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Cor-rispondenze

lunedì 25 ottobre 2010

La falsità sconvolge la vita



Caro professore,
La falsità è una tematica che mi colpisce nel profondo, perché ultimamente ha sconvolto la mia vita. La falsità di persone che mai credevo fossero false, e mi hanno calpestato e voltato le spalle senza ritegno, senza chiedersi perché, dimenticando o forse volendo dimenticare tutto, e non hanno voluto capire; basandosi su un dettaglio da nulla hanno distrutto un sentimento che credevo vivo in loro senza una minima spiegazione: mi hanno tradito; penso che la falsità sia la cosa più terrificante soprattutto quando uno non se l'aspetta. Insomma, scoprire di essere attorniati da persone false, che pongono il primo ostacolo per farti cadere è una morte. E mi struggo a pensare: perché? Perché le persone che più mi erano vicine si devono rivelare in questo modo? Sbaglio io, sì, a dare l'anima per un'amica/o, tutto quello che posso, e quello che mi torna indietro è pura falsità e nessun punto d'appoggio. E mi chiedo, perché per colpa della mia bontà mi sento sola, e per colpa della falsità di qualcuno soffro? Ci si sente morire quando si scopre che un'amica in realtà non è un'amica, ma è una persona falsa, e purtroppo, ormai l'ha dimostrato in tutti i modi. Bisogna avere la forza di rialzarsi, di pensare che il mondo è pieno di persone che ti meritano e ti vogliono per quello che sei, che non si dimostreranno false, che ti danno aiuto quando ne hai bisogno, sinceramente; e per fortuna questa forza io ce l'ho avuta. La falsità crea delusione, ma dopo tutto grazie a lei si cambia, si guarda il mondo con altri occhi, si capiscono quali sono le persone vere e degne di un'amicizia vera e si spera che le altre presto se ne accorgano. È difficile tutto questo, spero di avercela fatta, professore.
Carlotta


Cara Carlotta,
Hai scritto una lettera molto bella, Carlotta. Nelle tue parole emerge la sofferenza di una persona molto sensibile che crede fortemente nell’amicizia. Mi hai fatto venire in mente una frase di Adam Smith che ho letto un po’ di tempo fa: “Il carattere che manifesta un'estrema umanità mostra una sorta di impotenza, che ci impietosisce più di ogni altra cosa. Non ha nulla in sé che lo renda sgraziato o spiacevole: soltanto, ci rammarichiamo del fatto che non è adatto al mondo, perché il mondo ne è indegno, e perché espone come una preda la persona che lo possiede alla perfidia e alla falsità, oltre che a migliaia di sofferenze e disagi, da lei meritati meno di chiunque altro e generalmente per lei insopportabili”. (A. Smith, Teoria dei sentimenti morali, Bur 1995). Chi è sensibile è più esposto alla perfidia del mondo, alle bassezze delle persone e a volte, purtroppo, soffre di più. La falsità fa male. La falsità e la menzogna ci divertono solo se sono usate in un contesto di gioco e di divertimento. Dunque, temporaneamente. E ci divertono se alla fine vengono smascherate e il gioco viene rivelato. A volte l’inganno ci allieta, ma mai quando è un inganno tra amici. La menzogna nei rapporti di amicizia ci affligge nel profondo. È qualcosa di più dell’essere ignorati o abbandonati. Perché la menzogna nelle relazioni ci svela che coloro che abbiamo creduto avessero i nostri valori e la nostra sensibilità sono diversi. La consapevolezza del tradimento e l’ambiguità della relazione generano sofferenza; aumentano l’incertezza nei legami affettivi, l’insicurezza nei rapporti, il dubbio negli incontri. Un fiducia tradita è una ferita aperta che duole. A questo dolore seguono poi l’umiliazione dell’abbandono, l’avvilimento per un voltafaccia inatteso e la coscienza del fallimento della relazione. Dopo un’esperienza di forte delusione si rischia, come dici tu, di cambiare: “si cambia, si guarda il mondo con altri occhi”, perché l’esperienza di profonda frustrazione sovverte la vita relazionale e il mondo interiore. Tu dici: “ha sconvolto la mia vita”. Già, ha scon-volto la vita, perché ha deturpato il “volto” con cui andiamo incontro alla vita. Il volto è il nostro modo di incontrare il mondo, perché il volto si modella proprio nell’incontro con gli altri. Se si viene scon-volti, si muta il volto, ossia il modo di incontrare le persone. Rischiamo di guardare gli altri con delle categorie interpretative negative, inadeguate, alterate. Ma questo modo distorto di incontrare persone nuove può produrre ulteriore sofferenza.
Sai Carlotta, non tutti sono all'altezza dei valori che dichiarano. È difficile dimenticare un voltafaccia o un tradimento, soprattutto nell'amicizia, perché l'amicizia è oggetto di grande investimento affettivo, di tempo e di dedizione. Per far nascere amicizia ci vuole reciproca cura nel corso del tempo. E quando entra in gioco la falsità ci rendiamo conto che un'amicizia è destinata ad essere perduta, forse definitivamente, e che difficilmente si può recuperare.
È difficile lenire il dolore, perché il dolore del tradimento spesso non si estingue mai del tutto. Perché la menzogna non è un incidente di percorso che si può condividere o recuperare; la menzogna è il venir meno alle regole implicite dell'amicizia. E l'amicizia non è incondizionata: è condizionata dalla coerenza e dall'integrità della relazione. Se l'amicizia si apre in questa dimensione le persone si possono incontrare, ma la comunicazione non deve essere distorta o monca. Deve essere integra e leale, perché in questa speciale relazione le persone si aprono le une alle altre e in questo modo imparano a fidarsi del prossimo e a crescere. L’apertura agli altri consente di avviare un'interpretazione di sé e del mondo più profonda.
Nei legami si trova comprensione e ci si sente accolti; ma la condizione dello scambio è quella della dignità. Con gli altri condividiamo le nostre speranze, i nostri cambiamenti, il nostro destino, le nostre frustrazioni, i nostri errori. Non si può imporre la virtù, e neppure si possono persuadere gli altri a comportarsi in modo virtuoso. Il mondo non si comporta come vorremmo e talvolta cercare di far finta di nulla non è rispettoso nei nostri confronti.
Eppure dobbiamo continuare ad investire nelle relazioni, proteggendo la nostra dignità e la dignità della nostra relazione da coloro che tentano di stravolgerla, di ridurla o di menomarla. La vita diventa degna di essere vissuta quando diamo dignità ai nostri rapporti. Nel campo della relazione facciamo pertanto esperienza della moralità; ma chiediamo conto anche della moralità altrui.
Forse la ferita che in questo momento ti fa soffrire ti offre anche la possibilità di guardare più a fondo il mondo dei rapporti interpersonali; può suggerirti nuove prospettive per rinegoziare un rapporto e per giungere a compromessi.
Non siamo mai al riparo dal tradimento degli altri. Però sappiamo che solo nella fiducia si può formare l'amicizia. E abbiamo così bisogno di amicizia da ricreare nuovamente nuovi rapporti per socializzare. Ma è importante chiarirsi per evitare fraintendimenti; occorre scoprire le esigenze diverse, chiarire i propri bisogni e ricordare che nelle relazioni è fondamentale imparare un’arte importante: quella di negoziare. Per condividere qualcosa, per vivere insieme, occorre chiarire le proprie ragioni e, molto spesso, avere calma e serenità per fermarsi a dialogare.
Un caro saluto,
alberto

lunedì 18 ottobre 2010

L'onnipotenza di Dio


Caro professore,
io sono una ragazza di famiglia di religione musulmana.
La mia famiglia è molto tradizionalista, molto credente. Io, invece, a differenza di loro ho un problema che mi "perseguita" da qualche anno:
io, a differenza della mia famiglia, in Dio non credo molto. Per essere precisi non credo nella sua onnipotenza.
Sarà forse che i miei genitori alla mia nascita e infanzia non erano religiosi quanto lo sono ora.
Un tempo mi consideravo atea, ma poi ho cambiato idea, sarà forse "l'influenza" che mi hanno trasmesso loro.
Tornando alla cosiddetta onnipotenza di Dio; secondo me Dio, creando l'uomo, l'ha lasciato lì, responsabile delle sue azioni, fino alla morte.
La mia domanda è: Dio esiste? ma la più importante è: Dio ha perso l'onnipotenza?
Maryam


Cara Maryam,
Venire al mondo” non significa semplicemente “nascere”. Le espressioni “venire al mondo” o, “venire alla luce”, implicano che, insieme all’ingresso nel mondo di un bambino che inizia la vita, vengano alla luce anche tutte le cose e, insieme alle cose, il senso che una certa parte del mondo attribuisce ad esse. Ogni persona nasce in una famiglia (credente o meno) che fissa i significati di ciò che si deve conoscere, in una tradizione che organizza un sistema di valori, in una cultura che orienta le aspettative e costruisce i concetti con cui le persone interagiscono, ossia costruisce lo sfondo in cui le persone si comprendono e desiderano essere comprese. La religiosità o meno della famiglia influenza certamente la possibilità di avere fede o meno. Affermi di credere in Dio, e ti poni il problema della sua “onnipotenza”. Metti in relazione la riduzione dell’onnipotenza di Dio con un aumento della libertà e della responsabilità dell’uomo (“creando l'uomo, l'ha lasciato lì, responsabile delle sue azioni, fino alla morte”). Ma diminuzione di onnipotenza, riduzione di potere, contrazione di forza del divino, non portano forse al un venir meno della rilevanza di Dio stesso, ad una sua eclisse, al suo oscuramento? Ed è per questo che probabilmente giungi al termine chiedendoti: “La mia domanda è: Dio esiste?”.
Ora concentriamoci sull'idea di onnipotenza divina.
Intanto chiediamoci perché nella storia si è considerato Dio come “onnipotente”.
Con Tommaso d’Aquino e poi con Spinoza la potenza è intesa come potenza proporzionata al grado di essere di ogni ente, ossia di ogni cosa del mondo: maggiore è il grado di essere, maggiore è la potenza. “Poter non esistere è impotenza, e viceversa poter esistere è potenza”, scriveva Spinoza nell’Etica (1677). Poiché (almeno secondo la logica del passato) è necessario che vi sia una causa di tutte le cause (pensa all’effetto del domino dove una pedina ne muove un’altra: ci deve essere un inizio), questa non può che essere anche causa di sé. Eternità in atto (per Tommaso), causa di sé (per Spinoza), sono dunque le caratteristiche che consentono di intendere l’infinita potenza di Dio. Così Dio nella storia è stato inteso come causa sui, causa di sé, dunque potenza assoluta. Scrive Spinoza: “quanta più realtà spetta alla natura di una cosa, tante più forze essa ha da se stessa per esistere; e perciò l'ente assolutamente infinito, cioè Dio, ha da se stesso una potenza di esistere assolutamente infinita, e perciò assolutamente esiste”.
La mia potenza di uomo è limitata, quella di Dio – che non deriva da altra causa – non è affatto limitata; dunque Dio è onni-potente. Anzi, Spinoza dirà anche che: “La potenza di Dio è la sua stessa essenza” e che non si può pensare, ad esempio, che con la creazione sia diminuita, anzi occorre pensare che tale potenza sia infinita, dunque inesauribile. La potenza di ogni uomo, anche del più grande genio, è sempre limitata: dalla materia, dalla cultura, dalla condizione fisica, mentre la potenza di Dio, che non è delimitata da nulla, è pertanto potenza infinita. Pur nella diversità delle due visioni del mondo, tra Tommaso e Spinoza, la visione dell’onnipotenza di Dio è per alcuni aspetti analoga. D’altra parte perché dovremmo pensare che ciò che è infinito (se esiste) debba avere una potenza limitata? E poi, limitata da che cosa? Quindi è più facile pensare che l’infinito abbia potenza proporzionata alla propria natura, ossia infinita.
Beh, in verità, in passato è già stata pensata una limitazione della sua potenza: qualcuno scriveva che nemmeno Dio può far sì che due e due non facciano quattro; oppure qualcun altro riferiva che neppure la potenza di Dio può cancellare quello che ci è successo nella vita. Su questa strada il professor Elie Wiesel, premio nobel per la pace, in un intervento per la Celebrazione del Giorno della Memoria 2010 al Parlamento italiano, riferendosi all’Olocausto ha affermato: “Sì, ciò che è stato fatto non può essere annullato, neanche Dio può annullare ciò che è stato fatto”.
Un importante filosofo contemporaneo, Hans Jonas (1903-1993), affronta questo problema in un volumetto dal titolo Il concetto di Dio dopo Auschwitz, [Il Melangolo 1989, 1997]. E ritiene che dopo quello che avvenne nei campi di sterminio occorre “ripensare radicalmente Dio”, lasciando cadere alcuni concetti che una lunga tradizione ci ha consegnato. D’altra parte o si accetta l’annuncio di Nietzsche “Dio è morto”, o si intraprendono nuove vie per interpretare il concetto di Dio. Hans Jonas sceglie questa seconda strada. Secondo Hans Jonas ad Auschwitz Dio “ha manifestato un aspetto della propria essenza che l’uomo non aveva colto“. Quale aspetto? Nella seconda parte del suo scritto suggerisce l’idea di un Dio che soffre e diviene con il mondo e con l’uomo, mentre nella terza parte riflette sugli attributi divini che la tradizione ha attribuito a Dio: bontà infinita, onnipotenza e comprensibilità da parte dell’uomo.
Ma Dio non si prende cura del mondo e dei suoi figli? Secondo l’autore Dio non si prende cura come un mago che interviene per modificare quello che fanno gli uomini, ma probabilmente per una scelta imperscrutabile: “decise di rimettersi al caso, al rischio, e alla molteplicità infinita del divenire. E lo fece in modo totale, senza riserve: abbandonandosi all'avventura dello spazio e del tempo, la divinità non tenne nulla per sé; nessuna sua parte rimase indenne e incontaminata, per poter governare, dirigere e da ultimo garantire dall'al-di-là l'errabonda metamorfosi del suo destino nella creazione”. Questa è una riflessione ragionevole: invece di sorvegliare il mondo e gli uomini come burattini, avrebbe deciso di rischiare per amore della libertà anche se stesso.
Torniamo ora ai tre attributi divini citati (bontà infinita, onnipotenza e comprensibilità). Dopo Auschwitz, scrive l’autore “dobbiamo affermare con estrema decisione che una Divinità onnipotente o è priva di bontà o è totalmente incomprensibile”. Non possiamo però pensare che Dio non sia buono, allora dobbiamo riflettere sugli altri due concetti. Possiamo pensare che Dio sia buono nonostante l’esistenza del male, solo se lo pensiamo come “non onnipotente”. In molte occasioni della storia Dio infatti “non interviene”. Jonas pensa che non intervenga, non perché non lo voglia, ma perché non sia in condizione di farlo: “Concedendo all'uomo la libertà, Dio ha rinunciato alla sua potenza”, scrive infatti l’autore. E questo assomiglia molto a quello che hai intuito tu nella tua lettera. Decidendo per la libertà e la responsabilità degli uomini, ha dovuto rinunciare alla sua potenza (allora torna ad essere un Dio comprensibile). Secondo l’autore, come nel caso di Giobbe, Dio soffre in silenzio, ma lascia all’uomo la libertà. Solo dalla libertà infatti può nascere la responsabilità.
Vale certamente la pena approfondire la bellissima lettura del testo di Hans Jonas.
Un caro saluto,
alberto

lunedì 11 ottobre 2010

Sola nella folla


Caro professore,
Da un po’ di tempo a questa parte, più precisamente da quando ho iniziato il Liceo, sento dentro di me un grandissimo senso di solitudine. Non penso ci sia da stupirsi, ma non riesco a capacitarmi del fatto che pur essendo circondata da mille persone a cui credo di voler bene...mi senta più sola di quando realmente sono sola...ho una sensazione di paura mista a delusione che provoca in me un grande senso di solitudine...Mi ritengo una persona molto altruista e sono sempre pronta ad aiutare i miei amici...ma quello che più mi delude è che più sono me stessa più ricevo pugnalate alle spalle...Non voglio più sentirmi sola...è strano come alcune volte sono circondata da tutti coloro a cui voglio bene...e nonostante questo mi senta spaesata, persa...SOLA....
Marianna


Cara Marianna,
“Essere soli è diverso dallo stare da soli o dal sentirsi soli”.
Così scrivono due importanti psicologi americani, John Cacioppo e William T. Patrick in Solitudine. L'essere umano e il bisogno dell'altro [Il Saggiatore, 2009].
Individuano pertanto almeno tre connotazioni della solitudine:
1. Stare da soli.
Non necessariamente “stare da soli” è indice di solitudine o fonte di malessere. L’hai certamente sperimentato anche tu. Una pianista passa molte ore nel suo studio da sola al pianoforte, così un ciclista che si allena in montagna e molti atleti. Anche gli scrittori, i musicisti e gli scienziati per creare le loro opere trascorrono molti momenti in disparte. Questa solitudine è impiegata per fare un importante lavoro su se stessi e giova per raggiungere un certo obiettivo. Si sta da soli, ma non ci si sente soli. Pensa ad esempio ai monaci o ai sacerdoti: passano molto tempo nella solitudine e nella preghiera, ma non vengono lasciati da soli e non necessariamente si “sentono” soli. Possiamo isolarci per molto tempo, per un compito, un lavoro, ma nello stesso tempo avvertire la presenza delle persone care. Avvertire l’amore delle persone infonde fiducia sufficiente che permette di stare isolati anche per lunghi periodi.
2. Sentirsi soli.
Tu hai conosciuto un’altra solitudine, ossia la sensazione di sentirsi soli in mezzo agli altri. Questa solitudine è relativa al processo di crescita che avviene dentro di noi. Ed è essenziale per scoprire veramente quello che ci interessa o ci fa stare bene. Ci accorgiamo gradualmente che non riusciamo più a identificarci in certi valori, che non proviamo più divertimento per certe attività, che non riusciamo più ad immedesimarci nelle occupazioni abitudinarie. Questa solitudine è però il segnale del processo di individualizzazione che avviene dentro di noi. Ogni cambiamento che implica la nostra crescita chiede il passaggio attraverso la solitudine. Perché si perdono certe connessioni (tra persone, idee, visioni del mondo) e se ne devono creare altre. Il periodo dell’adolescenza chiede di creare nuovi nessi con il sapere e nuove relazioni con le persone. È piuttosto normale, allora, sentire quelli che vengono definiti i “morsi della solitudine”. Il “morso”, se vogliamo usare questa metafora (canina), indica un evento doloroso ma discontinuo, fastidioso ma temporaneo. Intermittente, e dunque non definitivo. A volte la lontananza è vitale, la solitudine aiuta a prendere contatto con se stessi, a riflettere maggiormente sui propri cambiamenti. Sappiamo però che si entra e si esce dalla solitudine: non siamo mai completamente (solamente) legati agli altri né soli, ma ad intermittenza torniamo ad essere da soli e a relazionarci al mondo. Allora la solitudine ha a che fare con la nostra struttura naturale, con la nostra “umanità”. È attraverso momenti di solitudine che rinnoviamo la nostra vita.
3. Essere soli.
C’è però ancora un’altra solitudine che provoca un forte dolore: essere soli. La separazione sociale produce sofferenza e aumenta la possibilità di ammalarsi. Scrive Cacioppo: “le sensazioni di connessione sociale, così come le sensazioni di separazione sociale, hanno un'enorme influenza sul nostro corpo e sul nostro comportamento. Tutti ci indeboliamo fisicamente prima o poi, ma la solitudine può far aumentare la pendenza della discesa. Di contro, i rapporti sani possono contribuire a rallentare il decadimento”. L’idea solitudine come dolore sociale non è solo una metafora. John Cacioppo mostra che le neuroimmagini ottenute grazie alla risonanza magnetica funzionale (fmRi) rivelano che la regione emotiva del cervello che viene attivata quando ci sentiamo isolati ed esclusi è la stessa regione che registra le risposte emotive al dolore fisico (il cingolo anteriore dorsale).
Pensa che gli autori ipotizzano che, dal punto di vista evolutivo, come il dolore fisico ci fa avvertire un pericolo, così il dolore da separazione ci segnala che siamo in pericolo dal punto di vista sociale: “Il dolore fisico protegge l'individuo dai pericoli fisici. Il dolore sociale, noto anche come solitudine, si è evoluto per una ragione simile: perché proteggeva l'individuo dal pericolo di rimanere isolato”.
“I nostri antenati dipendevano dai legami sociali per la propria sicurezza e per la riuscita della replicazione dei propri geni in forma di discendenti che sopravvivessero abbastanza a lungo da riprodursi a loro volta. Le sensazioni di solitudine segnalavano quando questi legami protettivi erano in pericolo o insufficienti. Così come il dolore fisico funge da sprone a cambiare comportamento — il dolore della pelle che brucia ci dice di togliere il dito dalla padella rovente — allo stesso modo la solitudine si è sviluppata come stimolo a prestare maggiore attenzione ai rapporti sociali, a cercare di comunicare con gli altri, a rinvigorire legami logorati o spezzati. Ma si trattava di un dolore che ci spingeva a comportarci in modi che non sempre servivano il nostro interesse personale immediato. Era un dolore che ci faceva uscire da noi stessi, ampliando il nostro sistema di riferimento al di là del presente
”.
Da questa prospettiva, il dolore della solitudine è la spia che ci spinge ad uscire dalla solitudine stessa e a creare legami sociali.
Quindi, stai serena. Il sentirsi soli, ossia la sensazione che hai descritto, è un segnale della consapevolezza della nostra individualità e del rinnovamento che avviene dentro di noi.
La solitudine fa parte della vita. Dobbiamo imparare a convivere con momenti di solitudine. Ma poiché siamo esseri sociali e sappiamo che la felicità deriva soprattutto dalle relazioni, facciamo in modo che ogni ritirata sia la molla per un nuovo slancio nelle relazioni.
Un caro saluto,
alberto

lunedì 4 ottobre 2010

Il senso del perdono


Caro professore,
A volte anche perdonare una persona è molto difficile; ma qual è il vero significato dell'atto del perdono?
Laura


Cara laura,
Per iniziare una riflessione sul perdono, faccio riferimento ad alcuni spunti di un dialogo avvenuto tra Enzo Bianchi, priore di Bose, e Gustavo Zagrebelsky, avvenuto a Torino (sabato 25 settembre 2010) nell’ambito della manifestazione Torino spiritualità.
Enzo Bianchi ricorda che il concetto di perdono è stato elaborato soprattutto nell’Occidente e che in altre tradizioni è meno testimoniato. E fa presente che quando si parla di perdono occorre far riferimento al soggetto che “perdona” (perché perdona chi gli ha fatto del male); e che il perdono è dunque un “processo” che coinvolge il soggetto che ha subito un danno. È un processo che richiede tempo. Chi è perdonato, infatti, potrebbe non fare buon uso del perdono o non accettare il perdono stesso. Con il perdono, però, chi è stato offeso offre all’altra persona la possibilità di ricominciare.
Gustavo Zagrebelsky, importante giurista italiano, in passato Presidente della Corte Costituzionale, mette in luce anche un aspetto deresponsabilizzante del perdono: se ogni colpa è sempre perdonata, se ogni colpa cade nell’oblio, si annullano semplicemente i ricordi spiacevoli e si giustifica l’oblio della colpa. Attento alle sfumature di significato, Gustavo Zagrebelsky fa riferimento pertanto alle “colpe che si pèrdono”. Però le colpe non devono essere “dimenticate”, perché sono elementi costitutivi della storia di ciascuno. Ogni persona va ricordata con le proprie luci e le proprie ombre. Per questo, Zagrebelsky invece di “perdòno” preferisce parlare di “responsabilità” e di “pentimento”.
Enzo Bianchi sottolinea allora che, certamente, si può fare anche un cattivo uso del perdono, come del resto anche dell’amore, ma che non per questo viene meno la funzione fondamentale del perdono nelle relazioni umane. Il perdono non cancella la responsabilità e nello stesso tempo non vuole la reciprocità. Ha soprattutto a che fare con la dimensione del dono. Potremmo dire che colui che perdona offre all’altro la possibilità di cominciare nuovamente, infatti è “per-dono” di chi è stato offeso che la relazione può ricominciare.
Bianchi ricorda inoltre che con Dio il perdono ha un significato particolare: Dio può cancellare, come accade con la spugna sulla lavagna, i peccati dell’uomo. Nella sua onnipotenza può dimenticare ciò che ha visto e ciò che potrebbe ricordare. Dio, secondo la religione cristiana, offre pertanto a tutti la possibilità di ricominciare, perché secondo Bianchi “l’uomo è sempre più grande del delitto che ha compiuto”. Come infatti non si può identificare un figlio con la sua malattia, con un vizio o con un handicap, perché questi sono aspetti della persona e non tutta la persona, così non si può ridurre la persona al fatto commesso. Bisogna sempre fornire altre occasioni perché possa recuperare.
Gustavo Zagrebelsky intervistato poi da Paolo Griseri (la Repubblica, sabato 25 settembre 2010) alla domanda se non sia importante annullare tutto e ricominciare da capo, risponde: "È in quel 'ricominciare da capo’ che si nasconde il problema. Prendiamo l'esempio del Sudafrica: la commissione di riconciliazione istituita al termine dell'apartheid non ha affatto cancellato le colpe dei singoli. È partita anzi dal riconoscimento di quelle colpe per costruire una nuova coscienza nazionale condivisa. L'idea del perdono che fa dimenticare la colpa produce invece una società di eterni bambini, perennemente ricondotti allo stato di fanciullezza che dalla storia dei loro errori non sono in grado di imparare nulla. Per questo al perdono preferisco la responsabilità che nasce dal pentimento".
Io credo che si parli con troppa facilità di perdono. Certo, nelle relazioni ognuno ha qualcosa da perdonare e di cui farsi perdonare, ed è certamente importante non impedire a nessuno “un nuovo inizio”. C’è evidentemente una gioia che procede dalla riconciliazione, e c’è un bisogno di ripresa positiva delle relazioni. Ma oggi la parola perdono è usata in contesti sbagliati o con troppa superficialità. Chi perdona ama confessarlo pubblicamente e in qualche modo ottiene l’approvazione sociale che lo gratifica. Ma è vero perdono? Anch’io preferisco le parole “pentimento” e “responsabilità”. Ci sono persone che fanno del male intenzionalmente e sono del tutto indifferenti al male che hanno fatto, oppure negano l’evidenza dei misfatti di cui sono responsabili. Lascerei il perdono, con la conseguente cancellazione totale della memoria, all’ambito della religione e a Dio, e conserverei per gli uomini il perdono solo se accompagnato dalla presa di coscienza del male compiuto. Se l’altro non riconosce il male che ha causato (e cerca magari di rimediare), il perdono è una forma di indifferenza, una sorta di imperturbabilità eccessiva, o una vuota parola che produce amnesia sulle colpe e rende le persone irresponsabili di fronte agli altri, estranee alle azioni compiute. Il perdono ha senso se si accompagna alla giustizia, altrimenti gli uomini ne fanno un cattivo uso.
Un caro saluto,
alberto

Puoi ascoltare una parte dell’incontro sul perdono su questa pagina di Radio3:
http://www.radio3.rai.it/dl/radio3/programmi/puntata/ContentItem-be3fc669-44f8-478f-b411-fead492a4328.html
o leggere l’articolo di Enzo Bianchi su TuttoLibri del 18 settembre 2010
http://www3.lastampa.it/libri/sezioni/news/articolo/lstp/328642/

Ti segnalo alcuni libri sull’argomento:

1. Eileen Borris-Dunchunstang, Perdonare. La vera libertà degli esseri umani, Elliot Edizioni, 2010, 281 pp.
2. Giorgia Paleari, Camillo Regalia, Perdonare, Il Mulino, 2008, 128 pp.
3. Jacques Derida, Perdonare, Cortina Raffaello, 2004, 106 pp.
4. Richard Holloway, Sul perdono. Come si può perdonare l'imperdonabile?, Ponte alle Grazie, 2004, 92 pp.
5. Vladimir Jankélévitch, Perdonare?, La Giuntina, 1988, 63 pp.

E due testi che hanno a che fare con le pratiche del perdono nella storia e con la nascita della giustizia internazionale:

1. Ottavia Piccoli, Perdonare. Idee, pratiche, rituali in Italia tra Cinque e Seicento, Laterza, 2007, 238 pp.
2. Antoine Garapon, Crimini che non si possono né perdonare né punire. L'emergere di una giustizia internazionale, Il Mulino, 2004, 289 pp.