lunedì 29 marzo 2010
I ricordi: fili invisibili che legano passato e presente
Caro professore,
Alcune volte, quando tutto sembra andar male nella vita, le persone dovrebbero cercare di superare i propri problemi e buttarsi a capofitto in attività che danno risultati positivi, ma non sempre accade...
Tre anni fa ho litigato con un gruppo di amiche che pensavo mi avrebbero accompagnato per tutto il resto della mia vita. Erano come sorelle per me. Ma il tempo passa, le persone crescono, ed io, da parte mia, ho cercato di dimenticare, andando avanti con altre amicizie; ma dimenticare non è per niente facile. Ieri sera ho ritrovato delle vecchie foto di queste amiche, le lacrime sono uscite incondizionatamente e le emozioni hanno preso il sopravvento sulla razionalità che mi diceva che ormai era passato.
Ora... come fare a dominare certe emozioni che sfuggono alla ragione? Come fare a passare oltre a sentimenti così forti anche dopo molti anni di distanza? Perché il dolore del passato ci tormenta anche spesso e ben volentieri nel presente? C'è una soluzione alla paura di dimenticare? al dolore del ricordare?
Diletta
Cara Diletta,
Mi sembra che le espressioni che hai individuato, “paura di dimenticare” e “dolore di ricordare”, esprimano efficacemente il rapporto ambivalente che ogni persona instaura con la propria memoria, con il proprio passato e con i ricordi. Mi vengono in mente due personaggi che incarnano singolarmente questi due elementi. In un bel libro di Elie Wiesel (1928) - lo scrittore rumeno sopravvissuto all’Olocausto -, dal titolo l’Oblio [1989, Garzanti 2007] sono presenti due persone che hanno un diverso rapporto con il passato. Malkiel ha “paura di dimenticare”, mentre la signora Elena Calinescu soffre invece il “dolore del ricordo”. Malkiel la cerca perché ha bisogno di informazioni su suo padre e teme di perdere la memoria del passato; la signora Calinescu - da giovane costretta a sposare un ragazzo che diventerà poi un ufficiale delle SS., spietato con gli ebrei e violento e crudele anche con lei –, cerca invece di dimenticare il marito, proprio per liberarsi dal “dolore del ricordo”.
Quando Malkiel le chiede di ricordare, ad esempio, il giorno della liberazione, la donna risponde: “"Ho dimenticato tante cose, tante cose," dice la vecchia. Tira una sedia verso di sé per accomodarvisi. Da quel momento, Malkiel la vedrà soltanto di profilo. "Tante cose," ripete lei con tono stanco. «Meno male che ho potuto dimenticarle. Dio, nella Sua bontà, mi ha aiutato a cancellarle dalla mia memoria. Lei è ancora giovane, signore. Non può capire le virtù dell'oblio. Come si può resistere se ci si ricorda di tutto?" . Spesso maltrattata, soffre perché accanto al marito sente “la presenza delle sue vittime”, ed è un grado di udire “i loro gemiti." Così questa donna sostiene che, quando i ricordi sono troppo dolorosi, anche l’oblio diventa una virtù. Dimenticare vuol dire liberarsi dall’ossessione e dall’angoscia, allontanare travagli, drammi troppo intensi, che travolgono e schiacciano. Malkiel invece è ossessionato dal passato e sente forte il dovere di ricordare, spinto, come dici tu, dalla “paura di dimenticare”. Scrive l’autore: “Malkiel le trattiene la mano tra le proprie: "Spero che non me ne voglia troppo, signora Calinescu. Grazie a lei, sono venuto a sapere qualcosa di utile e forse di essenziale: anche l'oblio fa parte del mistero. Lei ha bisogno di dimenticare, e la capisco; io, invece, devo combattere l'oblio, cerchi anche lei di capirmi."
Il verbo ricordare deriva dal latino (recordare) e contiene la particella “cor”, ossia cuore. Per gli antichi infatti ricordare significava letteralmente “reimmettere nel cuore”, perché il cuore era considerato la sede della memoria. Ecco allora il “dolore del ricordo”: perché quando si reimmettono nel cuore eventi dolorosi come la perdita di affetti importanti, si diventa consapevoli che persone significative e momenti belli non ci sono più. Reimmettere nel cuore il dolore della lacerazione di una relazione di amicizia o di amore genera dispiacere anche a distanza di tempo; la sventura della perdita di un amico o di un familiare rinnova la sofferenza. “Perché il dolore del passato ci tormenta anche spesso e ben volentieri nel presente?” Credo perché noi siamo costituiti dalle relazioni. Relazioni interpersonali che danno significato alle nostre giornate: occhi, sguardi, parole. Ogni legame è importante perché ci permette di vivere, di conoscere, di esprimere la personalità. Per questo quando viene meno un legame significativo proviamo una sofferenza immensa, perché viene meno una parte di noi. Credo che il passato, fondamentalmente, non sia mai del tutto “passato”. Ognuno di noi è costituito infatti da legami: ci rispecchiamo negli altri, instauriamo relazioni, la nostra interiorità è coinvolta in una dialettica inesauribile con le persone; anzi, possiamo anche dire che la nostra soggettività è possibile grazie all’intersoggettività. Non possiamo eliminare l’intersoggettività perché rappresenta la condizione stessa perché ognuno di noi diventi ciò che è, tra identificazione col prossimo e distanza dal prossimo. Coloro che hanno permesso la costituzione del nostro essere, continuano a vivere dentro di noi, magari in modo impalpabile, inavvertibile. Ma continuano ad essere presenti, parte della nostra vita. A distanza di tempo, come è capitato a te, si prova ancora dolore. Credo almeno per tre motivi: perché il ricordo di eventi positivi scomparsi fa nascere in noi la nostalgia di momenti belli (la nostalgia è infatti il dolore per il ricordo); perché temiamo che la pena che si rinnova possa sovvertire un equilibrio psicologico faticosamente conquistato; infine, perché il fallimento di una relazione fa diminuire la fiducia di essere degni dell’amicizia e dell’affetto degli altri. Immaginando quello che abbiamo perso e fantasticando su come poteva essere la nostra vita, sappiamo che una possibilità (la relazione con le vecchie amiche) percorribile nella tela articolata delle relazioni si è interrotta. L’interruzione segna la fine di uno scenario, di un’apertura verso il futuro. Siamo consapevoli che dobbiamo ricreare relazioni, inventare nuove corrispondenze, perché sappiamo che, nonostante la fragilità dei legami, la bellezza di una vita piena è data dalle relazioni,. Dobbiamo però avere fiducia che nuovi rapporti sono possibili e che siamo in grado di crearli. Inoltre, credo che quello che non si riesce a dimenticare debba essere interpretato. È vero, vorremmo ricordare solo le cose belle per stare bene, ma a tradimento, involontariamente, affiorano in noi anche episodi spiacevoli, dolorosi: frasi sgradevoli, scene amare e penose che fanno affiorare l’angoscia. Non possiamo cambiare il passato, ma possiamo circoscrivere gli effetti dolorosi su di noi, considerando tali eventi sotto una nuova luce. In fondo noi non facciamo altro che descriverci e ridescriverci continuamente. Quando un evento ci turba profondamente, ne parliamo o lo ridescriviamo spesso anche a noi stessi. La scienza ci ricorda che la nostra coscienza si sviluppa nella successione dei momenti storici e che anche le emozioni vanno incontro ad un processo di cambiamento. La ridescrizione di certi momenti implica una nuova comprensione dei fatti, getta una nuova luce sul contesto e ci permette di considerare un evento da prospettive diverse. Descrivere e ridescrivere sono operazioni che ci consentono di guardare alla nostra vita in modo meno negativo, senza essere giudici troppo severi. Poiché i pensieri influenzano le emozioni, una nuova valutazione degli eventi dolorosi riduce lo stordimento delle emozioni negative. Un ottimo antidoto alla sofferenza provocata dalla considerazione del passato consiste nell’attribuire significato al presente. Dare senso al presente e a ciò che si fa procura gioia. Ricordo che uno psichiatra diceva che nella dimensione della gioia si dimentica il futuro ma anche il passato: i fantasmi del passato e le aspettative del futuro, perché l’istante del presente riesce ad occupare ogni dimensione. Nietzsche stesso scriveva: “Chi non sa mettersi a sedere sulla soglia dell'attimo dimenticando tutte le cose passate, chi non è capace di star ritto su un punto senza vertigini e paura come una dea della vittoria, non saprà mai che cosa sia la felicità, e ancor peggio, non farà mai alcunché che renda felici gli altri”.
Un caro saluto,
Alberto
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