È una massima piuttosto nota e davvero molto
bella. È una sorta di suprema riduzione effettuata da S. Agostino delle
prescrizioni del mondo ebraico e cristiano. Secondo la “Bibbia” Dio ha dato a Mosè i dieci comandamenti sul monte Sinai. E
Gesù ha riassunto il decalogo in quello che è conosciuto come il duplice
comandamento dell’amore: “Ama il Signore
Dio tuo con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutta la tua mente. Questo
è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo:
Ama il prossimo tuo come te stesso”. È possibile un’ulteriore riduzione di
questo binomio in un’unica norma ancora più sintetica? Aurelio Agostino
compendia tutte le regole in un’espressione apparentemente elementare: «Dilige et quod vis fac», ossia «Ama e fa’ quello che vuoi». Questa
direttiva è composta da due parti, ossia due imperativi: il primo è: «ama», e il secondo è: «fa’ ciò che vuoi». Dei due, il secondo è
immediatamente comprensibile: «fa’ ciò
che vuoi» ha un carattere intuitivo, eppure richiede qualche riflessione.
Comanda infatti di realizzare quello che la volontà suggerisce, ma solo dopo
aver rispettato l’imperativo di amare. Non si tratta quindi di un generico e
ghiotto invito ad agire in modo indiscriminato, compiendo semplicemente ciò che
si ritiene giusto ed opportuno, né tantomeno si tratta di una sollecitazione ad
assecondare prontamente l’istinto. Fai ciò che vuoi – ma solo se sei in grado
di amare – da questo momento verrà considerato il fondamento dell’etica
cristiana. Insomma, chi è in grado di amare non deve preoccuparsi eccessivamente
della rettitudine delle proprie azioni, perché se la radice da cui esse scaturiscono
è l’amore, da esse seguirà necessariamente il bene. Questo perché, secondo
Agostino, a partire dall’amore la volontà è indirizzata umanamente e
cristianamente. Così, l’uomo che si sottomette a tale legge non può produrre
errori che conducano ad esiti moralmente riprovevoli. Egli chiarisce bene questo
concetto nel “Commento alla Prima Lettera
di Giovanni” quando scrive: «sia in
te la radice dell’amore, poiché da questa radice non può procedere se non il
bene». Ecco allora i suoi consigli: «sia
che tu taccia, taci per amore; sia che tu parli, parla per amore; sia che tu
corregga, correggi per amore; sia che perdoni, perdona per amore». La parte
più problematica della prescrizione agostiniana – che sentiamo ora ripetere con
una certa ridondanza – è certamente la prima e consiste nella corretta
comprensione dell’imperativo «ama». Pur essendo un verbo assai familiare e
apparentemente chiarissimo, è proprio sul significato dell’amore che si creano le
maggiori ambiguità. L’amore non è da intendersi come legame sentimentale tra persone e neppure come attrazione fisica. La traduzione che verosimilmente
si avvicina di più all’intenzione di Gesù, secondo il teologo svizzero
contemporaneo Hans Küng recentemente scomparso, potrebbe essere espressa in
questo modo: «un’esistenza-per-gli-altri
piena di disponibilità e di aiuto», seguendo l’esempio di Cristo. Se questa
è la radice dell’amore, da essa deriva certamente un’etica nuova e
rivoluzionaria. Nell’opera Cristianesimo.
Essenza e storia, Hans Küng suggerisce di declinare il “volere” a partire
dall’amore, facendo riferimento a queste riflessioni di un autore a lui ignoto:
«Il dovere senza amore rende uggiosi; il
dovere compiuto nell’amore rende equilibrati. La responsabilità senza amore
rende spietati; la responsabilità esercitata nell’amore rende premurosi. La
giustizia senza amore rende duri; la giustizia praticata nell’amore rende
coscienziosi. L’educazione senza amore rende contraddittori; l’educazione
praticata nell’amore rende pazienti. La saggezza senza amore rende scaltri; la
saggezza esercitata nell’amore rende comprensivi. La gentilezza senza amore
rende ipocriti; la gentilezza esercitata nell’amore rende buoni. L’ordine senza
amore rende meschini; l’ordine esercitato nell’amore rende magnanimi. La
competenza senza amore rende prepotenti; la competenza esercitata nell’amore
rende degni di fiducia. Il potere senza amore rende violenti; il potere
esercitato nell’amore rende disponibili all’aiuto. L’onore senza amore rende
superbi; l’onore praticato nell’amore rende moderati. Il possesso senza amore
rende avari; il possesso praticato nell’amore rende liberali. La fede senza
amore rende fanatici; la fede praticata nell’amore rende tolleranti». Si
può ottenere un analogo risultato di elevazione morale utilizzando altri verbi?
Proviamo con “vivere” e “lavorare”: «Vivi
e fa’ quel che vuoi», oppure «lavora
e fa’ quel che vuoi». In entrambi i casi avvertiamo immediatamente che in
queste ulteriori raccomandazioni sembra mancare qualcosa. L’attenzione alla
persona e il rispetto dell’altro non sono affatto impliciti nell’ordine. Non è
detto, infatti, che vivere e fare ciò che si vuole sia un buon modo di relazionarsi
con il prossimo; e neppure il nesso tra lavorare e agire sembra nobilitare l’azione
dell’uomo a dignità morale. In entrambe le sentenze si riconosce che l’altro
non è tutelato o è posto in secondo piano: non è garantita la sua sopravvivenza
e non è assicurato il suo benessere. Se nelle ultime due massime le
prescrizioni all’imperativo non modificano l’agire dell’uomo, l’invito di
Agostino mostra la potenza eccezionale dell’amore nel determinare la metamorfosi
dei comportamenti umani: assistiamo al passaggio dall’invito a un semplice operare nel mondo all’agire etico.
Un caro saluto,
Alberto
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