Nel bellissimo libro di Michael Ende, “Momo” (1973), si narra di una bambina che ama i racconti e del suo
amico che crea delle fiabe per lei. Così un giorno quel bambino di nome Gigi escogita
la storia di una principessa che veste di seta e velluti e abita in un castello
di cristallo su una vetta di una montagna ricoperta di neve. «Aveva tutto quello che si può desiderare,
mangiava soltanto i cibi più raffinati e beveva soltanto i vini più soavi.
Dormiva su cuscini di seta e sedeva su sedili di avorio. Aveva tutto… ma era
completamente sola». Possedeva tuttavia uno specchio e lo mandava fuori per
il mondo sia di giorno sia di notte. Ogni volta che lo specchio magico ritornava,
riversava davanti a lei tutte le immagini che aveva raccolto nel proprio
viaggio. La principessa sceglieva così quelle che le piacevano e lasciava scivolare
via le altre. Un giorno lo specchio le portò l’immagine di un principe… E va da
sé che qui le cose si complicano e vanno un po’ per le lunghe. Tutto questo per
dire che gli specchi fanno bene il loro lavoro: riflettono perfettamente le immagini.
Sono gli antenati delle micro macchine fotografiche inserite nei nostri
cellulari e delle nostre telecamere. In comune con queste hanno la capacità di rivelare
la realtà. Almeno così pare a noi: sembra che lo specchio riconsegni con
precisione la realtà nel suo apparire. Ci sembra che gli oggetti davanti a noi
e quelli riflessi siano identici. I filosofi si sono chiesti: anche la mente umana
funziona come uno specchio e restituisce un’immagine esatta del mondo? Molti filosofi
hanno distinto tra una conoscenza effimera, fornita dai sensi, e una conoscenza
vera, accessibile alla ragione. Nel Settecento, Immanuel Kant ha mostrato che gli
uomini possono percepire qualcosa solo se si presenta nello spazio e nel tempo.
Una realtà priva di dimensioni o fuori dal tempo non può essere percepita. Poi ha
parlato di alcune strutture necessarie che servono per collegare tra loro i
pensieri. Le ha chiamate categorie e spiegato che potevano ragionevolmente essere
dodici. Gli uomini userebbero pertanto una serie di strutture per pensare e per
mettere in relazione i fenomeni. Una di queste ad esempio è la categoria di “quantità”.
A differenza di altre forme di vita, gli uomini sono in grado di quantificare
la realtà, di dividerla in insiemi grandi o sottoinsiemi e di numerare gli
oggetti. Non tutti gli esseri viventi sono in grado di farlo. Se Kant è
convinto che l’uomo possa conoscere adeguatamente solo nello spazio e nel tempo
e grazie alle strutture del proprio intelletto, il filosofo di Danzica, Arthur
Schopenhauer, nell’opera intitolata “Il
mondo come volontà e rappresentazione” (1818), afferma perentoriamente che «Il mondo è mia rappresentazione»: questa è
una verità che vale per qualsiasi essere vivente e pensante». L’idea è
questa: se il mondo è filtrato dalle nostre strutture, allora quello che
vediamo non è la vera realtà, ma una rappresentazione: «il velo di Maya, come lo chiamano gli Indiani, offusca lo sguardo
dell’individuo incolto», scrive il filosofo e ritiene così che il mondo – come
opera di Maya – sia una sorta di «incantesimo
originato da essa, un’apparenza inconsistente, priva in sé di realtà
sostanziale, simile all’illusione ottica e al sogno, un velo che avvolge la
coscienza umana». Tutta la realtà starebbe come dietro ad un velo, come il
Cristo velato di Giuseppe Sanmartino. E questo non vale solo per gli oggetti,
vale per il presente, il passato e il futuro, per ciò che è lontano come per
ciò che è vicino. Tutto ciò che appartiene al mondo esterno a quello interno o
alla storia è filtrato da noi. Ogni essere vivente si adatta all’ambiente e ha
una conoscenza diversa di esso dovuta alle proprie strutture. Senza naso non
esisterebbero i profumi, senza occhi non esisterebbero i colori: una talpa, un
pipistrello o un’ape percepiscono e si rappresentano il mondo in modo diverso. Oggi
diremmo che quello che vediamo dipende dal nostro software. Milioni di esseri
viventi filtrano inevitabilmente la realtà da un particolare punto di vista.
Kant ha capito che se tutti gli esseri umani ordinano il mondo esterno usando
lo stesso software, la realtà per loro è oggettiva. Tutti percepiamo in uno
spazio tridimensionale e nel tempo e sistemiamo poi gli oggetti percepiti nelle
nostre strutture, sicuramente in modo un po’ diverso da come fanno i
pipistrelli. Secondo Schopenhauer oltre allo spazio e al tempo, che sono imprescindibili
per percepire, tutti i nostri sforzi di pensiero consistono unicamente nel
ricavare «la causa dall’effetto». In
fondo, quando ragioniamo partiamo da premesse e ricaviamo delle conseguenze,
quando agiamo troviamo i moventi delle azioni. Se ci concentriamo sulle
trasformazioni fisiche parliamo di processi che determinano certi risultati. Se
ci occupiamo di aritmetica e geometria deduciamo che 2+2=4 o che la somma degli
angoli interni di un triangolo è di 180° perché procediamo in modo ordinato e
logico per cause ed effetti. Creiamo continuamente nessi causali: cause
esterne, interne, del movimento, dell’agire, di ciò che esiste; cause iniziali
e finali. Il nostro modo di ragionare è dunque particolare: genera continuamente
relazioni vincolate dal rapporto causa-effetto. È per questo che Schopenhauer pensa
che la realtà “vera” sia altro rispetto a quella costruita da noi e che i
pensieri non siano esattamente lo “specchio del mondo”.
Un caro saluto,
Alberto