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Cor-rispondenze

lunedì 31 dicembre 2012

In time




Caro professore,
Poco tempo fa ho visto il film “In time”. La critica lo ritiene un semplice film, nulla di eccezionale, ma nessuno si è accorto che questo film è esattamente uno specchio della nostra società. Da noi si dice "il tempo è denaro", e in questo film la frase deve essere intesa in senso letterale: la valuta è il tempo. Già adesso si può notare che la gente veramente ricca è quella che ha tempo: tempo per rilassarsi, divertirsi, uscire con gli amici, guardare un film. E in questo film, tra i ricchi pieni di tempo, e quindi immortali, e i poveri che vivono alla giornata, viene da chiedersi se noi non ci stiamo costruendo da soli la nostra tomba in questa società frenetica e quasi senza limiti, diventando dipendenti dal tempo che è sempre di meno?
Gabriele

Caro Gabriele,
E’ vero, la valuta è il tempo: gli uomini sono geneticamente programmati per smettere di vivere a 25 anni e possono vivere solo un anno in più se non riescono a guadagnare altro tempo. Il tempo è il vero denaro: lo si guadagna e lo si spende. I ricchi possono vivere per sempre, gli altri vivono alla giornata prima che gli istanti sfuggano loro dalle mani. Tutti hanno il tempo tatuato sul braccio, ben visibile. Alla madre del protagonista restano tre giorni di vita: la metà per l’affitto, 8 ore per l’elettricità e poi la rata del prestito, ma nonostante questo riesce a regalare 30 minuti al figlio per avere un pranzo decente. Lo scambio avviene con una stretta all’avambraccio. È un mondo in cui i mendicanti per la strada non chiedono denaro, ma 5 minuti qua e là, magari per pagare le bollette. Si elemosina il tempo. Una tazza di caffè costa 4 minuti, un caffè doppio 6 minuti, un the 2, 45 un doppio the 4 e così via. E si viene pagati in minuti. I ricchi hanno a disposizione un tempo enorme, non guardano mai l’orologio e si possono permettere di sprecarlo, mentre i poveri lo guardano spesso, perché hanno consapevolezza che devono morire. Nel film tuttavia i ricchi non sono felici: la figlia dell’uomo più ricco scappa con il primo che incontra pur di vivere un’esperienza autentica. Hanno accumulato enormi risorse temporali, ma nella loro vita non c’è attesa (di un tempo che deve venire), non c’è progetto (di un tempo come scopo), non c’è apertura né alla dimensione del prossimo (un tempo come relazione nel finito) né alla trascendenza (un tempo come relazione con l’infinito). Mirano ad un’eterna durata come pura autoconservazione, ma così l’esistenza negli anni si svuota e diventa priva di vita. Colmi di anni, ma obbligati a rubare istanti altrui per sopravvivere, gli uomini sviluppano indifferenza nei confronti del mondo (l’apatia provoca un suicidio), e sentono l’insopportabilità soffocante della ripetizione del ciclo della vita. Francois Jullien, un filosofo francese che si occupa del mondo cinese, ha scritto qualche anno fa nel suo libro “Il tempo: elementi di una filosofia del vivere” (Sossella 2002) questa frase: «è il tempo che passa o siamo noi che passiamo?» Ho poi ritrovato lo stesso concetto nel romanzo Paula (Feltrinelli 1995), scritto da Isabel Allende, un libro bellissimo in cui la scrittrice cilena racconta l’esperienza con la figlia caduta in coma per una malattia. Scrive Allende: «Ho passato quarantanove anni correndo, nell’azione e nella lotta, dietro mete che non ricordo, inseguendo qualcosa senza nome che era sempre più in là. Ora sono costretta a rimanere ferma e silenziosa, per quanto corra non arrivo da nessuna parte, se grido nessuno mi sente. Mi hai dato il silenzio per riflettere sul mio passaggio in questo mondo, Paula, per tornare al passato vero e al passato fantastico, recuperare la memoria che altri hanno dimenticato, ricordare ciò che mai accadde e che forse accadrà. Assente, muta e paralizzata, tu sei la mia guida. Il tempo passa lentissimo. O forse il tempo non passa, siamo noi che passiamo attraverso il tempo». Concentriamoci solo sulla seconda parte della proposizione: «siamo noi che passiamo». Il tempo è la dimensione della nostra vita. Certo, nella nostra epoca viviamo un’accelerazione del tempo - questa accelerazione ha un inizio lontano, almeno a partire dalla rivoluzione francese, ed è indagata in modo splendido dal filosofo Diego Fusaro in “Essere senza tempo” -, ma non dobbiamo dimenticare che il tempo rivela la nostra contingenza, svela la precarietà dei nostri gesti. Il tempo ha valore, perché è nel tempo che ogni uomo costruisce progressivamente se stesso. E la consapevolezza della finitudine della vita non riduce l’intensità delle esperienze e dei progetti, semmai consente di valorizzare meglio le nostre giornate. Abbiamo a disposizione più tempo che nelle altre epoche, ma non abbiamo ancora imparato a gustarlo a sufficienza.
Un caro saluto,
Alberto

pubblicato in parte su «La Guida», venerdì 28 dicembre 2012

martedì 25 dicembre 2012

Casa famiglia


Caro professore,
Circa una settimana fa, parlando con un mio amico i cui genitori hanno creato una casa famiglia, mi sono sorti diversi dubbi e tante domande. Fin da piccola sono stata abituata a vedere la mia famiglia come una "cosa" solo mia, diventando gelosa nei momenti in cui le attenzioni non ricadevano tutte su di me. Entrando nell'argomento gli ho chiesto cosa provava nel dover condividere la casa e i suoi genitori con persone estranee, ma lui con molta semplicità mi ha risposto che noi siamo fortunati ad avere qualcuno che ci ama ed è giusto dare la possibilità anche a questi bambini. Mi sentivo atterrita, ma ho continuato con le mie domande per più di un ora e adesso il mio dubbio è: sono egoista nel non voler condividere con gli altri la mia famiglia o è un pensiero di molti miei coetanei?
Elisa


Cara Elisa,
Tolstoj, in “Risurrezione”, riporta questo dialogo: «- Volevo chiederle del bambino. Ha partorito da lei, no? Dov'è il bambino? - Per il bambinello, mio caro, io l'avevo pensata bene. Lei stava troppo male, non si sperava più che si alzasse. E io ho fatto battezzare il bambino, come si deve, e l'ho mandato all'orfanotrofio. Be', perché far soffrire un angioletto, quando la madre sta morendo. Altre fanno così: lasciano il piccino, non gli danno da mangiare, e lui se ne va all'altro mondo; ma io ho pensato: perché far così, piuttosto faticherò, lo manderò all'orfanotrofio. I soldi c'erano, e così ce l'abbiamo portato». Se si leggono i classici, soprattutto dell’Ottocento, o qualche opera di storia (“Storia dell’infanzia”, Dedalo 2002) si scopre immediatamente l’infelice condizione dell’infanzia abbandonata. Ricordo qualche anno fa il titolo di un libro “Nascere senza venire alla luce” (Franco Angeli 2010), un’indagine sugli abbandoni nella provincia di Torino. Il titolo esprime l’idea che per una buona vita non basta nascere, occorre che venga alla luce il mondo che ci ha generato, con gli elementi positivi e le sfaccettature ombrose, mentre sappiamo che molti bambini segregati negli orfanotrofi non hanno visto neppure la luce del sole. In Italia una legge ha decretato la chiusura degli orfanotrofi il 31 dicembre 2006, mentre qualche decennio prima erano già nate le case-famiglia. Capisco che l’esperienza del tuo amico ti abbia sconvolta, perché ti ha messo di fronte ad un’avventura eccezionale, in quanto fondata su una scelta di vita e non sul sangue. Nella storia dell’Occidente siamo passati dalla famiglia allargata, in cui sotto lo stesso tetto vivevano genitori, figli e parenti, alla famiglia nucleare, composta dai genitori e dai figli. Diciamo che la casa famiglia è una nuova famiglia allargata i cui componenti non sono esclusivamente i consanguinei, ma altre persone. È certamente un’esperienza eroica, perché molti bambini abbandonati o sottratti alla famiglia originaria portano su di sé un vuoto che difficilmente si può colmare, ferite lontane che una vita intera non riesce a rimarginare, e il fatto che qualcuno si prenda cura di loro e li accolga impedisce che il senso di quelle vite deflagri. È tuttavia un’esperienza che scardina le aspettative di relazione uno a uno e la centralità di un figlio rispetto all’altro, perché la relazione non determinata dal legame di sangue è retta esclusivamente da una scelta di amore e di responsabilità. Ed è un’avventura difficile per tutti i componenti della famiglia. Si tratta di un cammino graduale di persone che imparano a conoscersi e ad accogliersi, tra accettazione e paura, generosità e timori. Il fatto che il tuo amico abbia risposto «con molta semplicità», significa che ha avuto il tempo di essere preparato per vivere quell’esperienza nel modo giusto, ossia ha maturato la convinzione che si può essere amati in modo esclusivo senza escludere gli altri. Non sentirti in colpa o egoista, nessuno da solo può reggere una situazione che eccede la propria comprensione e il vissuto collaudato. Occorre molta preparazione per affrontare una condizione così particolare. La psicologa Anna Oliverio Ferraris nel libro “Il cammino dell’adozione” (RCS 2002) scrive: «Il cammino dell'adozione ci ricorda che non esiste la famiglia perfetta: ciò che conta sono i rapporti tra le persone, nel rispetto dei punti di vista diversi, dei tempi, dei sogni e delle realtà di ciascuno». Ammiriamo, tuttavia, chi è in grado di allargare i propri orizzonti, perché ci insegna che l’amore dato a due persone non è la metà di quello dato a una.
Un caro saluto,
alberto

pubblicato in parte su «La Guida», venerdì 21 dicembre 2012

lunedì 17 dicembre 2012

Rivoglio il mio Natale

Caro professore,
Proprio come quando ero bimba oggi ho guardato Barbie. Il titolo del film era "Barbie e il Natale perfetto". Poco più di un'ora di visione è stato sufficiente per farmi ricordare... Qualche anno fa per me il Natale era il giorno perfetto, era ciò che aspettavo per 365 giorni, era una carica di energia: tutte quelle luci, tutta quell'agitazione nei supermercati, tutto quel "va e vieni", quelle telefonate ai parenti lontani dell'ultimo momento... Proprio il 25 dicembre mi svegliavo alle 8, raggiungevo di corsa l'albero e inginocchiata sulle piastrelle fredde afferravo un regalo e stracciavo la carta. Puntualmente dopo aver notato che l'avevo rotta mi dispiacevo, prendevo il fiocco e lo conservavo quasi come un risarcimento per il danno fatto. Mi assaliva un'adrenalina pura ed era proprio quella che mi aveva dato la forza di alzarmi dal letto. Era la fine di un percorso che affrontavo molto giudiziosamente, infatti ogni anno mi facevo comprare da mamma il calendario dell'avvento e giorno dopo giorno aprivo una finestrella. Ma dov'è ora il mio Natale? Dov'è quel sorriso che avevo da bambina? Perché quando si cresce si smette di credere nella magia del Natale? Mi ero promessa che io non sarei caduta nell'uragano dei grandi realisti, ero certa che avrei continuato a vedere il Natale con gli occhi di un piccino. Perché invece sono stata risucchiata anche io nel vortice? Non ho mantenuto la promessa. Rivoglio il mio Natale, rivoglio vivere quell'atmosfera particolare. Sarà possibile? Uscirò dall' "uragano realismo"? E' una legge della natura quella di crescere e affrontare la vita in modo diverso, lo definirei più coi "piedi per terra"?
Capisco Peter Pan...                                      
Stefania III B
 
Cara Stefania,
Fino a quando siamo piccoli il mondo che ci accoglie si predispone per noi. Viviamo nell’incanto di momenti magici preparati dalla nostra famiglia e dalla società. Così anche il Natale diventa un «giorno perfetto», tanto vagheggiato; l’attesa di un momento importante che «carica di energia» e attiva «l’adrenalina». Tuttavia, la musica “Venite fedeli” oggi risuona anche nei centri commerciali, dove i clienti sono premiati se possiedono la “carta fedeltà”, e non si capisce bene se i fedeli sono ancora i devoti di Cristo o semplicemente gli affezionati dei supermarket. E non è colpa della ragione, perché la ragione sa bene che la società consumistica si serve di tutto per vendere. Lascia stare il mondo apparentemente «perfetto» di Barbie e delle sue sorelle, Skipper, Stacie e Chelsea (mi sono informato) e, se proprio cerchi la perfezione, cercala altrove. Per ritrovare l’incanto occorre un’inversione di rotta; potremmo dire: dal Natale delle luci (esterne) al Natale della luce (interiore). Stefano Benni, in La grammatica di Dio, racconta di una bambina, Alice - 16 anni come te -, che cammina sotto le luci di Natale, tra «galassie di neon e comete pulsanti offerte dall'Unione commercianti». Benni scrive: «Il centro della città è illuminato, la periferia quasi al buio. I negozi si devono vedere, le persone possono anche scomparire». Se «rivuoi il tuo Natale», sposta la luce dai negozi alle persone, affinché non siano (solo) gli oggetti ad essere illuminati, ma i tuoi simili; orienta il faro della tua attenzione a coloro che incontri, agli amici che conosci e alla gente ignorata, diventa tu una piccola luce in grado di «incantare» chi si è perso nell’ordinario, chi ha smarrito la fiducia nel cambiamento di sé e del mondo. Il mondo ha perso l’incanto, perché attraversato da quello che tu chiami «l’uragano della ragione». Nel tuo percorso di crescita individuale quell’uragano ha rimescolato le carte dei significati da attribuire ai valori e alle relazioni, mentre nel percorso dell’umanità ha liberato gli uomini dai sedimenti dell’irrazionalità e della superstizione. Ma non bisogna aver paura della ragione, la ragione non distrugge invano, toglie le incrostazioni per riportare le valutazioni nella giusta dimensione. Allora il sorriso della bambina che è in te - e in tutti noi - non riaffiorerà una sola volta all’anno, ma accompagnerà spesso la tua vita. Il tuo Natale non avrà le sembianze perfette di quello artificioso di Barbie, ma sarà imperfetto come quello di ciascuno di noi. E, proprio per questo, molto probabilmente, autentico.
Un caro saluto,
alberto
 
pubblicato su «La Guida» venerdì 14 dicembre 2012

martedì 4 dicembre 2012

Presentazione del libro "La battaglia di Ceresole"


 
http://www.fondazionedelfino.it/

Cari amici,
La fondazione Delfino di Cuneo mi ha offerto la
possibilità di presentare il mio lavoro sulla Battaglia di Ceresole,
l'ultimo scontro tra Francesco I e Carlo V in Piemonte.

Presenteremo il libro
VENERDI' 7 DICEMBRE alle ore 17.00.
Siete tutti invitati.

Nell'occasione verrà esposto il bassorilievo centrale della tomba di
Francesco I a Saint-Denis, una copia realizzata nell'Ottocento.
Un caro saluto,
Alberto Lusso

lunedì 3 dicembre 2012

Corrispondenze su «La Guida»

Cari ragazzi,
riporto l'articolo apparso su La Guida di Cuneo che presentava la nuova rubrica: Corrispondenze

Questa settimana comincia una nuova rubrica rivolta agli adolescenti, per rispondere a domande relative all’esistenza e alla vita. Si chiama Cor-rispondenze. Proprio così, Cor-rispondenze, con la lineetta che separa le parole, per sottolineare che le risposte alle sollecitazioni saranno una “rispondenza del cuore (cor)”. La rubrica è affidata ad Alberto Lusso, professore di Filosofia e Storia nei Licei.
L’adolescenza è certamente il periodo in cui si sperimentano molti cambiamenti fisici e culturali. Spesso le idee, le credenze e le situazioni che in passato non creavano problemi, fanno nascere quesiti a cui non si pensava. Si moltiplicano così le domande, si fatica a trovare risposte soddisfacenti, si affacciano nuovi dubbi sull’esistenza e nuovi quesiti stimolano nuove meditazioni. La filosofia può aiutare a chiarire alcuni nodi che si originano da modi diversi di sentire, da scelte di vita differenti, da idee discordanti. In un’opera di Platone, denominata Menone, Socrate viene paragonato ad una torpedine di mare, perché come la torpedine è in grado di dare la scossa a chi si avvicina, così Socrate con i suoi ragionamenti è in grado di far vacillare le presunte certezze e le illusioni dei suoi interlocutori. Chi svolge oggi il ruolo del grande filosofo greco? Chi è in grado di “dare la scossa” e aprire una piccola crepa nelle convinzioni effimere? Non è necessario incontrare un filosofo come Socrate, perché un libro, una frase racchiusa in una canzone, un film, un’esperienza particolarmente significativa sono sufficienti a far scricchiolare i pensieri. Quante volte capita di leggere delle valutazioni che non si accordano con le proprie idee? Sappiamo che una storia narrata in un film getta nuova luce su una tematica, mentre una specifica esperienza è in grado di far vacillare anche le interpretazioni più consolidate.
L’obiettivo di questa rubrica sarà quello di far conoscere alcuni autori che si sono occupati o che attualmente si dedicano con passione alle tematiche suggerite, e di rinviare ai libri per ampliare la riflessione.
Come funziona? Pensate a un evento che ha fatto affievolire qualche convinzione o che ha stimolato nuovi pensieri, e raccontatelo in una lettera. Scegliete un titolo per la riflessione e alla fine ponete una domanda. Ogni settimana verrà proposto un quesito a cui seguirà una risposta (se non volete che compaia il vostro nome, scrivetelo).
Inviate le lettere a corrispondenze@laguida.it