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Cor-rispondenze

lunedì 25 marzo 2019

Il peso della sconfitta


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Caro professore,
Buongiorno, dopo un match di tennis perso dopo essere stato ad un passo dalla vittoria, mi sono chiesto perché sia molto più dolorosa una sconfitta di quanto invece possa essere bella una vittoria, non solo nell’ambito sportivo, ma anche scolastico e della vita in generale. Perché la mente ragiona in questo modo e si ricorda più facilmente dei momenti difficili e dolorosi rispetto a episodi felici che in realtà sono anche più frequenti?
Filippo, IA


Caro Filippo,
A scuola ci hanno insegnato che le persone con una bassa autostima tendono ad ingigantire gli eventi negativi e ad attribuirsene la colpa, mentre quelle con un’alta autostima sono più propense a minimizzare gli stessi episodi e ad addossare le cause del fallimento ad altri e non a sé. Sarà dunque solo un problema di autostima? Credo di no. Osserviamo due persone molto diverse tra loro e storicamente lontane: Catone e Napoleone. Il politico romano Marco Porcio Catone, detto Uticense, (95-46 a.C) si è schierato con Pompeo nella lotta contro Cesare. Dopo la morte di Pompeo e la sconfitta dell'esercito a Tapso nell’attuale Tunisia (46 a.C.), decide di suicidarsi per non cadere prigioniero del dittatore nemico. Consideriamo ora Napoleone. Di solito ricordiamo il generale francese come un grande vincitore. In parte è giusto, ma è altrettanto vero che egli viene sconfitto in molte battaglie; per ricordarne alcune: Abukir (1798), Trafalgar (1805), Borodino (1812), Lipsia (1813), Waterloo (1815), ma – se escludiamo l’ultima – di solito si riprende, riorganizzando l’esercito e ricominciando le sue incredibili conquiste. Due uomini che hanno subito sconfitte, dunque, e due modi diversi di reagire. Catone avrà forse ritenuto la prigionia un male peggiore della perdita della vita (persino Dante rispetta questa scelta e non lo colloca nell’Inferno tra i "violenti contro se stessi"), mentre Napoleone avrà reputato probabilmente che un esercito sbaragliato può sempre riorganizzarsi e puntare alla vittoria. Ma c’è una terza risposta alla sconfitta, ed è quella raccontata nel mito delle Sirene. Come saprai, Ulisse prima di passare davanti alla loro dimora, sigilla le orecchie dei compagni perché non sentano il canto suadente di quelle ammaliatrici e si fa legare all’albero della nave. Così può ascoltare l’amabilità della loro voce ed evitare ogni pericolo. “Ma il dolore della sconfitta fu per loro così grande che si buttarono in mare e così trovarono la morte”, racconta il mito. Se Napoleone sa prontamente reagire, perché negli altri due casi la sconfitta è così devastante? Sembra che ci sia qualcosa che gli uomini (e evidentemente anche le Sirene) non riescono a sopportare e che la sconfitta accresce ed esaspera. Nel caso di Catone la sconfitta comporta la privazione della libertà e la perdita della dignità; la sua vicenda è dolorosa, ma comprensibile: una vita senza libertà, uniformata alla volontà di un nemico, non viene più ritenuta degna di essere vissuta. La decisione può non trovare il consenso generale, ma è giustificabile. Sembra invece assolutamente sproporzionata la scelta di morire delle Sirene. Perché esse disprezzano così la vita e ritengono di non poter sopportare un piccolo fallimento nella loro attività seduttiva? In fondo, se non riescono ad ammaliare qualche marinaio, non avranno certo difficoltà a ottenere successo con quasi tutti gli altri. Credo che nel caso delle Sirene non sia tanto la sconfitta in sé ad essere inaccettabile, quanto il venir meno dell’onnipotenza. L’insuccesso ricorda a Sirene e uomini che appartengono alla dimensione del limite, mostra loro la fragilità, gli ostacoli e i condizionamenti della natura. Lo smacco è un freno alla volontà di potenza e all’orgoglio: è una riduzione dell’energia creativa, dell’espansione di sé. Nei nostri errori scopriamo l’insufficienza della nostra potenza e che l’inadeguatezza alberga in noi. Le abilità, le competenze e l’esperienza non ci esonerano dal fallimento. E nel fallimento riscontriamo la nostra inettitudine e il difetto di ogni nostro sforzo. Avvertiamo la nostra mancanza costitutiva: le lodi non saturano i desideri, l’adulazione non appaga il nostro bisogno di riconoscimento. Scopriamo l’impossibilità di realizzare la nostra felicità attraverso il progetto a cui l’abbiamo legata mentre l’immagine che avevamo di noi stessi viene nello stesso tempo guastata e smantellata. Veniamo così a contatto con la nostra mortalità che un illusorio senso di onnipotenza aveva provvisoriamente rimosso. E il dolore maggiore deriva dal fatto che a rivelarci che la nostra espansione non è infinita e che siamo mortali sono gli altri. Il giurista italiano Danilo Zolo, facendo riferimento ai processi di Tokyo e di Norimberga che seguirono la Seconda guerra mondiale, ci ricorda che: «Essere sconfitti in guerra è normale. Ma essere processati dal nemico è una sconfitta totale e irreparabile» (“Chi dice umanità. Guerra, diritto e ordine globale, Einaudi 2000”). Come per i criminali è stato insopportabile essere sottoposti a valori morali e civili che non hanno mai ammesso né tollerato, per gli uomini normali è insopportabile che “un match di tennis” riveli la caducità dell’uomo così difficile da riconoscere ed accettare.
Un caro saluto,
Alberto