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Cor-rispondenze

giovedì 11 dicembre 2008

Morte


Caro professore,

Che senso ha la morte? Perché dobbiamo perdere famigliari, persone che amiamo? E se tanto sappiamo che un giorno non ci saranno più, non sarebbe più giusto affezionarsi meno a loro in modo da non soffrire per tale perdita? Forse bisognerebbe vivere al meglio il tempo che abbiamo a disposizione con loro, ma è difficile se ci si ferma a pensare che più ricordi abbiamo più faranno male. Anche se il tempo guarisce tutte le ferite, credo sia quasi impossibile accettare la perdita. Perché questa è un'esperienza devastante, che indubbiamente ci cambia e cambia il tuo modo di vedere le cose, e ci vuole un lento e doloroso percorso per ritrovare la normalità.



Gli stoici invitavano a non affezionarsi troppo, perché le persone sono mortali. Epitteto consigliava di distinguere correttamente ciò che dipende da noi da ciò che non dipende da noi, in modo da padroneggiare i nostri desideri e non pretendere che le cose vadano a modo nostro. La volontà infatti dipende da noi, la morte, no. E faceva un esempio: “Se tu ami una pentola, di' a te stesso: io amo una pentola; perciocché se ella si spezzerà, tu non avrai però l'animo alterato. Se tu bacerai per avventura un tuo figliuolino o la moglie, dirai a te stesso: io bacio un mortale; acciocché morendoti quella donna o quel fanciullino, tu non abbia perciò a turbarti”.
Questa teoria è razionale, ma non convince nel profondo. Come dici tu, è “quasi impossibile accettare la perdita”. E il dolore viene di seguito o ritorna.
Il verbo ricordare, contiene la radice cor, cordis. Per gli antichi, infatti, il cuore era la sede della memoria. Ricordare significava allora re-immettere nel cuore. Ma questi ricordi fanno male, perché sono ricordi di momenti belli e di persone amate: più è intenso il rapporto, più - come dici tu - il ricordo crea dolore e ci tormenta. Più diventiamo consapevoli della necessità di quella relazione, più soffriamo. Serbare ricordo, infatti, vuol dire avere presente ciò che abbiamo amato, e l’assenza di ciò che abbiamo amato e teniamo presente ci intristisce e ci addolora. L’assenza è un peso enorme, opprimente, che ci fa male; è un silenzio che toglie il respiro, è la consapevolezza di una comunicazione impossibile o monca; un vuoto affettivo e relazionale che non si riesce a colmare.
Hai ragione a definire l’esperienza della perdita “un'esperienza devastante”; sì, perché ci ruba l’intimità, mette a soqquadro pensieri ed emozioni, guasta la fiducia verso la vita, è come uno sfregio alla nostra sensibilità, alla nostra anima. Ci fa precipitare immediatamente in un’altra condizione verso la vita, intacca così a fondo la nostra esistenza da contaminare in modo irreversibile gli a-priori della mente con cui siamo soliti interpretare il fluire della delle nostre biografie.
“Jacques Derrida, parlando dei tre choc da lui subiti nel 1990, quando apprese della scomparsa, avvenuta in rapida successione, di Althusser, Benoist e Loreau, ha osservato che ogni morte è la fine di un mondo, ogni volta unico, che non potrà mai più tornare né rinascere'. Ogni morte è la perdita di quel mondo, per sempre e irreparabilmente. La morte è, potremmo dire, il fondamento empirico ed epistemologico dell'idea di unicità”. (Paura liquida)
Per quanto il nostro tempo abbia cercato di addomesticare la morte, di sottrarre l'evento dalla tragedia, anche se la morte è stata anestetizzata, allontanata o mascherata, non siano diventati immuni dalla paura. Non riusciamo ad abituarci all'evento della morte, alla sua banalità, alla sua quotidianità. L'evento della morte evoca in noi qualcosa di irreparabile, irrimediabile e definitivo. Morire significa che da un certo momento in poi nulla più accade, niente si può percepire, vedere o pensare. Nulla potrà più provocare piacere o dolore. La morte rimane incomprensibile per chi vive, non si lascia nemmeno immaginare. Se di un evento possiamo immaginare una ripresa o una continuazione, della morte non possiamo immaginare nulla. Non potremo mai rappresentarci un mondo che non contenga più noi stessi, i nostri cari. La morte cancella tutti gli affetti e tutto ciò che abbiamo imparato.
Nonostante tutto quello che facciamo per prepararci alla morte, la morte ci troverà impreparati. È una sorta di beffa finale con cui si chiude la vita. Rappresenta la nostra impotenza, la nostra precarietà. La morte non si può sanare. Però gli uomini sanno che essa è inevitabile. Solo gli uomini sanno questo e riescono a sopravvivere con questa consapevolezza. Ma la vita diventa più difficile.
Per questo motivo non credo abbia qualche efficacia l'insegnamento degli stoici che dicono che non occorre affezionarsi troppo a se stessi, alle cose e alle persone, perché tanto la morte è inevitabile, è un elemento della vita. E non convince neppure l’altra riflessione di Epicuro, il quale dice che finché ci siamo noi non ci sarà la morte, e quando ci sarà la morte non ci saremo noi. Perché fino a quando siamo in vita, siamo accompagnati dall'idea della morte, abbiamo la consapevolezza che prima o poi la morte porrà fine alla nostra esistenza, e quest'idea non si può neutralizzare.
Nel corso della loro esistenza gli uomini hanno anche cercato di negare che la morte sia qualcosa di definitivo, di irreversibile. La religione dice infatti che la morte è un passaggio da un mondo ad un altro mondo o ad un altro stato, che è un po' come dire che qualcosa dell'uomo non si dissolve, ma permane anche oltre la morte stessa. Cambia solo la condizione della vita. Anzi, per la religione la vita stessa inizia proprio con la morte.
Però non è eludendo la paura della morte che noi diventiamo più uomini. Dobbiamo imparare a convivere con la morte, a guardarla in faccia, perché si presenta in ogni momento della nostra vita e caratterizza la nostra esistenza. Non ci possiamo disinteressare. Dobbiamo ricordarci che siamo mortali. In questo modo conferiamo degli scopi alla nostra vita che danno senso al tempo che viviamo, in ogni momento unico. È attraverso il ricordo della nostra mortalità che noi diventiamo uomini, perché non accogliamo la morte all'ultimo momento, come un momento finale, ma sappiamo che dobbiamo vivere la nostra vita terrena in modo esclusivo, prezioso. Il mondo vivrà dopo la nostra fine, sarà abitato da altre persone. Ma sarà un mondo che non potremo sperimentare. E la sofferenza, come dici tu, deriva dal fatto che proprio coloro che hanno reso possibile la nostra vita, se stanno andando; coloro che l'hanno resa unica, diversa, piena stanno scomparendo, ci stanno lasciando. Proprio coloro che hanno lasciato una traccia duratura nella nostra esistenza e ci hanno permesso di conquistare la nostra umanità; ma anche di dare forma alla nostra visione del mondo, di costruire i nostri affetti e di comprendere quanto è importante, indispensabile e vitale la relazione. I nostri cari ci hanno insegnato a custodire la relazione, a conoscere che la bellezza sta anche nella precarietà, che la relazione deve essere curata, perché possa essere autentica, vera. Sono loro che ci hanno insegnato a distinguerci dall'anonimato, a custodire i legami d'amore, ci hanno aiutato dare un volto a noi stessi, per diventare riconoscibili prima di tutto a noi stessi e poi agli altri. A non essere confusi nella massa anonima. Le relazioni con i nostri cari ci hanno consentito di essere riconoscibili. E noi sappiamo che siamo composti dai volti degli altri, dai dialoghi intessuti con gli altri, da queste presenze invisibili che anche distanza di tempo continuano a muoversi dentro di noi. Sono delle impronte importanti che hanno plasmato la nostra individualità. Sono delle relazioni gratuite che nella loro disponibilità ci hanno permesso di guardare il mondo. Ci hanno permesso di dare un'identità al nostro nome, di passare dalla forma indistinta che è data dal nostro semplice venire al mondo ad una forma distinta, individuale, unica. Allora nella morte degli altri perdiamo parte della nostra unicità, viene meno chi ha arricchito la nostra vita, chi ha lasciato delle tracce, chi l’ha resa possibile. La morte può annientarci come soggetti, perché gli innumerevoli individui che hanno dato corpo alla nostra identità escono gradualmente della nostra vita e dalle nostra relazione lasciandoci più soli. Sono coloro che hanno reso autentica nostra esistenza e ci hanno salvato dal vuoto dell'anonimato e dal vuoto delle esteriorità. Adesso dobbiamo attraversare la vita e conquistare altre relazioni, perché noi siamo vivi solo nelle relazioni. Dobbiamo imparare anche noi ad offrire la relazione e la vita agli altri, e a formare la nostra vita con le persone che ci sono ora. Dobbiamo immaginare la nostra vita con altre persone e creare nuove relazioni con loro. Se non facciamo questo, la morte degli altri conduce alla nostra stessa morte, alla paralisi degli affetti, alla paralisi del pensiero e dell'azione. Abbiamo troppa paura del vuoto che genera la morte, di questa voragine gigantesca in cui la nostra sensibilità e la nostra energia sembrano affogare. L'altro che muore ci chiede però di non rinunciare alla nostra identità, e di non guardare solo retrospettivamente, immobilizzando il passato, o mitizzandolo. La morte dell’altro ci richiama alla nostra vera condizione, ossia al fatto che siamo al mondo insieme agli altri e per gli altri, e che solo nella modalità del dono e dello scambio possiamo essere vivi. Perché l’assenza non sia “devastante” dobbiamo trasferire la relazione alle persone che ci stanno vicino, dobbiamo consentire nuovi innesti con le persone e alimentare le relazioni affinché fioriscano e nutrano. È solo nel dialogo con gli altri che manteniamo un ricordo autentico dei nostri cari e sentiamo che il nostro passato è al sicuro; perché nelle relazioni la vita che ci ha generato prosegue e nel suo procedere è al sicuro. Non è al sicuro nella mummificazione, ma è al sicuro nella corrispondenza con gli altri. Possiamo conservare la memoria dei nostri cari solo nell'attenzione che abbiamo per gli altri, solo se mettiamo in gioco la nostra esistenza con le altre persone. La consapevolezza di ciò che ha nutrito la nostra vita deve diventare disponibilità e apertura agli altri. Attraverso la relazione con gli altri sentiamo che il passato si salva dentro di noi, con noi. Non dobbiamo dunque scartare la morte dalla vita, dobbiamo accettarla e considerare che fa parte della vita stessa. Anche se la morte sottrae consistenza al nostro corpo, ci rende più fragili e insicuri, ci fa però anche sentire che ogni riparo nelle cose esteriori, mondane è inutile e fasullo. Non saremo mai del tutto protetti e sentiremo sempre la nostra precarietà, e a volte in modo molto forte. Il ricordo delle persone care è parte della nostra vita. La nostra vita funziona se è in relazione anche con queste persone, che continuano ad avere anche un'autorità su di noi: morale, di esempio, di costanza nelle difficoltà. Ricordiamo con affetto proprio quelle vite che sono state capaci di compiere delle scelte, di essere fedeli, di respingere la falsità e il compromesso. La vita di chi non c'è più è stata assorbita dalla nostra vita, nella nostra vita, è diventata parte di noi, dei nostri sguardi, della nostra valutazione del presente e delle nostre decisioni. Guardiamo a queste persone e ai loro comportamenti, alle loro battaglie e alla loro capacità di resistere nei momenti difficili. Non solo la loro morte è penetrata dentro di noi, ma anche la loro vita. È vero: ci vuole un “lento e doloroso percorso per ritrovare la normalità”; ma le persone sono vive dentro di noi, indispensabili; molto spesso sono la nostra compagnia, sono sempre in dialogo con noi, un’energia che ci spinge a generare incontri e a rendere più vere le nostre relazioni. In qualche modo, invitandoci a originare altre relazioni ci aiutano a non avere più paura della morte stessa.

Un caro saluto,
Alberto

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