Caro Professore,
Si avvicina l’estate, la fine della scuola. Io volevo raccontarle che
l’estate scorsa ho partecipato alla GMG in Polonia e quest’esperienza devo dire
mi ha davvero segnata… Non vorrei parlare della fede o della religione, ma mi
piacerebbe solo porre anche a lei una delle tante domande che è nata dentro di
me dopo questa avventura. Un mattina viaggiando in treno per arrivare a
Cracovia stavo scrivendo sul mio diario di bordo e ad un certo punto mi è
venuto tra le mani un foglietto volante con questo racconto: Una storia ebraica
narra di un rabbino saggio e timorato di Dio che, una sera, dopo una giornata
passata a consultare i libri delle antiche profezie, decise di uscire per la
strada a fare una passeggiata distensiva. Mentre camminava lentamente per una
strada isolata, incontrò un guardiano che camminava avanti e indietro, con
passi lunghi e decisi, davanti alla cancellata di un ricco podere. "Per
chi cammini, tu?", chiese il rabbino, incuriosito. Il guardiano disse il
nome del suo padrone. Poi, subito dopo, chiese al rabbino: "E tu, per chi
cammini?". Questa domanda, conclude la storia, si conficcò nel cuore del
rabbino. Quel giorno ho cercato di pensare ad altro per non affrontare me
stessa, però tornata a casa qualche mese dopo ho avuto bisogno di trovare una
risposta, ma la domanda è sempre lì che mi tormenta…“E tu, per chi cammini? Per
chi e cosa ti alzi ogni mattina”?
Sara, 4H
Cara Sara,
Quando le domande si riferiscono
al senso che diamo alla nostra vita, guardo alle persone che hanno vissuto
esperienze estreme, al confine tra la vita e la morte e ascolto le motivazioni del
loro percorso. Considero queste situazioni, perché quando la vita si
affievolisce e sarebbe persino più semplice accettare la sorte e arrendersi
alla disfatta gli uomini esplicitano le ragioni che li sorreggono. Allora, in
senso letterale, penso alle lunghe marce indotte nei periodi di guerra, perché
in quell’incedere forzato emerge il senso per cui si cammina. Penso alla
ritirata di Russia, raccontata da Nuto Revelli ne “La guerra dei poveri”; al motivo della partenza e alla volontà del
ritorno. E penso che se si è obbligati a partire perché il cammino è stato
deciso da un’autorità a cui si deve obbedire, la volontà del ritorno è una
volontà del cuore. Se prima si procede al nome di un “padrone”, poi si marcia
per ciò che si ritiene imprescindibile: una persona, un ideale, per i figli. “Per chi cammini” suona un po’ come la
domanda che Corrado, protagonista del romanzo di Cesare Pavese “La casa in collina”, rivolge alla
compagna riferendosi al figlio Dino: «Se
ti chiede per chi vivi tu, […] cosa
rispondi?». E Caterina risponde a
Corrado raccontando la propria gravosa esistenza: «Ho sempre faticato e battuto la testa. I primi tempi è stato brutto. Ma
avevo Dino, non potevo pensare a sciocchezze. Mi ricordavo di quello che mi hai
detto una volta, che la vita ha valore solamente se si vive per qualcosa o per
qualcuno». Che si viva per un ideale o una persona è confermato dai reduci di
guerra e dai sopravvissuti ai campi di sterminio. Questa, infatti, è anche la
riflessione dello scrittore ebreo Elie Wiesel, quando nell’opera “Parole di straniero” descrive le
direttive dei tedeschi e le reazioni dei prigionieri: «Ciascuno per sé, ci dicevano.
Dimenticate i genitori, i fratelli, il passato, ci ripetevano giorno e notte,
altrimenti perirete. Avvenne il contrario. Quelli che vivevano soltanto per sé,
per nutrirsi, finivano per cedere alle leggi della morte, mentre gli altri,
quelli che sapevano per chi vivere — un genitore, un fratello, un amico —
riuscivano a obbedire alle leggi della vita». Anche molti altri hanno riferito che senza motivazioni forti non si
sopravvive: così Primo Levi (“Se questo è
un uomo, La tregua”), Vasilij
Grossman (“Vita e destino”), Viktor
E. Frankl (“Uno psicologo nei lager”),
Pavel A. Florenskij (“Non dimenticatemi.
Le lettere dal gulag”). Se dovessi
dirti per chi cammino, ti direi che fino a quando era viva mia madre, vivevo
per me ma con un occhio a lei e quando è mancata anch’io mi sono chiesto perché
e per chi camminavo. Ora ho un figlio: allora so che vivo ancora un po’ per me,
ma so che guardo a lui e al suo percorso. Credo che il motivo per cui si
cammina sia sempre per qualcuno o per qualcosa. Quando si è figli si cammina
anche per l’approvazione dei genitori, quando si è genitori forse anche
per meritare la fiducia dei figli. Quando si perde qualcuno si perde il
testimone della propria vita, qualcuno che ha dato o ha raccolto il senso
dell’esistenza affinché non cadesse nell’insignificanza. Per fortuna non
camminiamo per un padrone, ma per realizzare quello che siamo, per portare a
compimento la voce che sentiamo dentro di noi. Gli autori citati hanno messo in
luce come gli affetti diano senso alla vita anche al di là degli interessi
egoistici. Il padre del liberalismo classico John Stuart Mill nell’opera “L’utilitarismo” (1861) ha sottolineato
la necessità di coltivare sia sentimenti personali sia interessi collettivi.
Scrive Mill: «coloro che dietro di sé
hanno una scia di affetti personali, e soprattutto coloro che hanno coltivato
anche sentimenti di partecipazione agli interessi collettivi dell'umanità,
conservano il loro interesse alla vita: un interesse altrettanto vivo alla
vigilia della morte, quanto lo era nel vigore della giovinezza e della salute».
Sono dunque molte le ragioni per cui ci si può alzare stimolati ogni mattina,
sapendo per chi o cosa si cammina.
Un caro saluto,
Alberto