Caro professore,
Circa una settimana fa, parlando con un mio amico i cui
genitori hanno creato una casa famiglia, mi sono sorti diversi dubbi e tante
domande. Fin da piccola sono stata abituata a vedere la mia famiglia come una
"cosa" solo mia, diventando gelosa nei momenti in cui le attenzioni
non ricadevano tutte su di me. Entrando nell'argomento gli ho chiesto cosa
provava nel dover condividere la casa e i suoi genitori con persone estranee,
ma lui con molta semplicità mi ha risposto che noi siamo fortunati ad avere
qualcuno che ci ama ed è giusto dare la possibilità anche a questi bambini. Mi
sentivo atterrita, ma ho continuato con le mie domande per più di un ora e
adesso il mio dubbio è: sono egoista nel non voler condividere con gli altri la
mia famiglia o è un pensiero di molti miei coetanei?Elisa
Cara Elisa,
Tolstoj, in “Risurrezione”, riporta questo dialogo:
«- Volevo chiederle del bambino. Ha partorito da lei, no? Dov'è il bambino?
- Per il bambinello, mio caro, io l'avevo pensata bene. Lei stava troppo male,
non si sperava più che si alzasse. E io ho fatto battezzare il bambino, come si
deve, e l'ho mandato all'orfanotrofio. Be', perché far soffrire un angioletto,
quando la madre sta morendo. Altre fanno così: lasciano il piccino, non gli
danno da mangiare, e lui se ne va all'altro mondo; ma io ho pensato: perché far
così, piuttosto faticherò, lo manderò all'orfanotrofio. I soldi c'erano, e così
ce l'abbiamo portato». Se si leggono i classici, soprattutto
dell’Ottocento, o qualche opera di storia (“Storia dell’infanzia”,
Dedalo 2002) si scopre immediatamente l’infelice condizione dell’infanzia
abbandonata. Ricordo qualche anno fa il titolo di un libro “Nascere senza
venire alla luce” (Franco Angeli 2010), un’indagine sugli abbandoni nella
provincia di Torino. Il titolo esprime l’idea che per una buona vita non basta
nascere, occorre che venga alla luce il mondo che ci ha generato, con gli
elementi positivi e le sfaccettature ombrose, mentre sappiamo che molti bambini
segregati negli orfanotrofi non hanno visto neppure la luce del sole. In Italia
una legge ha decretato la chiusura degli orfanotrofi il 31 dicembre 2006,
mentre qualche decennio prima erano già nate le case-famiglia. Capisco che
l’esperienza del tuo amico ti abbia sconvolta, perché ti ha messo di fronte ad
un’avventura eccezionale, in quanto fondata su una scelta di vita e non sul
sangue. Nella storia dell’Occidente siamo passati dalla famiglia allargata, in
cui sotto lo stesso tetto vivevano genitori, figli e parenti, alla famiglia nucleare,
composta dai genitori e dai figli. Diciamo che la casa famiglia è una nuova
famiglia allargata i cui componenti non sono esclusivamente i consanguinei, ma
altre persone. È certamente un’esperienza eroica, perché molti bambini
abbandonati o sottratti alla famiglia originaria portano su di sé un vuoto che
difficilmente si può colmare, ferite lontane che una vita intera non riesce a
rimarginare, e il fatto che qualcuno si prenda cura di loro e li accolga
impedisce che il senso di quelle vite deflagri. È tuttavia un’esperienza che
scardina le aspettative di relazione uno a uno e la centralità di un figlio
rispetto all’altro, perché la relazione non determinata dal legame di sangue è
retta esclusivamente da una scelta di amore e di responsabilità. Ed è un’avventura
difficile per tutti i componenti della famiglia. Si tratta di un cammino
graduale di persone che imparano a conoscersi e ad accogliersi, tra
accettazione e paura, generosità e timori. Il fatto che il tuo amico abbia
risposto «con molta semplicità», significa che ha avuto il tempo di
essere preparato per vivere quell’esperienza nel modo giusto, ossia ha maturato
la convinzione che si può essere amati in modo esclusivo senza escludere gli
altri. Non sentirti in colpa o egoista, nessuno da solo può reggere una
situazione che eccede la propria comprensione e il vissuto collaudato. Occorre
molta preparazione per affrontare una condizione così particolare. La psicologa
Anna Oliverio Ferraris nel libro “Il cammino dell’adozione” (RCS 2002)
scrive: «Il cammino dell'adozione ci ricorda che non esiste la famiglia
perfetta: ciò che conta sono i rapporti tra le persone, nel rispetto dei punti
di vista diversi, dei tempi, dei sogni e delle realtà di ciascuno».
Ammiriamo, tuttavia, chi è in grado di allargare i propri orizzonti, perché ci
insegna che l’amore dato a due persone non è la metà di quello dato a una.
Un caro saluto,
alberto
pubblicato in parte su «La Guida», venerdì 21 dicembre 2012
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