimette alla prova i contenuti che la tradizione consegna. C’è tuttavia differenza tra “credere in Dio” e “credere nella credenza”. Spesso ci si ferma a “credere nella credenza”: si accetta remissivamente ciò che proviene dal passato, dalla propria famiglia, dalla propria comunità. Magari si nutrono dei dubbi, ma poi con indolenza si rimane nel solco della tradizione, oppure, per reazione, si rigetta tutto come irrazionale e primitivo. Ma “credere in Dio” è diverso. Espone in prima persona al mistero della vita. Richiede il travaglio, l’angoscia, la prova del fuoco della ragione, e poi la consapevolezza che la ragione non è l’approdo definitivo della propria ricerca. La fede si smarrisce, è inevitabile. Perché quella interiorizzata non è ancora la propria disposizione al sacro. Non esistono argomentazioni sufficienti, perché non si tratta di esibire delle prove, ma di accennare ad una sensibilità, una forma di fiducia. Richiede dunque la volontà di approfondire il senso dell’esistenza. Poiché è ricerca, ogni percorso attraversa momenti altalenanti e l’esito non è mai scontato né definitivo. Tuttavia, non è sul piano delle prove che anche gli uomini più intelligenti, come dici tu, fondano la propria fede, ma su una sensibilità che altro non è che una semplice e insopprimibile forma di fiducia. Kierkegaard ironizzava sulle ragioni della fede, e scriveva: «Se tu vuoi assolutamente delle ragioni, ti accontenterò volentieri. Ne vuoi tre, cinque, sette? Dimmi un po’, quante ne vuoi?». Ma non posso dire nulla che sia più alto di questo: «io credo». Qui c'è il positivo della sazietà. Nell’ambito del Cristianesimo, scrive Enzo Bianchi in “Ama il prossimo tuo” [2011], «Fidarsi di Dio significa fidarsi del suo amore, della sua capacità di amare, del suo essere amore» (cfr. 1Gv 4,8.16).
Un caro saluto,
Alberto

lunedì 15 aprile 2013

Ogni cosa ha due manici

Ogni cosa ha due manici: con uno si può reggere, con l'altro no. Se tuo fratello è ingiusto con te, non prenderla dal lato «è ingiusto», perché questo è il manico con cui non puoi reggere la cosa, ma piuttosto dal lato «è mio fratello», «è cresciuto con me»: così afferri la cosa per il manico con cui la puoi reggere.
Epitteto

lunedì 8 aprile 2013

Maturità rinviata


 
Caro professore,
La avviso già che in questa lettera non riuscirò ad affrontare tutta la tematica che avrei bisogno di sottoporre al suo giudizio. È troppo complessa e grande, inoltre non sono per niente bravo a scrivere. Dopo questa breve premessa, per cui spero mi perdonerà, vorrei parlarle della maturità; non l’esame che dovrò affrontare fra un anno, ma quella che dovrebbero acquistare i ragazzi con il passare del tempo. Essi preferiscono lasciarla da parte, vivere spensierati e non prendere decisioni troppo importanti. A loro parere tutto questo è troppo difficile, meglio comportarsi da bambini, “seguendo” le indicazioni dei genitori e facendo azioni molto stupide. Perché prendersi le proprie responsabilità e ragionare sui fatti e sulle cose, quando è molto più semplice lasciar andare tutto e farsi guidare dagli altri? Gli episodi che mi hanno dato la scossa sono tanti, sin troppi. Diventano un peso sempre maggiore. Perché non si può diventare responsabili? Trovo che il vero coraggio sia quello di prendersi le proprie responsabilità, non continuare a essere piccoli.
Marco (4E)

Caro Marco,
Nel 1784 Immanuel Kant pubblica un piccolo scritto dal titolo: “Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo?(Beantwortung der Frage: Was ist Aufklärung?). È una meravigliosa sintesi sull’Illuminismo o, più semplicemente, sul significato di quello che tu chiami “non continuare a essere piccoli”. Per Kant le cause per cui le persone rimangono volentieri minorenni sono “la pigrizia e la viltà”. In fondo, scrive l’autore, “è tanto comodo essere minorenni!”: investiamo gli altri della capacità di pensare per noi, fino a non avere più il problema di pensare da soli. Deleghiamo per non esporci a rischi o per non pregiudicare scelte future, e così altri si ergono a nostri tutori con grande facilità. Kant invita invece a diventare uomini liberi che ragionano da soli e si assumono responsabilità. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza” è il cuore della sua riflessione sull’Illuminismo. Il filosofo si chiede anche se gli uomini vivano già in un’età illuminata, e risponde di no, ma che fortunatamente è stato aperto il campo “per lavorare ad emanciparsi”, per uscire da uno stato di “minorità” imputabile solo all’uomo stesso. Circa novant’anni dopo, anche Nietzsche nella “Terza considerazione inattuale”, intitolata “Schopenhauer come educatore” (1875), narra che ad un viaggiatore, che aveva visitato molti paesi, conosciuto molti popoli e esplorato vari continenti, venne chiesto quale qualità de­gli uomini avesse ritrovato ovunque. Pare che egli abbia risposto: “hanno una tendenza alla pigrizia”. Nietzsche ritiene che avrebbe anche potuto rispondere, in modo più giusto e più valido: “sono tutti dei paurosi” che “si nascondono dietro co­stumi e opinioni”. Come vedi l’incapacità di assumersi responsabilità non è solo una questione contemporanea o generazionale, ma è una consuetudine che è stata presa di mira molte volte nella storia. Anche gli uomini che dovrebbero essere “maturi” per “natura” (naturaliter maiorennes, direbbe Kant) pensano e agiscono come “gregge”. Nel linguaggio kantiano la maturità individuale è il passaggio dall’eterodirezione (essere guidati da altri) all’autonomia. In fondo, essere responsabili (responsabilità deriva de respondeo, ossia rispondere) significa essere in grado di motivare in modo razionale le proprie azioni di fronte alla collettività. Dare conto agli altri senza sotterfugi e senza ignorare le conseguenze delle proprie condotte. Il sociologo statunitense Barrington Moore jr. diceva che se è difficile resistere alla pressione del “gregge”, che in qualche modo diventa l’autorità alla quale ci si sottomette, le persone riescono più facilmente ad assumersi responsabilità individuali quando riscontrano la vicinanza e il sostegno di altri sog­getti che percepiscono come pari. Le coscienze sgravate di responsabilità scoprono negli esempi positivi – soprattutto tra coetanei – forti motivazioni per trovare (o ri-trovare) il coraggio di diventare “mature”.
Un caro saluto,
Alberto

lunedì 1 aprile 2013

Paura della morte


 
Caro professore,
Mi sono sempre chiesto perché la morte venga associata a qualcosa di negativo. Secondo me, in entrambi i casi (se esista o no “vita dopo la morte”) essa non sarebbe altro che una liberazione. Qualcuno potrebbe dire di avere paura della morte, perché perderebbe tutto quello che ha in vita, ma basta pensarci per capire che la morte o libera l’uomo o prospetta una condizione migliore: nel caso non ci fosse vita dopo, allora sarebbe una completa liberazione; nel caso esistesse una specie di paradiso, sarebbe comunque meglio della vita. Per come ci hanno educato, se in vita sei stato “buono” vai in paradiso, se no all’inferno. Quindi l’unica paura della morte deriverebbe dalla paura di andare all’inferno. Ma questo allora toglie ogni senso alla vita, poiché se non si vivesse non si potrebbe neanche avere il problema di poter andare all’inferno. È dunque la vita una “punizione” che si deve scontare vivendo nella rettitudine per avere la speranza di andare in paradiso? Perché sotto ogni aspetto la morte o il non-vivere mi sembrano migliori.
P.S. Non c’è stato un evento particolare che mi ha fatto pensare a questo, è un problema al quale penso da sempre.
Riccardo, 4B

Caro Riccardo,
Zenone di Cizio, fondatore della scuola stoica, dice che la morte non è un male, ed Epicuro, nella “Lettera a Meneceo”, esorta il proprio discepolo ad abituarsi a pensare che “la morte non costituisce nulla per noi”. In fondo se il piacere e il dolore derivano dalla capacità dell’uomo di provare sensazioni, la morte, che è azzeramento di ogni percezione, non può produrre sofferenza. La coscienza che la morte non dà luogo a nuovi mali renderebbe godibile la vita o, come direbbero i greci, “la mortalità della vita”. Gli epicurei ritenevano che se si vive senza temere la morte e senza l’inganno di prolungare l’esistenza per un tempo infinito si è in grado di rapportarsi in modo appropriato alla quotidianità. Epicuro definisce infatti “sciocco” chi sostiene di aver paura della morte, perché invece di soffrire per un male reale, soffre nella continua attesa del decesso e la persistente anticipazione della propria fine produce sofferenze inutili. Celebri sono le sue parole: “La morte, il più atroce dunque di tutti i mali, non esiste per noi. Quando noi viviamo la morte non c'è, quando c'è lei non ci siamo noi. Non è nulla né per i vivi né per i morti. Per i vivi non c'è, i morti non sono più. Invece la gente ora fugge la morte come il peggior male, ora la invoca come requie ai mali che vive”. Il vero saggio, come hai ben colto nella tua lettera, non dovrebbe dispiacersi di vivere né temere di non vivere più. Come la vita non è un male così l’assenza di vita non è un male. Ci sono però diverse tradizioni filosofiche e diverse interpretazioni. Per la tradizione atomista, la morte è semplice dissolvimento di un corpo in particelle più piccole che si aggregheranno diversamente nel corso del tempo. Per la tradizione orfico-pitagorica vi è un’anima prigioniera del corpo che con la morte si libera dalla reclusione. In entrambi i casi, la morte è un bene. Così pensano anche Socrate e Platone. Negli istanti finali della propria vita, Socrate ricorda a Critone che è debitore di un gallo ad Asclepio e invita l’amico a non dimenticarsi dell’offerta. A breve egli guarirà dalla malattia mortale, perché l’anima sarà finalmente libera dal corpo. E nella tradizione cristiana a cui fai riferimento? In questa tradizione la morte è certamente un male in quanto separa dagli affetti, ma in fondo è un bene nella prospettiva della vita in Dio. Qual è l’atteggiamento del credente e del non credente di fronte alla morte? Per entrambi la morte ha pertanto aspetti positivi e negativi: libera dalle sofferenze e dal dolore (effetto positivo), ma priva delle relazioni, delle persone care e della visione del futuro (effetto negativo). Per il non credente tuttavia la morte è fine in tutti i sensi, mentre per il credente si apre la prospettiva di un giudizio basato sull’amore. Come scrive Sergio Givone: “laddove ci fosse il nulla, ciò sarebbe quasi una consolazione. [...] Il giudizio di Dio è invece una tragedia”.
Un caro saluto,
Alberto