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Cor-rispondenze

lunedì 30 settembre 2013

Chi riceve le mie preghiere?


 
Caro professore,
Mi chiamo Antonio e sono un ragazzo di diciassette anni che fin da piccolo è stato educato alla professione e al credo cristiano cattolico. Come d’abitudine, la domenica, mi ritrovo nella chiesa del Sacro Cuore di Gesù (Cuneo) per ascoltare le letture, memorizzare la predica del prete e infine partecipare all’eucaristia. Ultimamente, durante l’intera messa, mi chiedo spesso: Secondo il mio credo chi è realmente Dio? Sappiamo molto più precisamente chi era il figlio di Dio, ma Dio allora chi è? Una persona? Una forza esterna, o Dio è semplicemente “amore”? Il mio dubbio è nato ascoltando le letture dei Vangeli; Dio viene descritto come un padre buono, come l’amore eterno e infine viene considerato la via, la verità, e la vita. Anche se la mia religione impone di credere a tutti i misteri della fede, io avrei intenzione di sapere in cosa credo, chi è che riceve le mie preghiere e com’è fatta la persona, se di persona si tratta, in cui credo. È da qui che nasce la mia domanda: che cos’è realmente Dio?
Antonio, IVE
 
Caro Antonio,
La tua riflessione ricorda un po’ quello che scriveva Agostino nelle “Confessioni”: «Cos’è che amo, quando amo il mio Dio?».Egli rispondeva: «Non la grazia di un corpo, non il fascino del mondo, non la candida luce amica di questi occhi, non la carezza melodiosa dei canti, non il profumo dei fiori o di balsami e aromi, non la manna e il miele degli abbracci e dei desideri carnali» (cap. X, 6.8). Ascoltando le riflessioni di sacerdoti e di teologi su Dio capita effettivamente di essere disorientati per l’elevato numero di immagini utilizzate. Però non tutte sono metafore per accennare a ciò che supera la possibilità di essere definito dal linguaggio ordinario e dalla comprensione razionale; alcune locuzioni indicano la peculiarità del modo di intendere Dio della religione cristiana. Per il cristianesimo Dio non è riducibile ad un concetto, ma è amore. «Dio è amore; chi sta nell'amore dimora in Dio e Dio dimora in lui» (1 Gv 4, 16). Queste parole della “Prima Lettera di Giovanni” sono riprese anche dal papa Benedetto XVI nell’enciclica “Deus caritas est”. La vicenda cristiana non considera dunque Dio solo come “motore immobile” (Aristotele), “ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore” («id quo maius cogitari nequit», Anselmo d’Aosta), “grande orologiaio” («deus calculans»,Leibniz), “ente assolutamente infinito” (Spinoza), “eterno geometra”(«l'éternel géomètre», Voltaire), ma considera il fatto che Dio si sia incarnato e si sia rivelato all’uomo in Gesù, aspetto che Kierkegaard definiva come “scandalo” e “paradosso” del cristianesimo. Quel Dio a cui Pascal si era convertito: «Non il dio dei filosofi e dei dotti, ma il Dio di Gesù Cristo». Per comprendere allora la specificità della tua fede è sufficiente che tu legga le definizioni di Dio contenute nel “Catechismo della Chiesa cattolica” (lo trovi anche direttamente sul sito del Vaticano (http://www.vatican.va/archive/ITA0014/_INDEX.HTM). Dio è considerato «principio e fine di tutte le cose» che «con la sua Provvidenza si prende cura del mondo e lo governa». L’uomo può parzialmente conoscerlo «con il lume naturale della ragione umana» e in modo più adeguato attraverso la «Rivelazione». Ma, per riprendere il “Catechismo”, vale la pena ricordare che: «Dio trascende ogni creatura. Occorre dunque purificare continuamente il nostro linguaggio da ciò che ha di limitato, di immaginoso, di imperfetto per non confondere il Dio“ineffabile, incomprensibile, invisibile, inafferrabile” […] con le nostre rappresentazioni umane. Le parole umane restano sempre al di qua del Mistero di Dio». Tuttavia – secondo la religione cristiana –, mediante l'Incarnazione Dio «si è unito a tutti gli uomini» [Rm 10,6-13]. Così le parole “io sono la via, la verità, e la vita” che Gesù pronuncia (Gv 14,6) esprimono l’irruzione di Dio nel tempo e il suo amore per l’uomo. Hai ragione che tutto questo possa spiazzare: ma è la specificità del cristianesimo, che parla del “mistero della Trinità”, intendendo Dio come Padre, Figlio e Spirito Santo. Difficilissimo da spiegare anche per i grandi padri della Chiesa (anche se pagine bellissime sono state scritte da S. Agostino nel De Trinitate e da S. Tommaso nellaSumma Theologica); tuttavia, per non perderti, puoi riferirti a ciò che ricorda Benedetto XVI, citando Agostino: «Se vedi la carità, vedi la Trinità», De Trinitate, VIII, 8, 12).
Un caro saluto,
Alberto
 

lunedì 23 settembre 2013

Speranza o illusione?


 
Caro professore,
In questi giorni mi è capitato di sentire il discorso pronunciato da Papa Francesco qualche mese fa in cui dice: «ragazzi non perdete la speranza». Quest'ultima parola mi ha fatto riflettere. Speranza. Una parola che di questi tempi non è molto vicina agli Italiani. Forse perché hanno capito che poche delle cose in cui sperano poi si realizzano veramente. Allora ecco che speranza diventa sinonimo di illusione. E chi sceglie di illudersi già sapendolo? Allora c'é differenza tra speranza e illusione? Dov'è che finisce una e inizia l'altra?
Tommaso, IVB
 

Caro Tommaso,
C’è una grande differenza tra speranza e illusione. Anche se entrambe esprimono un rapporto del soggetto con il tempo, diverse sono le relazioni. Il verbo illudere contiene la parola “ludus”, gioco, e significa letteralmente “giocare”. Il filologo italiano Giovanni Semerano (1911-2005), rilevante studioso delle antiche lingue mesopotamiche, ci ricorda che la radice latina “ludus” avrebbe un antenato nella lingua accadica, ossia nella lingua parlata in Mesopotamia dagli Assiri e dai Babilonesi. “Ludus” quindi da “ulsu” ed “elesu” che significano rispettivamente “piacere”, ed “essere sereno” o “giubilare”. Ci si diverte e ci si rallegra con una rappresentazione giocosa della realtà. Credo che l’illusione si snodi nelle tre dimensioni del tempo. Ci si illude che il passato sia andato in un certo modo, e si commettono errori. Ci si illude sul presente, e si fantastica con l’immaginazione; ci si illude sul futuro individuale o, come dici tu, collettivo, e si prendono degli abbagli. L’illusione è un gioco seduttivo che altera il rapporto con la realtà. Non deve essere considerata negativa. L’arte, la letteratura e la musica, ma anche le interpretazioni del mondo sono una forma di “il-lusione”, di gioco e di divertimento. Ogni rappresentazione è in fondo un “ludus”, un tentativo di comprendere la complessità dell’esistenza. Nietzsche ricorda come nel rapporto dionisiaco-apollineo, ossia tra caoticità del mondo e tentativo di razionalizzazione, vi sia uno scarto: ogni tentativo di razionalizzare la vita è destinato al fallimento, in quanto la vita è divenire che può essere colto solo parzialmente dalla ragione. Secondo Nietzsche tutte le visioni del mondo sono in fondo “giochi” apollinei (razionali), per sopportare il dionisiaco (l’irrazionalità della vita). E la speranza? La filosofa spagnola Maria Zambrano (1904-1991) nel libro “Verso un sapere dell’anima” [1991], (Raffaelleo Cortina Editore, 1996) ritiene che la speranza implichi invece la generazione continua dell’uomo. Assai diversa dall’illusione. Ella ritiene che l’uomo debba creare continuamente il proprio essere, perché non lo ha ricevuto già definito. Scrive Zambrano: «L'animale nasce una volta per tutte, l'uomo invece non è mai nato del tutto, deve affrontare la fatica di generarsi di nuovo o sperare di essere generato. La speranza è fame di nascere del tutto, di portare a compimento ciò che portiamo dentro di noi solo in modo abbozzato. In questo senso la speranza è la sostanza della nostra vita, il suo fondo ultimo; grazie a essa siamo figli dei nostri sogni, di ciò che non vediamo e non possiamo verificare. Affidiamo così il compimento della nostra vita a un qualcosa che non è ancora, a un’incertezza». La speranza è dunque la «sostanza della nostra vita», di una vita che non è già segnata né determinata biologicamente, ma in divenire. L’idea di dover creare il proprio essere è un’idea bellissima: implica l’attività del soggetto: immaginazione di sé e lavoro su di sé. A partire dalle caratteristiche personali, dalla possibilità di intravedere cosa si potrebbe diventare. Mi sembra quindi che la speranza, a differenza dell’illusione, sia solo rivolta al futuro, e poiché quel futuro ha radici nel presente – in quanto si cerca di perfezionare ciò su cui si sta già lavorando –, la speranza non si riduce ad un semplice gioco interpretativo, ma implica uno sforzo per portare a compimento se stessi. Un’impresa lunga una vita. Credo che il senso delle parole del Papa sia questo: l’invito a non perdere la speranza è un invito a non perdere il contatto con la natura specifica di ciascuno per far nascere ciò che è ancora embrionale, per portare a compimento la vita senza abbandonarsi all’idea che tutto sia illusione.
Un caro saluto,
Alberto

lunedì 16 settembre 2013

La morte di un compagno

fiori incidente

Caro professore,
Purtroppo in questi giorni abbiamo assistito a due episodi drammatici: il 5 settembre è morto in un incidente automobilistico un ragazzo albanese che aveva frequentato la scuola media insieme a me e la settimana successiva, il 10 settembre, a Bra, la stessa sorte è toccata ad un quattordicenne al primo giorno di scuola superiore. Quello che ne consegue non è difficile da immaginare: la disperazione della famiglia, il dolore degli amici, il vuoto incolmabile che la loro scomparsa inevitabilmente lascia, i ricordi che ci legano a loro e che ci inseguono senza sosta, l’incapacità di attribuire un qualche significato alla loro morte e la difficoltà nel ritrovare un senso alla propria vita che la renda quantomeno ancora sopportabile. Di fronte a questi fatti non ho potuto fare a meno di interrogarmi sul significato e sul valore della morte nel mondo contemporaneo per i singoli individui e per la società nel suo complesso. Secondo lei esiste un significato universale da attribuire alla morte oppure il rapporto che ciascuno di noi possiede con la morte, o meglio con l’idea della morte, è personale e soggettivo? Qual è il ruolo che l’idea della morte ha rivestito e riveste tuttora per la società e come si pone il pensiero filosofico moderno di fronte ad essa?
Alberto, ex VA

Caro Alberto,
Possiamo fare finta che della morte si possa parlare in modo distaccato. Invece non è così. Le frasi pronunciate ai familiari di un ragazzo che ha perso la vita o le parole scambiate tra amici sconvolti a seguito dello shock rivelano le manchevolezze del linguaggio generico e consolatorio, e dei pensieri, sempre inadeguati e approssimativi. Vladimir Jankélévitch, filosofo francese contemporaneo di origini russe, in un libro intitolato “La morte” (1977), [Einaudi 2009], ricorda che la morte è una «tragedia inaggirabile» e indaga l’insufficienza di ogni risposta di fronte al dramma. Troppo consolatoria l’idea dei “Campi Elisi”, tanto cari alla tradizione classica, troppo rassicurante ogni riflessione religiosa, ma anche inadatte a rendere conto dell’abisso che si spalanca le considerazioni “laiche”: da Epitteto, il quale afferma che la morte “non ci riguarda” perché non ci saremo più, a Lucrezio, che parla dell’assenza di ogni sensibilità dovuta alla dissoluzione del corpo. La riflessione filosofica sulla morte è stata talvolta pervasa di pessimismo (“la morte è lo scacco finale che getta nel nulla”), di ottimismo (“la morte apre ad una nuova dimensione e a una promessa di premio o di punizione per la condotta di vita”) o di indifferenza (“la filosofia è meditazione sulla vita non sulla morte”). Non è importante chiedersi se esista un “significato universale”, perché ogni significato che abbia la pretesa di essere assoluto e definitivo banalizza la fine della vita personale che sentiamo unica e irripetibile. In fondo gli uomini fanno diverse esperienze della morte. 1. Per sentito dire: “sai che nella guerra di Libia sono morti circa 17.000 uomini?” La morte diventa una notizia che accresce il desiderio di conoscere: un’informazione tra le informazioni. 2. Poi c’è la morte degli altri: delle persone che frequentiamo e delle persone che amiamo. 3. Poi ci sarà la nostra morte. Che potrà essere istantanea o a seguito di un periodo di sofferenza e di malattia. È vero che quest’ultima è «la nostra morte», ma essa non consentirà un tempo supplementare per meditare sugli ultimi istanti. Allora, l’unica morte che veramente tocca la nostra vita, più prossima persino della morte personale, è la morte degli altri. Nel familiare o nel compagno di classe che muore la vita rivela la propria precarietà. Lo strappo ci presenta la perdita in tutti i suoi aspetti: il venir meno dell’incontro, della relazione, della memoria e del futuro. Ci fa sentire soli, abbandonati, svuotati. Ognuno vive la separazione da chi ama o da chi conosce come riduzione di sé. C’è un momento, quando siamo bambini, in cui non sappiamo di dover morire. E c’è un momento in cui viviamo portando nel cuore l’assenza delle persone care. Certo, possiamo ancora essere felici, anche se siamo consapevoli che la morte tinge irreversibilmente il mondo interiore: storie e nomi che mancano configurano l’andatura, plasmano lo sguardo e orientano i pensieri di ogni uomo.
Un caro saluto,
Alberto

lunedì 9 settembre 2013

Il tempo che fa dimenticare


Caro professore,
Io abito a fianco dei miei nonni e a loro sono molto legato. Passo molto tempo con loro e quasi tutte le sere vado a trovarli e discuto con loro di come è andata la giornata. Una sera come le altre ero in loro compagnia e stavamo guardando la televisione sul solito canale di tutte le sere. Ad un certo punto mio nonno non si è sentito bene, ha avuto un malore ed è caduto a terra sbattendo fortemente la testa sul pavimento. Mi sono spaventato molto in quanto ero vicino a lui. Dopo alcuni secondi si è risvegliato e stava bene nonostante l’evidente bollo sulla testa. In quei pochi attimi in cui lui era lì a terra, pensavo a quante cose avevo fatto con lui, ma anche a quante ancora ne potevo fare. Dopo che si risvegliò, passata la paura, mi dissi che avrei passato con loro ancora più tempo, perché quel fatto mi aveva ricordato la brevità della vita. Nei giorni che seguirono trascorsi parecchie ore con loro, anche solo a parlare del più e del meno, poi, col passare dei giorni e delle settimane, mi dimenticai quasi di quel fatto e di cosa avevo detto dopo, passavo infatti meno tempo con i miei nonni. Ecco, mi chiedo e le chiedo, come fa il tempo a far dimenticare tutti quei pensieri e quelle emozioni che si provano subito dopo l’accaduto?
Gabriele, classe I

Caro Gabriele
Ci sono situazioni in cui la precarietà dell’esistenza si rivela con una folgorazione. Una rapidissima intuizione apre una crepa nella linearità del tempo e nella routine anestetizzante di certe giornate e consente di captare la fragilità delle relazioni, il carattere temporaneo di ogni legame affettivo, la caducità della vita. Il timore della perdita risveglia la volontà di vivere ogni istante con maggiore consapevolezza, ed è per questo che in alcuni casi cerchiamo di elevare la qualità degli incontri, moltiplicare le attenzioni, accrescere la condivisione del tempo con gli altri. In questi attimi comprendiamo quanto sia essenziale dare il giusto valore ai rapporti interpersonali. Essenziale, in senso letterale, in quanto è proprio grazie alle relazioni che ogni persona costruisce la propria essenza, ciò che è. Siamo consapevoli che la vita di ciascuno è sostenuta da un reticolo di rapporti fecondi, e nel pulsare di quella linfa vitale avvertiamo che la nostra identità si fonda su una plurima appartenenza: alle persone care della famiglia e a numerose persone significative. Poiché l’interazione è inesauribile, avvertiamo spesso la necessità di promuovere la qualità del dialogo, le attività in comune e sentiamo di ricevere grandi benefici dalla condivisione di alcuni aspetti della vita. Tuttavia siamo attratti non solo da coloro che illuminano la nostra storia e quella della nostra famiglia, ma anche da coloro che agevolano il nostro orientamento nel presente e tengono desta la nostra tensione verso ciò che potremmo diventare o compiere. Sentiamo dunque che c’è una parte profonda di noi che si genera e si potenzia nelle interazioni famigliari, mentre una parte riceve alimento dalla fiducia che si instaura al di fuori di questo nucleo. Forse è anche per questo che non possiamo vivere solo in un’unica dimensione, anche se questa dimensione è costituita dai nostri cari. Abbiamo bisogno anche di coetanei e di adulti ai quali legare la nostra immaginazione, affidare i nostri progetti, comunicare le nostre intuizioni sulla vita. Il tempo affievolisce i ricordi, smorza la perentorietà delle promesse, mitiga i dolori. Seneca scriveva al proprio amico Paolino: «nuovi impegni subentrano ai vecchi, ogni speranza accende un'altra speranza, ogni ambizione una nuova ambizione. Non si cerca una fine delle proprie miserie: se ne sostituisce la materia». Anche se con una connotazione negativa, Seneca sottolinea il carattere di continua tensione dell’uomo verso le novità. Viviamo tuttavia sempre in un equilibro di rapporti e, di tanto in tanto, scegliamo di portare alimento a questa o a quest’altra arteria della relazione. Quando intuiamo che stiamo sottovalutando una componente affettiva importante, possiamo sempre tentare di porvi rimedio, ristabilendo la priorità di alcune relazioni trascurate. E tornare ciclicamente su una relazione è segno di un’assunzione di responsabilità e dipende dal valore che diamo a quel rapporto nella costituzione di noi stessi.
Un caro saluto,
Alberto

lunedì 2 settembre 2013

La musica e la vita



Caro professore,
L'altro giorno, mentre ero in viaggio, ascoltavo una delle mie canzoni preferite e ho pensato a quanto le canzoni condizionino l'umore. Per esempio, quando sono triste tendo ad ascoltare canzoni rock melodiche, mentre quando voglio darmi la carica ascolto canzoni dance e mi faccio trasportare dal ritmo, dal suono delle parole e così via, fino ad immedesimarmi nella canzone stessa...mi sento parte integrante della canzone, la sento, in quel momento, la mia unica amica, la parte mancante del mio io, quella “persona” che sa dirti le giuste parole al momento giusto, che sa confortarti e darti la carica quando ne hai bisogno! Ma è possibile che la musica possa fare ciò? Suscitare emozioni, quali tristezza, felicità e addirittura angoscia?
Mara, classe 3B

Cara Mara,
Platone fa riferimento alla capacità della musica di (ri)generare l’armonia dell’anima. Egli scrive nel “Timeo” che la musica «è stata data dalle Muse per ordinare e rendere consono con se stesso il circolo della nostra anima che fosse diventato discorde». E poi aggiunge che il ritmo ha lo scopo di ovviare alla «mancanza di misura e di grazia» che si genera nell’animo umano. Egli intende la musica con una funzione psicagogica, cioè in grado di impressionare e guidare la mente, in quanto esercita una suggestione profonda sugli stati d’animo. I malesseri dell’animo sono, per certi aspetti, curabili con la terapia musicale. Un po’ come ritieni anche tu, egli fa dunque riferimento ad una funzione curativa della musica: la considera infatti come una medicina allopatica, ossia che funziona per contrasto, per restituire armonia all’uomo. Nelle “Leggi” Platone scrive che i canti pacati e armonici, infatti, calmano i neonati e coloro che sono affetti da furore dionisiaco, mentre altre melodie sono in grado di produrre vivacità e gaiezza (un po’ come le tue “canzoni dance”). Ma la musica non ha solo il compito di calmare stati d’animo alterati o infondere energia. Può esprimere la vita. Sulla copertina di un libro bellissimo dello scrittore cuneese Lele Viola (“Tre vecchie foto”, Primalpe 2006) appare un uomo anziano che tiene in mano una piccola fisarmonica a bottoni, il semitoun. Il protagonista del racconto, Mario, «uomo timido e pacato i cui silenzi facevano da contraltare al fiume di parole» dell’amico Toni, ha ricevuto il semitoun da uno zio morto in guerra. Ad un certo punto pronuncia queste parole: «Pensa che son stato zitto per anni, la gente che non mi conosceva pensava che fossi muto o sordo. Gli altri sapevano che ero solo scemo, mi chiamavano Mario lou fol. Ho imparato a parlare normalmente solo dopo che mi era capitato in mano il semitoun. Ma c'è voluto del tempo. Non riuscivo a trovare i tasti che liberassero le aperture della mia testa e lasciassero uscire finalmente le parole e i pensieri che avevo dentro. Passavo tutto il tempo libero a rincorrere i suoni che le mie dita creavano, a dare aria al mantice per far vivere lo strumento». Sembra allora che le canzoni non solo “condizionino l’umore”, ma che la musica sia un itinerario parallelo alla parola per entrare in relazione con il mondo. C’è chi si affida al ragionamento, chi ai suoni, alla pittura, alla scultura o ad ogni opera in cui riesce a costruire un linguaggio alternativo. La musica talvolta precede il discorso logico, talvolta lo completa o semplicemente lo rende possibile. Se in alcuni casi le parole pronunciate possono produrre fraintendimenti, la musica, che si incunea sotto la pelle del discorso razionale, fa convergere emozioni, libera i pensieri dalla fissità o dall’univocità dell’interpretazione. È come se gli armonici della musica risvegliassero gli armonici emotivi delle persone con cui si interagisce. Nel caso del protagonista del racconto citato, mi sembra che la musica non esprima solo le intenzioni dell’autore, ma faccia emergere un mondo, dia voce anche a ciò che è inanimato, alla natura, ad un borgo, alla storia. Come se il soggetto che esprime la musica fosse un io allargato in cerchi concentrici che non manifesta solo se stesso, ma la relazione con l’ambiente a cui appartiene. La musica non risveglia esclusivamente emozioni. Permette all’uomo di rivelare il proprio peculiare rapporto con il mondo.
Un caro saluto,
Alberto