Nel meraviglioso microcosmo dell’abbazia benedettina descritto
ne “Il nome della rosa” di Umberto
Eco, c’è un momento in cui i due protagonisti, Adso da Melk e Guglielmo da Baskerville,
incontrano un mastro vetraio. Si chiama Nicola da Morimondo. Illustrando le
bellezze del luogo ai due ospiti, egli riferisce che nella parte posteriore
della fucina si soffia il vetro, mentre in quella anteriore i fabbri fissano i
vetri ai piombi di riunione per realizzare le vetrate. Aggiunge, con un certo
sconforto, che l’opera vetraria complessiva è stata compiuta almeno due secoli
prima e che al tempo ci si limita solamente a lavori minori e alle sistemazioni
dei guasti provocati dall’usura degli anni. Le riparazioni sono poi sempre più
difficili, nell’impossibilità di trovare i colori originali – come ad esempio
il blu delle vetrate –, e la qualità degli stessi colori è inferiore a quella
del passato. Suggerisce così di osservare la luce che filtra dalle vetrate: da
quelle antiche si propaga cristallina, mentre appare spenta quella che
attraversa le lastre più recenti. Frate Nicola afferma pertanto: «È
inutile, non abbiamo più la saggezza degli antichi, è finita l'epoca dei
giganti!». E Guglielmo da Baskerville,
assecondandolo, ripete: «Siamo nani, ma
nani che stanno sulle spalle di quei giganti, e nella nostra pochezza riusciamo
talora a vedere più lontano di loro sull'orizzonte». Il romanzo di Umberto
Eco è ambientato nel 1327, tuttavia il sapiente autore ha messo in bocca al suo
protagonista una frase pronunciata almeno un paio di secoli prima. La citazione
è infatti riportata originariamente dal filosofo Giovanni di Salisbury nell’opera “Metalógicon” del 1159. Egli attribuisce il detto a Bernardo di Chartres, uno dei maestri della prestigiosa scuola francese di Chartres, il
quale era solito dire ai suoi allievi: «Siamo come nani sulle spalle dei giganti, sì che possiamo vedere più
cose di loro e più lontane, non per l’acutezza della nostra vista, ma perché
sostenuti e portati in alto dalla statura dei giganti». Da Bernardo di
Chartres all’allievo Guglielmo di Conches fino a Giovanni di Salisbury, il
detto ha avuto grande risonanza. E ancora di più ne ha avuta qualche secolo
dopo in quella che viene ricordata come la “Querelle
des anciens et des modernes” («disputa
sugli antichi e sui moderni»), che ha appassionato letterati e filosofi e
ha creato opposti e curiosi schieramenti: da Montaigne a Cartesio, da La
Rochefaucault a Pascal, da La Fontaine a Perrault, da Swift a Vico, da Rousseau
e Leopardi a M.me de Stael. L’idea di fondo dell’antico motto consiste nel
ritenere i Moderni più perspicaci degli Antichi, ma non più saggi. Gli Antichi,
in fondo, avevano a disposizione solo gli scritti che essi stessi avevano concepito
e prodotto. Noi – come tutte le generazioni succedutesi – utilizziamo al
contrario sia gli scritti originari sia quelli composti sino ad oggi. Siamo
dunque più perspicaci – ossia vediamo più cose –, ma non siamo necessariamente più
intelligenti. È infatti più difficile scoprire qualcosa senza avere indizi che
seguire una strada già tracciata. Vediamo più lontano come un bambino in mezzo
alla folla preso in spalla da un genitore. I giganti del passato hanno
stabilito i fondamenti del sapere e hanno creato le scienze, ora noi possiamo
progredire agevolmente sul sentiero giusto. Proviamo a fare una semplice verifica.
Quante persone sono in grado di misurare il diametro della Terra, prevedere
un’eclissi di Sole, orientarsi in mare guardando le stelle, dire a che velocità
viaggia la Luna? Se decidiamo di fare un confronto tra gli Antichi e i Contemporanei,
ci rendiamo immediatamente conto che il divario può essere imbarazzante. Dopo
anni di scuola superiore, centinaia e centinaia di ore di matematica e fisica è
molto probabile che nessuno studente – privato naturalmente dei supporti
tecnologici – sia in grado di fare operazioni risolutive. Forse neppure un
giovane universitario è in grado di persuadere la comunità scientifica della
validità delle proprie ricerche in settori così complessi. Siamo migliori degli
Antichi o siamo semplicemente più tecnologici? In fondo chiunque può utilizzare
software che permettono di toccare con mano l’esattezza delle teorie
scientifiche e non occorre essere particolarmente intelligenti per accedere a
informazioni strabilianti. Dunque, con buona pace del nostro orgoglio, siamo probabilmente
dei nani rispetto ai giganti del passato. Questo vale anche nel campo della cultura
più in generale. Ripetiamo pensieri e riflessioni che provengono da lontano e
ci permettono di orientarci nella quotidianità e scegliamo con passione alcuni modelli
di riferimento nell’arte, nell’etica, nella letteratura o nella filosofia. Grazie
al contributo degli Antichi sentiamo di poter partorire pensieri profondi o splendide
intuizioni. Sappiamo che in tempo di mondiali di calcio gli Italiani si
trasformano tutti in sapienti allenatori; ora, in tempo di Covid-19 sono
diventati tutti esperti di virus e vaccini e discutono di Rna a qualunque ora
del giorno. Se è naturale condividere il pensiero di uomini eccellenti, occorre
però scegliere bene il modello a cui ispirarsi, perché non tutte le persone che
vengono elevate a maestri sono davvero tali. Se si fallisce la scelta si corre
il rischio di non vedere in lontananza, perché, come ci ricorda ancora Guglielmo
da Baskerville, «spesso, i sapienti dei tempi nuovi sono solo nani
sulle spalle di nani».
lunedì 30 agosto 2021
Nani
lunedì 2 agosto 2021
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Buona estate,
Alberto
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