Caro Professore,
durante queste vacanze sono stata in Croazia per una settimana per
svolgere alcuni incontri con altri ragazzi all'incirca della mia età
provenienti prevalentemente dall'Italia, ma anche da molti Paesi dell'Est
Europa. Con essi, anche se non ci eravamo mai visti prima, si è subito creato
un clima accogliente che mi ha permesso di sentirmi totalmente accettata,
libera di essere me stessa al 100% e libera di trattare nella più completa
tranquillità e assenza di imbarazzo argomenti molto profondi e a volte anche
strettamente personali; questo ha fatto sì che si creassero legami d'amicizia
molto stretti in pochi giorni. Al ritorno da questa meravigliosa esperienza,
che avevo già vissuto negli anni passati, ma mai così forte, ho iniziato a
riflettere notando che questo clima così sereno e accogliente trovato in
Croazia tra persone sconosciute, non riesco a trovarlo qui, nella mia città,
tra i miei compagni di classe e amici di una vita. Eppure a rigor di logica
dovrebbe essere il contrario. Come è possibile ciò? Inoltre mi sono domandata:
chi dovrei considerare davvero miei Amici con la "a" maiuscola?
Quelli con i quali mi sono sentita subito accolta e con i quali mi sono aperta
condividendo molte esperienze, ma che probabilmente non vedrò mai più, oppure
quelli che vedo tutti i giorni, condividendo la mia quotidianità, ma con i
quali sento ancora l'ombra dei pregiudizi?
Domiziana, 4H
Cara Domiziana,
Nel luogo di lavoro, di studio
siamo sempre immersi in un preciso contesto. Si tratta di un ambiente sociale
definito da coloro con i quali maggiormente entriamo in relazione: amici
occasionali che spesso abitano anche nello stesso paese e nella stessa città. A
volte l’apertura del nostro cuore a chi già frequentiamo può non essere così facile
né conveniente. Non facile, perché parte delle nostre scelte sono condizionate
dalla conoscenza dell’altro e dal legame
con lui. Cerchiamo di non turbare un amico con eccessive preoccupazioni per
evitare che ci giudichi male o ci allontani. Poiché in ogni contesto abbiamo costruito
a fatica e nel tempo delle relazioni, sappiamo che per non urtare l’altro non
possiamo sempre essere liberi al 100%. Temiamo di essere fraintesi e che cambi
la relazione, che muti l’opinione che gli altri hanno di noi e il ruolo che
avevamo in passato. Ma l’apertura può anche non essere conveniente, perché nei
rapporti di routine si è stabilita una gerarchia relazionale. Più passa il
tempo e i legami diventano stabili, meno gli altri sono disposti ad accettare
ciò che non si accorda con la loro rappresentazione di noi. Talvolta intuiamo preventivamente
persino come essi interpreteranno le nostre rivelazioni e le soluzioni che
proporranno, e talvolta temiamo persino che qualcuno possa fare un uso distorto
delle confidenze. Non ci preoccupiamo particolarmente del giudizio di chi non
ci conosce, perché l’altro non ci ha ancora classificato e non si muove ancora nel
nostro contesto relazionale. Il sociologo americano Mark Granovetter ha
introdotto il concetto di «forza dei
legami deboli», una nozione ripresa sia da Zygmunt Bauman in “Modernità liquida” sia da Richard
Sennett ne “L’uomo flessibile”.
Quest’ultimo l’ha tradotta così: «per la
gente i rapporti occasionali di associazione sono più utili dei vincoli a lungo
termine». A volte non sono le persone più vicine che riescono a fornirci le
migliori indicazioni: ad esempio, non è detto che i consigli per il lavoro
siano più efficaci se forniti dai parenti stretti. Forse una persona che non
frequentiamo assiduamente può offrire suggerimenti più utili, perché ha
maggiore dimestichezza con un preciso settore lavorativo. C’è anche un altro
aspetto da considerare: molto spesso non cerchiamo dagli altri esattamente “una risposta”, ma
semplicemente la possibilità di esprimere liberamente i pensieri ricorrenti per
poterli valutare senza censure. L’altro ci consente di prendere visione della
nostra ideazione e di approfondirne le conseguenze. Poiché accetta e non
giudica, ascolta e rimane distante, alla fine della chiacchierata non dobbiamo
riconsiderare il rapporto con lui. L’amico vede le nostre contraddizioni,
l’estraneo le accoglie come complessità, l’amico vorrebbe che non cambiassimo molto, l’estraneo accoglie la novità. L’amico può entrare in
competizione con noi, l’estraneo non ancora. Chi ci conosce si aspetta una
coerenza con il passato e fatica ad accettare il nostro cambiamento, l’estraneo
non conosce la nostra storia e non ha particolari aspettative. È il vantaggio
della novità. Le persone con cui ti sei incontrata, tuttavia, condividevano le
tue idee e le tue passioni ed è per questo che ti sei avvicinata a loro. Si
sono creati un tempo e un luogo per realizzare delle esperienze. Con le
persone che conosciamo non sempre siamo in grado di predisporre uno spazio per
incontrarci. Se la novità rappresenta sempre un’apertura totale e un’assenza di
“pregiudizio”, quando le nuove relazioni diventeranno più stabili non si creeranno
ancora i problemi che notavamo con i vecchi amici? In ogni relazione nascono
difficoltà e conflitti. Eraclito diceva che “polemos” è indispensabile e
fruttuoso («padre e re di tutte le cose»),
però è anche vero che, a volte, dove c’è più leggerezza c’è più libertà.
Un caro saluto,
Alberto