lunedì 25 gennaio 2010
Eternità
Caro professore,
Vedendo vari eventi che colpiscono gli uomini, mi chiedo: perché l’uomo desidera così tanto l’eternità?
Si parla ogni giorno di una vita eterna dopo la morte o di amore eterno. Si desidera l’eterna giovinezza e si sprecano soldi per questo. Miti riconducono all’elisir della vita eterna con fantastiche pietre filosofali. Anche in film quali “Intervista con il vampiro” uno dei personaggi principali sembra esser compiaciuto di aver ottenuto la vita eterna e l’eterna giovinezza. Ma si presenta poi il risvolto della medaglia. Le passioni finiscono, gli amori si interrompono, l’uomo non è portato per far durare nulla in eterno. Allora perché ci illudiamo continuamente che l’eternità sia per noi possibile? Perché ci ostiniamo a desiderarla tanto? Perché ci facciamo del male da soli, quando potremmo vivere benissimo sapendo che le cose del mondo (noi compresi) sono finite e limitate ed è quindi inutile voler tendere all’infinito per noi irraggiungibile. Non sarebbe meno doloroso accontentarsi della nostra condizione?
Luca
Caro Luca,
“Vorrei davvero poter credere nella vita eterna, poiché mi rende davvero infelice pensare che l'uomo sia soltanto una sorta di macchina dotata, per sua sfortuna, di coscienza”, scrive il grande logico e matematico Bertrand Russell (1872-1970) in Dio e la religione (Newton & Compton, 2009).
Già, gli uomini desiderano l’eternità: nella vita e nell’amore; e sembra che gli esseri dotati di coscienza rifiutino istintivamente l’idea che qualcosa dell’uomo non sopravviva. Come dici tu, gli uomini ricorrono ai miti: al Sacro Graal, che dona la vita eterna; alla pietra filosofale, in grado non solo di trasformare i metalli in oro, ma anche di donare l’immortalità (perché riuscirebbe ad arrestare il processo di corruzione del corpo). Oppure, se vogliamo pensare ad un riferimento musicale, mi viene in mente l’opera del musicista Leoš Janácek (1854-1928), “L’affare Makropulos”, che fa riferimento ad una commedia di Karel Capek intitolata “The Makropulos Secret” (L’affare Makropulos, Einaudi, 1993) in cui si parla di una pozione in grado di consentire 300 anni di longevità. Se poi ci riferiamo alla bellezza eterna, è sufficiente pensare al libro di Oscar Wilde, Il ritratto di Dorian Gray (1890), in cui Dorian fa un patto con il demonio per rimanere sempre giovane. Se usassimo una metafora letteraria potremmo dire che gli uomini sono “ossimori viventi”, vivono cioè in una contraddizione strutturale: desiderano l’eternità, ma sono mortali; sentono il desiderio di infinito e soffrono per la natura corruttibile. L’uomo è, probabilmente, l’unico l’essere vivente che è consapevole di morire. E ovviamente non vuole. Prova angoscia per la propria morte. L’idea di scomparire definitivamente dalla scena del mondo infatti scardina ogni certezza, destabilizza ogni convinzione, scalfisce ogni progetto; d’altra parte ogni uomo si affanna una vita intera per crescere, migliorare e per acquisire abilità, instaurare relazioni, creare legami. Poi il sipario della vita si chiude e tutto si dissolve: il corpo si decompone, i ricordi nella memoria svaniscono, tutti i significati che organizzavano l’esperienza scompaiono. Quanto spreco: tanti affanni, tante illusioni. L’uomo, in fondo, si ribella alla morte. Da sempre. Il grande scrittore argentino Jorge Luis Borges (1899-1986) nell’opera l’Artefice riporta una divertente quartina di Almotásim il Magrebí, un poeta arabo del secolo XII, che non si dà pace di dover morire. E scrive: "Morirono altri, ma ciò accadde nel passato, / che è la stagione (nessuno lo ignora) più propizia alla morte. / E' possibile che io, suddito di Yaqub Almansur, / muoia come dovettero morire le rose e Aristotele?". (Tutte le opere, Meridiani Mondadori, 2000, vol. I). In questi versi buffi (il passato è la stagione più propizia per la morte) c’è un’amara verità: dalla condizione umana non si sfugge. Seneca nelle Lettere a Lucilio, ad un certo punto scrive: “Eppure noi, pur avendo ottenuto in sorte un corpo così guasto, facciamo progetti per l'eternità e protendiamo le nostre speranze fino al limite estremo della vita, senza mai trovare né denaro né potere che ci accontenti. Quale comportamento potrebbe essere più sfacciato e più stupido di questo? Nulla basta a chi è destinato a morire, anzi sta morendo: ogni giorno, infatti, ci avviciniamo all'ultimo e ogni ora ci spinge verso l'istante in cui dovremo precipitare nella morte”.
Il tema dell’eternità è stato affrontato da moltissimi autori. Ti propongo un breve percorso di riflessione. Cominciando proprio da Bertrand Russell.
1. A 16 anni Bertrand Russell decide di tenere un diario in cui scrive quello in cui crede e quello in cui non crede. Il 3 marzo 1888 annota questa riflessione: “… Non ho il coraggio di dire ai miei che non credo quasi più all'immortalità...”. E spiega che per poter credere in questa possibilità: “Si dovrebbe affermare che le nostre anime, anche se durante il loro soggiorno terrestre dipendono dalla materia e dalle leggi della fisica, al momento della morte entrino a far parte di un mondo estraneo al regno del decadimento fisico, regno che la scienza sembra identificare col mondo dei sensi. Tuttavia è impossibile credere a tutto questo, a meno che non si creda anche che gli esseri umani siano costituiti da due elementi distinti: l'anima e il corpo, i quali sono separabili e possono rimanere in vita l'uno indipendentemente dall'altro. Sfortunatamente questo va contro ogni evidenza empirica”. […] “Pertanto sia la mente che la materia sono semplicemente due termini di comodo per riordinare gli eventi. Non vi è alcuna ragione di supporre che una parte della mente o una parte della materia siano immortali. Si pensa che il sole perda materia al ritmo di milioni di tonnellate al minuto. La caratteristica essenziale della mente è la memoria, e non c'è alcuna ragione di supporre che la memoria legata a una determinata persona sopravviva anche dopo la morte di quella persona. Anzi, ci sono tutte le ragioni di credere il contrario: la memoria è chiaramente legata a una certa struttura cerebrale, e, dato che questa struttura è destinata a scomparire al momento della morte, ci sono tutte le ragioni di supporre che anche la memoria debba scomparire”. (Dio e la religione)
2. Nella tragedia di Eschilo, Prometeo incatenato, Prometeo pronuncia delle parole bellissime e dice che per impedire agli uomini di guardare alla loro sorte ha posto in loro “cieche speranze”. Il passo è bellissimo: “CORO: Nei doni concessi ai mortali non sei magari andato oltre? / PROMETEO: Sì ho impedito agli uomini di prevedere la loro sorte mortale. / CORO: Che tipo di farmaco hai scovato per questa malattia? / PROMETEO: Ho posto in loro cieche speranze [tuphlas elpidas]. "
Come sai, c’è una grande differenza tra la concezione greca e quella cristiana. A cominciare dall’uso delle parole utilizzate per denotare l’uomo. Il filosofo Umberto Galimberti nel libro “Il senso del sacro” (Feltrinelli, 2000) ricorda che i greci avevano consapevolezza della limitatezza della vita umana, e che “pur disponendo di due parole per dire "uomo", anér e anthropos, impiegano quasi sempre le espressioni brotós e thnetós che significano "mortale".” L’uomo non è dunque indicato con il termine anthropos, come si potrebbe pensare, ma con il termine thnetós: l’uomo è infatti l’effimero, il mortale. Per i greci, infatti, solo la natura, la physis, è eterna, tutto il resto è caduco. L’uomo è parte della cosmica armonia, ma il mondo non è fatto per lui. Egli, infatti, è considerato un “evento” della natura. Nell’Ottocento Schopenhauer riprende questa idea quando dice che “Ciascun individuo, ciascun volto umano e ciascuna vita non è che un nuovo breve sogno dell'infinito spirito naturale, della permanente volontà di vivere; non è che una nuova immagine fuggitiva, che la volontà traccia per gioco sul foglio infinito dello spazio e del tempo, lasciandola durare un attimo appena percettibile di fronte all'immensità di quelli, e poi cancellandola, per dar luogo ad altre.”(Il mondo come volontà e rappresentazione, Laterza, 2009).
Il filosofo italiano Remo Bodei (1938), nel libro Piramidi di tempo (Il Mulino, 2006) spiega molto bene la differenza tra la concezione greca e quella che si è affermata successivamente con il Cristianesimo. Così scrive: “Ma cosa significa propriamente «eternità»? Ormai si è perso il significato originario del greco aion e della latina aeternitas. Diversamente da come siamo abituati a pensare, essa non racchiude in sé la nozione di tempo lungo a piacere, ma quella di vita o forza vitale. Già Plotino chiama l'aion esplicitamente zoe «vita», e Boezio definisce l'aeternitas come plenitudo vitae «pienezza di vita», massima fioritura e culmine della vita. L'eternità è quello zenit dell'esistenza in cui ciascun ente raggiunge la propria perfezione, il proprio specifico fine, diventando quel che può essere secondo le proprie possibilità. L'opposizione vera non è, quindi, tra tempo lungo e tempo breve, ma tra pienezza e scarsità di vita. L'aion o l'aeternitas non hanno perciò propriamente nulla a che vedere con la durata infinita del tempo. […] Il fatto è, in primo luogo, che, nel trascorrere dei secoli, il primitivo significato di «eternità» si è trasformato, anche e soprattutto per effetto del cristianesimo. Ha assunto il senso di un tempo illimitato oltre la morte in cui soltanto i salvati godranno la plenitudo vitae. La nozione di un tempo infinito, di norma confrontato con la brevità della vita terrena, ha così progressivamente eroso ed emarginato quella di una plenitudo vitae fruibile anche in questo mondo e non coincidente con la durata (e quindi, al limite, possibile anche nell'attimo). La nozione cristiana d'eternità è diventata poi, a sua volta, implausibile in età moderna, quando miliardi di uomini l'hanno abbandonata a causa dell'avanzare del pensiero laico, dell'ateismo segreto o militante e del parallelo discredito o dell'agnostica noncuranza con cui negli ultimi secoli è stata spesso accolta la tradizionale fede nell'al di là”. Invece di pensare l’eternità come pienezza della vita gli uomini hanno dunque pensato l’eternità come una vita infinita.
3. Fino ad ora abbiamo visto alcune posizioni: la prima razionalista, la seconda storico-culturale. Mi piacerebbe aggiungere ancora un percorso, fondamentale, che ha aperto molte strade di riflessione e di speranza nella storia. C’è cioè un altro modo di concepire l’eternità: non come “durata indefinita nel tempo”, ma come “intemporalità”, ossia come assenza di tempo o fuoriuscita dalla dimensione del tempo. È la dimensione che Aristotele avrebbe detto degli oggetti eterni: “non sono nel tempo: infatti non sono abbracciati dal tempo né il loro essere è misurato dal tempo; il segno di questo è che essi non subiscono affatto l’azione del tempo, non essendo nel tempo” (Fisica, IV, 12, 221, b 3). Ma è anche il modo di intendere l’eternità soprattutto della dimensione religiosa. Non un’eterna durata all’interno dello spazio-tempo, ma al di là. In una dimensione o “forma” diversa, per noi non concepibile razionalmente. Sono splendide le pagine in cui Agostino (Confessioni, cap. XI) riflette sul rapporto tra il tempo e l’eternità (dice a Dio: Non è nel tempo che tu precedi il tempo: altrimenti non precederesti ogni tempo). Per i cristiani l’eternità è una speranza, perché come c’è scritto nella Lettera ai Romani: "una speranza visibile non è speranza, poiché ciò che si vede come si può ancora sperare? Noi speriamo ciò che non vediamo, e attendiamo pazientemente."
Se finito e infinito rappresentano i termini delle nostre riflessioni, il bisogno di infinito, però, sembra essere per l’uomo, talvolta, più forte dell’evidenza della caducità della natura umana.
Un caro saluto,
Alberto
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