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Cor-rispondenze

lunedì 29 gennaio 2018

La strada è il perdono

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Caro professore,
Se rimanessimo fermi a guardare i torti subiti, i nostri cuori sarebbero troppo occupati a piangere per il male ricevuto o a cercare di rendersi giustizia facendo valere le proprie ragioni o pensando a come vendicarsi. La strada per poter andare avanti, però, come ci insegnano le religioni, è il perdono. Ma perdonare significa dimenticare quello che è accaduto e ricominciare da capo, con il rischio di nuove ferite? O significa prendere atto di quello che è successo e cercare una riconciliazione? Se così fosse, però, il rapporto non sarebbe forse rovinato dal ricordo di quello sbaglio? Le energie impiegate, infatti, sarebbero meno, poiché anche la fiducia è venuta meno. Inoltre mi chiedo: il perdono nasce solo a seguito di uno “scusa” sincero, oppure è indipendente dal riconoscimento da parte dell’altro del proprio sbaglio?
Annalisa, 4H


Cara Annalisa,
«Il tempo del male si estende dal presente al passato, e dal presente al futuro», dice il grande psichiatra Eugenio Borgna. Se gli uomini si fermassero a soppesare i torti subìti, la vita sarebbe imbrigliata da continui regolamenti di conti e i pensieri dominati dalla frustrazione e dal dolore. Per condurre una vita buona bisogna quindi saper fare un passo in avanti. Nella storia ci sono azioni che sono state perdonate e altre no. Quando Pompeo nel 63 a.C. cinse d'assedio Gerusalemme, dopo aver occupato il Tempio violò il «sancta sanctorum», ossia entrò nella parte accessibile solo al gran sacerdote e nella quale si custodivano le tavole della legge («Iattura ancora più grave agli occhi non solo degli integralisti, ma dell'intero popolo»). Quella sfrontatezza non gli fu perdonata, infatti, scrive lo storico Giovanni Brizzi: «durante una delle tante rivolte in Alessandria d'Egitto gruppi di ribelli ebraici vendicarono a posteriori l'oltraggio da lui commesso distruggendone il sepolcro e disperdendone i resti». (Giovanni Brizzi, 70 d.C. La conquista di Gerusalemme). Di segno diverso, invece, fu il comportamento di Matthew Ridgway, il generale che – dopo aver preso il posto di Eisenhower come Comandante supremo degli Alleati in Europa –, nel 1953 chiese agli Alti commissari delle Nazioni Unite «di concedere il perdono a tutti gli ufficiali tedeschi precedentemente condannati per crimini di guerra sul fronte orientale». Distinguendo tra soldati della Wehrmacht e nazisti, ossia tra i soldati che combatterono per la patria e i fanatici più crudeli del regime, Ridgway seppe differenziare le colpe e chiese il perdono per una parte dei giovani tedeschi (Tony Judt, Postwar. Europa 1945-2005). Come vedi, la valutazione di ciò che è perdonabile o imperdonabile è assai soggettiva e di natura culturale: a volte non si perdona ciò che è simbolicamente rilevante per una fede o un popolo, a volte si concedono attenuanti anche a chi ha ucciso, se obbligato da uno Stato a prendere parte ad una guerra. Nelle relazioni interpersonali, credo che sia la vita stessa a chiederci di «non estendere il tempo del male» né le sue tracce. Dimenticare un torto o una violenza subìti è tuttavia molto difficile. Inoltre, come giustamente rilevi, si può correre il rischio di essere nuovamente feriti. Il perdòno non è affatto facile e non tutti sono all’altezza di esso: nel duplice senso che non tutti sono in grado di perdonare (non è un’azione comoda) né di essere perdonati (non tutte le colpe possono essere perdonate). Sia nelle relazioni interpersonali sia in quelle internazionali, nella dinamica del perdòno è inevitabile che ci siano delle colpe che si pèrdono, perché chi perdona esce dalla logica della reciprocità dei comportamenti malvagi, in quanto interrompe la restituzione della violenza. Per giungere a mettere in atto il perdono credo siano necessari due elementi: bisogna non voler ancorare l’altro all’errore di cui si è macchiato e neppure se stessi al pensiero di quell’errore. Si tratta dunque di fare un duplice sforzo: non vincolare l’altro all’errore compiuto, significa riconoscere che tutti possiamo sbagliare e soprattutto che nessun uomo è riducibile ad un solo comportamento, anche se questo non è stato esemplare. Chi ha sbagliato può sempre correggere la propria condotta o le proprie valutazioni. Se ogni relazione necessita di gesti di fiducia – che di solito sono corrisposti –, nel caso del perdono la fiducia si origina non da una reciprocità della condotta, ma da un’asimmetria. È infatti per-dono, ossia per la benevolenza di qualcuno che si ottiene il privilegio di non essere avvinghiati per sempre alle proprie mancanze. Ma non è detto che la persona perdonata meriti la fiducia e sia in grado di migliorare. In questo caso, dopo aver concesso una seconda chance al proprio interlocutore, l’ulteriore fiducia donata non sarà svincolata dai comportamenti futuri. C’è però anche un secondo aspetto benefico del perdono: non vincolare se stessi al pensiero di una ferita, significa scongiurare che le riflessioni di chi è stato danneggiato gravitino intorno al nucleo di un torto. In questo modo il perdono non solo libera l’altro, ma libera anche il soggetto offeso da quelle meditazioni ossessive che, polarizzando l’attenzione su ciò che è negativo, riducono l’ideazione e rendono insopportabile e triste la vita. Ci vogliono grande forza e grande maturità per perdonare, perché il vero perdono non riguarda le piccole disattenzioni di cui chiederemo “pardon” o “perdoname” e per le quali è ovvio che saremo perdonati, ma riguarda la struttura stessa della relazione che ha come presupposti il rispetto e la fiducia.
Un caro saluto,

Alberto

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