Cerca nel blog

Cor-rispondenze

lunedì 21 aprile 2014

Perché siamo qua?




Caro professore,
Una domanda che vorrei porgerle riguarda l’esistenza dell’uomo. Tutti gli uomini durante la propria vita si pongono la domanda: «chi siamo?», oppure «qual è lo scopo della mia vita?». Io mi chiedo: come può pensare l’uomo di prendere decisioni per la propria vita, cosa fare, se non sa neanche la motivazione della propria esistenza?
Jessica, 4D

Cara Jessica,
Nessuno sa quale sia la motivazione della propria esistenza; neppure i genitori scelgono i loro figli specifici, anche se li hanno attesi, pensati e anticipati nell’immaginazione. Siamo nel mondo senza sapere perché. Scriveva Lucrezio che la natura getta il bambino dal ventre della madre sulla riva della luce («in luminis oras») come il naufrago viene scaraventato sulla terra dai flutti del mare agitato. «E il bambino, come un naufrago buttato a riva dalle onde infuriate, giace nudo in terra privo di parola, bisognoso d’ogni aiuto vitale, non appena sulle spiagge della luce con dolorosi sforzi natura l’ha gettato fuor dal ventre della madre». Siamo dunque «nudi a terra» e «privi di parola», scaraventati nella vita. Certo, le religioni ci dicono che per quanto la vita sia per noi incomprensibile non è frutto del caso, ma ogni interpretazione non toglie il peso dello smarrimento e non sottrae l’uomo dal turbamento profondo. Sono molti i filosofi che hanno reso bene l’idea di assenza di giustificazione dell’esistenza con specifiche locuzioni: «essere imbarcati» (Pascal), «essere-gettati» Heidegger, «caduta nel tempo» (Cioran). Anche Goethe (lettera a Lavater del 6 marzo 1776) utilizzava la metafora del mare per parlare della condizione umana: «Sono ora imbarcato sull'onda del mondo, assolutamente deciso: a scoprire, vincere, lottare, naufragare, o saltare in aria con tutto il carico». Gli uomini sono nel mondo senza istruzioni, né formazione né preparazione. In questo senso sentono l’angoscia, un sentimento molto più potente della paura, perché se la paura è determinata da un oggetto, quindi rimosso l’oggetto essa scompare, l’angoscia è una condizione esistenziale che non ha a che fare con nulla di preciso, ma con la semplice consapevolezza della sospensione dell’uomo nel tempo, tra molteplici possibilità. È una condizione così intima e genera un tormento così pervasivo che neppure l’apparato tecnico a cui gli uomini si rivolgono per cercare ogni risposta riesce a rimuovere. L’ingresso nel mondo produce dunque smarrimento, non tanto perché ci troviamo in un labirinto di cui non conosciamo gli estremi, ma perché abbiamo bisogno del labirinto della vita per stabilire chi siamo, perché senza l’intrico del mondo siamo solo organismo, forma indistinta che non può né orientarsi né porsi domande. Siamo nella vita e coinvolti nella storia in un preciso contesto e in un luogo determinato, e a partire da queste condizioni creiamo progressivamente un’idea di noi stessi e della realtà con cui da sempre ci relazioniamo. Perché, come direbbe Heidegger, non siamo nel mondo al modo dell’acqua che è contenuta in un bicchiere. Non c’è un io che si preserva inalterato dentro una scatola nera, come un marinaio su una barca, ma siamo forma che si determina nelle relazioni a partire da precise condizioni. Poiché la nostra essenza (ciò che siamo) è determinata dall’esistenza (dalle scelte che compiamo), siamo da sempre relazione con il mondo dentro un perimetro storico, un’apertura oltre la quale non ci è concesso andare. Siamo gettati, nel nostro caso in un mondo pieno di benessere, di informazioni e opportunità. Un mondo stimolante che oggi come non mai permette di accedere a conoscenze formidabili; in cui, tuttavia, con l’aumentare vertiginoso delle possibilità, sentiamo fortemente il peso della libertà. Dobbiamo prendere decisioni sulla nostra vita, indipendentemente dalle sue ragioni, perché senza scelte – ossia decisioni che eliminano le ambivalenze –, non saremmo altro che un aggregato di molecole che non possono balzare fuori da quello che lo psicoanalista Aldo Carotenuto (1933-2005) definiva il «grande grembo dell’indifferenziazione». Dobbiamo dunque assumerci delle responsabilità. Anche se la vita fosse caso, dobbiamo trasformarla in destino, ossia dobbiamo assumere il passato e le opportunità per dare forma e direzione al nostro cammino. Assumere il proprio destino non significa rassegnarsi all’inevitabile o subire ciò che è fatale, ma stabilire ciò a cui «destinare» la vita attraverso la propria volontà; è dunque il cammino a cui ogni uomo si indirizza per vivere in modo autentico. Sia che la vita abbia uno scopo sia che sia assenza di scopo, l’uomo dà forma al proprio percorso. E una vita buona è una vita autentica. Aldo Carotenuto scriveva che «La nostra vita è autentica non quando sembra scorrere come un placido fiume, non quando appare scevra di difficoltà e impedimenti, ma quando, confrontandoci con essa, sentiamo che ci appartiene, che esprime e descrive ciò che noi siamo, che rappresenta il risultato delle nostre libere scelte».
Un caro saluto,
Alberto

lunedì 14 aprile 2014

L'amicizia cambiata


amiche.jpg


Caro professore,
oggi volevo parlarle del rapporto di amicizia tra me e la mia migliore amica. Ci conosciamo da quando avevamo tre anni, ci siamo incontrate all’asilo. Siamo subito diventate due amiche inseparabili, tant’è vero che abbiamo fatto tutte le scuole insieme fino alla terza media, quando abbiamo scelto due scuole superiori diverse. Negli ultimi due anni non ci siamo viste molto, nonostante abitiamo vicine. Abbiamo incominciato a incontrarci e a passare di nuovo del tempo insieme la scorsa estate, ma lei non è più com’era una volta. Mi racconta sempre tutto quello che fa o succede a scuola, alle feste o nella sua famiglia e io, ogni volta che parla, penso che sia cambiata radicalmente, perché ha fatto delle scelte che mai mi sarei aspettata, soprattutto da lei. Continuiamo a vederci e ogni volta mi chiedo che cosa sia successo in due anni per farla cambiare così, o anche cosa sia successo a me. Certe volte cerco di spiegarle come la vedo io, cercando di non ferirla, ma lei sostiene che non è così: dice che non è cambiata lei, ma che sono cambiata io. Questa sua ipotesi mi fa pensare, ma non toglie il fatto che non siamo più legate come prima.
Cecilia, II B

Cara Cecilia,
Cicerone diceva che «L'amicizia non è altro che un’intesa sul divino e sull’umano congiunta a un profondo affetto». Trovo che sia una sintesi efficace, perché insieme all’attaccamento sottolinea un’alleanza sulle dimensioni fondamentali dell’esistenza. Per questo il filosofo riteneva che, «eccetto la saggezza», l’amicizia fosse il dono più grande concesso dagli dei agli uomini. Capita che alcune persone con cui ci relazioniamo in tenera età ci accompagnino per tutta la vita. In questo caso gli amici potrebbero essere rappresentati come due navi che scivolano nel mare, a volte calmo a volte burrascoso dell’esistenza, più vicine o più lontane senza una precisa intenzionalità. Incontrare un amico d’infanzia e riconoscere dai suoi occhi che sono sufficienti pochi minuti per ristabilire l’affiatamento di un tempo, è come riconoscere la stessa nave dopo anni di navigazione. Tuttavia, spesso si avverte che nella traversata la distanza ha provocato uno scostamento di direzione dovuto ad una metamorfosi interiore. Così si scopre che l’allontanamento ha generato divergenze che non si possono colmare neanche ritoccando l’angolo di rotta. Non è solo la lontananza fisica a far affievolire sentimenti e affinità, è piuttosto la metamorfosi interiore, che ogni uomo fatica a riconoscere su di sé, ad essere così vistosa da rendere irriconoscibili anche le migliori amiche di un tempo. Entrambe infatti pensate: «lei non è più com’era una volta». Come su una barca i marinai non si accorgono del movimento perpetuo della corrente e percepiscono incautamente la propria immobilità, così anche le persone cambiano senza avvertire la novità del loro sguardo sul mondo. Solo gli oggetti sono come erano un tempo, gli uomini si trasformano, perché questa è la loro essenza. Ci sono mutamenti in cui si riconoscono, perché intravedono un percorso comune e ci sono evoluzioni che disapprovano in quanto si allontanano da un’immagine precostituita. Così ci si rende conto che la vita non scorre più su una scia parallela o che il rapporto non funziona più, ma occorre considerare che la crescita di ognuno avviene in tempi diversi: c’è chi si attarda a fare scelte per noi importanti e chi sceglie altri itinerari. Alcuni cambiamenti sono irreversibili e l’esteriorità è solo il pallido riflesso di una modificazione che ha una motrice invisibile. Capita così di non riconoscersi o di non approvare l’altro, soprattutto perché non si avverte il proprio inesorabile rinnovamento. Aristotele, che ha scritto pagine bellissime sull’amicizia non solo nell’opera più nota, l’“Etica Nicomachea”, ma anche nella “Grande etica”, affermava che per avvertire anche il nostro cambiamento abbiamo bisogno degli altri: «Poiché dunque il conoscere se stessi è tanto la cosa più difficile, [...] noi non siamo capaci di vedere da noi stessi come siamo noi stessi». Per questo spesso colpevolizziamo gli amici o deprechiamo le loro scelte senza renderci conto del nostro impercettibile, ma inesorabile, mutamento. Aristotele spiega bene questa circostanza e scrive: «e che noi non possiamo conoscere noi stessi risulta evidente da come rimproveriamo gli altri senza accorgerci che anche noi facciamo le stesse cose; e questo avviene per benevolenza o per passione; e molti di noi sono accecati da queste cose, sì da non giudicare rettamente». Solo l’altro rende visibile ciò che è accaduto di ciò che eravamo. In fondo cambiamo persino gusti alimentari, quasi senza avvertirne il motivo: un tempo non amavamo un cibo e in un tempo successivo questo diventa indispensabile. Così registriamo diversamente i fatti, associamo parole e idee in modo inconsueto, perché le esperienze mutano i colori della nostra identità. Allo stesso modo ci sono scelte che allentano fino a sciogliere relazioni che sembravano stabili e immortali. Ma non dobbiamo dimenticare che non contempliamo gli amici dalla terraferma, come quando assistiamo alla proiezione di un film, perché siamo tutti coinvolti dal medesimo movimento, implacabile, del mare sottostante.
Un caro saluto,
Alberto