Ho recentemente riletto questa frase in un libro di Fréderic
Lenoir, “L’anima del mondo”, in cui
l’autore immagina che, presagendo la fine del mondo, sette saggi partano da varie
aree del pianeta per radunarsi a Tulanka, un remoto monastero tra le montagne
tibetane, con il proposito di trasmettere a due giovani adolescenti, Tenzin e
Natina, alcune idee essenziali sulla saggezza. Una di queste è proprio: «Diventa ciò che sei. Fai ciò che solo tu
puoi fare. Segui la voce del tuo cuore». Così, l’esortazione a «diventare ciò che si è» può essere considerata
una massima imprescindibile della sapienza universale. Arriva da lontano. Per
noi occidentali, dal mondo greco: ed è un invito che da Pindaro a Nietzsche
viene regolarmente rivolto a tutti gli uomini. Non si limita a suggerire un
orientamento conoscitivo o etico, ma prescrive un modo preciso di condurre
l’esistenza. Probabilmente, quello migliore o l’unico autentico. Sembra una
risposta categorica e un po’ sibillina ad una domanda che attraversa spesso i
nostri pensieri e che in un’espressione rudimentale e certamente incompleta può
essere formulata in questo modo: “cosa
farò da grande?”, ma in termini più complessi rappresenta la questione cruciale
dell’esistenza: “chi sono io?”, “che cosa dovrò diventare?”, “che cosa farò della mia vita?”. Sono riflessioni
irrinunciabili, perché interpellano l’individuo sulle sue scelte fondamentali. “Che cosa farò della mia vita” è una questione
che prima o poi tutti gli adolescenti si pongono indipendentemente dal loro
grado di alfabetizzazione. Il biografo di Cartesio, Adrien Baillet, riferisce che
il filosofo aveva fatto tre sogni che considerava importanti per comprendere lo
sviluppo della propria ricerca. Nel terzo di questi egli immaginava di aprire
una raccolta di poesie e il suo occhio cadeva su un verso del poeta Ausonio: «Quod vitae sectabor iter?», «Quale cammino prenderò nella vita?». Concentrarsi
su tale interrogativo ha aperto al filosofo una nuova direttiva di studio: gli ha
consentito di operare una svolta nella propria vita e nella propria filosofia. La
stessa domanda gravita nei pensieri dei ragazzi che cercano di capire chi sono
e immaginano chi vorranno diventare, ma di riflesso è anche il tema che disorienta
i genitori – quando pensano al futuro dei figli – perché scardina i loro schemi
e le loro aspettative. Secondo l’insegnamento di Pindaro e Nietzsche gli adulti
dovrebbero agevolare la vocazione dei giovani, incoraggiare il loro talento e sostenere
i loro desideri più profondi. Va da sé che c’è un forte legame tra due importanti
massime del mondo antico: «conosci te
stesso» e «diventa chi sei».
Conoscere se stessi è la premessa per poter realizzare la propria natura. Come facciamo
a conoscerci? Attraverso il dialogo interno, l’auto-osservazione, le relazioni
e la sperimentazione continua ricaviamo costantemente informazioni sulle nostre
qualità. Poi occorrono tanti sforzi, ripetuti atti di coraggio e di creatività
per avverare ciò che abbiamo intuito. Forse è per questo che nella seconda “Pitica” Pindaro dice: «diventa chi sei imparando (chi sei)», perché in fondo nessuno sa
chi è senza mettersi alla prova. E Nietzsche, in “Così parlo Zarathustra”, confessa il grande lavoro da “maestri severi” che occorre fare su se stessi: «Tale, infatti, son io dal mio
profondo e fui da principio, tirando, traendo a me, portando in alto, facendo
crescere: uno che tira su, un allevatore, un maestro severo, che non invano
disse una volta a se stesso: “Diventa
chi sei!”». Si prova angoscia per la scelta di ciò che si vuole diventare,
perché una volta individuata una rotta occorre investire energie e studio in
una direzione piuttosto che in un’altra. Dalla risposta sulla visione del
futuro, occorre poi predisporre il tempo e organizzare la fatica. Sappiamo che
le decisioni più importanti vengono prese da giovani: a cinquant’anni è
possibile iniziare lo studio del pianoforte, ma al massimo si potrà diventare dei
buoni dilettanti e non certo aspirare ad eccellere in quella professione. Ci
sono poi alcuni rischi che possono minare l’autorealizzazione: alcuni
provengono dalle aspettative spesso esplicite della famiglia, altri da quelle
tacite, ma altrettanto consistenti, della società. Fréderic Lenoir, riflettendo
sulla propria esperienza e sulle difficoltà incontrate per poter esprimere la
propria natura, scrive: «Diamo
un’immagine di noi che corrisponde a ciò che gli altri si aspettano da noi. O a
ciò che immaginiamo si aspettino da noi, per piacere loro, per essere
socialmente accettabili. […] La mia esperienza è stata così. Per anni ho avuto
bisogno di piacere agli altri, sacrificando me stesso. Pensavo di poter essere
amato solo a questa condizione. Dicevo sì quando invece volevo dire no.
Accettavo cose che mi costavano fatica e sofferenza». E il filosofo Umberto
Galimberti avverte: «realizzo chi sono o
ciò che vuole l’apparato?», e ancora: «Siamo
certi che la vita che viviamo sia la nostra?». Perché dall’autorealizzazione
dipende la nostra felicità. Per questo, ammonisce il filosofo: «Distratti da noi, fino a diventare perfetti
sconosciuti, ci arrampichiamo ogni giorno su pareti lisce per raggiungere
modelli di felicità che abbiamo assunto dall'esterno […], naufragando ogni
giorno, perché quei modelli probabilmente sono quanto di più incompatibile
possa esserci con la nostra personalità». Il pericolo di soddisfare i
desideri degli altri è davvero grande. Ma come si fa a diventare ciò che si è?
Un caro saluto,
Alberto
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