lunedì 29 novembre 2010
Rimpianti
Caro professore,
Ho troppi rimpianti. Sono tutti gli attimi di silenzio che affollano la mia esistenza e sono tutte le parole che ho pronunciato senza sapere cosa stavo dicendo. Sono tutte le giornate di sole che ho trascorso chiusa al buio a compatirmi, senza pensare a nient’altro e a quanto fossi egoista. Sono tutti i momenti in cui il mio orgoglio è diventato stupidità. Sono tutti i sorrisi che non ho fatto alle persone a cui voglio bene solamente perché la mia vita non andava come volevo, e tutte le volte che non sono riuscita a capire i pensieri di chi cercava di comunicarmeli con gli occhi.
Fiammetta
Caro professore,
Durante la vita, secondo me, uno solo è il rimpianto, ovvero quello di non godersi i pochi istanti che si passano in serenità con le persone che si amano. Infatti la vita è corta e bisogna amarla e goderla al massimo. Il rimpianto è un’emozione che crea nel nostro cuore una sensazione di tristezza che male accompagna la gioia della vita.
Federico
Cari Fiammetta e Federico,
Così scriveva il grande filosofo francese Montaigne: “Qualcuno si duole, più che della morte, del fatto che essa gli interrompa il corso d'una bella vittoria; un altro, che gli tocchi sloggiare prima di aver maritato sua figlia o messa a punto l'educazione dei figli; l'uno rimpiange la compagnia della moglie, l'altro del figlio, come principali piaceri della sua esistenza. Per il momento io sono, grazie a Dio, in tale condizione che posso andarmene quando a lui piacerà, senza rimpianto di cosa alcuna se non della vita, se mi peserà la sua perdita. Mi vado staccando da tutto; ho preso congedo per metà da ognuno, eccetto che da me stesso. Mai uomo si preparò a lasciare il mondo più nettamente e completamente, e se ne distaccò più universalmente di quel che io mi accingo a fare” (Montaigne, Saggi, I).
Per non soffrire, il filosofo insegnava dunque a considerare le cose gradualmente con maggior distacco. Ma vediamo ora che cosa intendiamo quando parliamo di rimpianti.
Il rimpianto è legato al desiderio, e ha a che fare con un desiderio rivolto al passato. Di solito riteniamo che la caratteristica del desiderio sia l’apertura al futuro. E, quasi sempre, a ragione. Infatti si desidera per ottenere qualcosa che non si ha (una bicicletta nuova, un lavoro, una vita ricca di relazioni autentiche), ma anche per diventare ciò che ancora non si è (un pasticcere, un artigiano, un medico). Il desiderio ha a che fare con il campo della pura possibilità: si desidera in vista di un fine. Guardando al futuro, immaginiamo un campo di possibilità ancora aperte. Anche se le possibilità non sono (mai) illimitate - perché ogni persona è sottoposta a condizionamenti personali, culturali e sociali che riducono lo spettro delle opportunità future -, le strade da percorrere che si possono immaginare rimangono ancora tante. Occorre tener conto, però, che anche i desideri rivolti al futuro possono essere irrealizzabili o utopistici. Allora perché i desideri rivolti al passato (i rimpianti) sono più dolorosi di certi desideri rivolti al futuro (verso possibilità che riteniamo impraticabili)?
Nel divenire della nostra vita, nel formare quello che siamo, ci tormentiamo maggiormente per le alternative del passato non più percorribili (tutte le giornate di sole che ho trascorso chiusa al buio a compatirmi), piuttosto che per quelle future che presentano caratteristiche analoghe. Rimpiangiamo di non aver fatto la scelta giusta nel lavoro, negli affetti, nelle amicizie. Oppure rimpiangiamo di non aver fatto una certa scelta “al tempo giusto”. Già, il tempo. Perché il rimpianto è strettamente legato al fluire tempo. Poiché è nel tempo che costruiamo la nostra essenza (ossia stabiliamo ciò che siamo), sappiamo che ogni scelta, almeno ogni scelta importante, orienta la nostra vita in una direzione o in un’altra: posso diventare un artista, un padre di famiglia; appartenere ad un gruppo religioso o politico, oppure ad un altro. Tutto dipende da una serie di valutazioni. Il ricordo della nostra condizione mortale ci manifesta però una sorta di impossibilità strutturale: non possiamo modificare il passato, e dunque non possiamo modificare (almeno complessivamente) ciò che siamo. Però il passato non è più il regno della possibilità: le decisioni adottate, le parole dette, hanno inevitabilmente generato conseguenze. Anche le omissioni generano ripercussioni nelle relazioni (tutti i sorrisi che non ho fatto alle persone a cui voglio bene). Le conseguenze appartengono al regno della realtà e non più a quello della pura possibilità. Assomigliano all’acqua in cui il pittore intinge il pennello che si modifica quando è sfiorata da un colore. Hanno pertanto generato modifiche in noi e nei nostri rapporti. Non si può fare come se non fosse accaduto nulla: ogni gesto concretizzato o omesso ha determinato variazioni nella vita. Mentre le possibilità future – quelle per noi impraticabili - non hanno ancora influito sulle nostre relazioni reali, le scelte o le parole dette o non dette hanno già generato degli effetti ben visibili, di cui spesso ci riteniamo responsabili. E se ciò che siamo al presente non ci soddisfa, siamo propensi a credere che se avessimo fatto altre scelte, il nostro stato attuale sarebbe più felice. Per questo soffriamo. Quando pensiamo al futuro, anche se siamo consapevoli che non tutto ci è permesso, sappiamo che il futuro ci offre sempre la speranza di diventare altro da ciò che siamo, per abbandonare la condizione di vita del momento; se ci confrontiamo invece con quello che avremmo potuto essere, allora sentiamo l’angoscia per l’impossibilità (reale) di essere (stati) diversi. Questa angoscia per quello che avremmo potuto essere e non siamo provoca il rimpianto. Non posso rifare un altro tipo di scuola (in ogni caso la farei ad un’altra età e dunque mi relazionerei in modo diverso ai compagni e agli insegnanti). Non si torna indietro. Il rimpianto allora deriva dalla consapevolezza dell’irripetibilità del tempo, dalla sua irreversibilità. La domanda che risuona nel rimpianto è: se avessi fatto questa scuola, se avessi studiato musica, se avessi studiato le lingue, se mi fossi sposato giovane, se non mi fossi sposato. Il modello è: “se avessi…, oggi sarei”. L’impossibilità di essere altro - l’impossibilità di tornare indietro -, genera sofferenza. Fino a quando sentiamo vibrare dentro di noi un ventaglio di alternative possibili, di progetti realizzabili, avvertiamo meno l’irreversibilità del tempo e l’immobilità della nostra vita. Quando mettiamo a nudo le possibilità sfumate ci sentiamo prigionieri di una certa condizione, che di solito viviamo in modo doloroso.
È giusto avere rimpianti? Penso che fantasticare alternative possibili alla nostra vita sia un percorso dell’immaginazione interessante. Credo, però, che vivere proiettati nel passato sia poco salutare. È come desiderare l’impossibile. O avere a che fare con la follia (desiderare che ciò che è stato non sia stato). È come pensare che se avessi avuto altri genitori, se avessi avuto altri insegnanti, se fossi vissuto altrove, se avessi amato quella persona oggi sarei diverso (migliore). Questo modo di ragionare, però, può paralizzare l’azione. Se vogliamo modificare il passato non possiamo agire su di esso, ma solo sul presente. Per questo è importante l’attività. Se abbiamo sbagliato, possiamo modificare la relazione oggi, con il nostro impegno e la nostra volontà.
Un caro saluto,
alberto
lunedì 22 novembre 2010
Sepideh Rouhi a Bra
Cara Sepideh, racconta la straordinaria esperienza che hai vissuto in questi anni, traducendo dal farsi un’opera così importante e impegnativa.
Nell'estate del 2007 mi trovavo in vacanza in Iran con i miei genitori. Perché io sono iraniana, e con la mia famiglia trascorro quasi tutte le estati le vacanze a Teheran dove ho i nonni. L'autrice del libro è un'amica di vecchia data di mia madre. Un giorno le fece una proposta. Durante una conferenza organizzata in difesa del libro (Quello che mi spetta), a cui avevano preso parte molti giornalisti da tutto il mondo, le si era avvicinato un giornalista italiano del Corriere della Sera che le aveva proposto di consegnare le prime cento pagine tradotte del libro in Italia per poi considerare eventualmente se pubblicare l'intera opera. L'autrice, sapendo che mia madre viveva da più di vent'anni in Italia, le propose se voleva questa traduzione. Mia madre le rispose un po’ interdetta che la traduzione non era propriamente il suo lavoro. Ma l’autrice insistette perché traducesse con il mio aiuto, perché credeva che, insieme, saremmo riuscite a portare a termine questo piccolo lavoro di traduzione di cento pagine.
Interpretavate la storia insieme, dunque.
Traducemmo un po’ tentennanti. Impiegammo quasi una giornata per tradurre la prima pagina, poi proseguimmo il lavoro nei giorni seguenti. Impiegammo due settimane per completare il lavoro e poi consegnammo le prime cento pagine direttamente all'autrice che le affidò al suo editore affinché le trasmettesse in Italia. Poi non sapemmo più nulla.
Nell'estate del 2007 mi trovavo in vacanza in Iran con i miei genitori. Perché io sono iraniana, e con la mia famiglia trascorro quasi tutte le estati le vacanze a Teheran dove ho i nonni. L'autrice del libro è un'amica di vecchia data di mia madre. Un giorno le fece una proposta. Durante una conferenza organizzata in difesa del libro (Quello che mi spetta), a cui avevano preso parte molti giornalisti da tutto il mondo, le si era avvicinato un giornalista italiano del Corriere della Sera che le aveva proposto di consegnare le prime cento pagine tradotte del libro in Italia per poi considerare eventualmente se pubblicare l'intera opera. L'autrice, sapendo che mia madre viveva da più di vent'anni in Italia, le propose se voleva questa traduzione. Mia madre le rispose un po’ interdetta che la traduzione non era propriamente il suo lavoro. Ma l’autrice insistette perché traducesse con il mio aiuto, perché credeva che, insieme, saremmo riuscite a portare a termine questo piccolo lavoro di traduzione di cento pagine.
Interpretavate la storia insieme, dunque.
Traducemmo un po’ tentennanti. Impiegammo quasi una giornata per tradurre la prima pagina, poi proseguimmo il lavoro nei giorni seguenti. Impiegammo due settimane per completare il lavoro e poi consegnammo le prime cento pagine direttamente all'autrice che le affidò al suo editore affinché le trasmettesse in Italia. Poi non sapemmo più nulla.
E la vostra traduzione piacque alla Garzanti?
Sì, accadde poi che la traduzione piacque moltissimo. La Garzanti editore, la casa editrice che aveva proposto l'acquisto dei diritti del libro, disse che avevano già i loro traduttori dal farsi (iraniano) e che avrebbero successivamente contattato la scrittrice per firmare il contratto.
Le case editrici nazionali hanno già dei traduttori a cui affidano sia la valutazione delle opere sia l’incarico di tradurre. Così l’opera venne accettata in Italia, ma a voi venne sottratto l’incarico di proseguire.
Rimasi male, perché mi era affezionata al lavoro. A 16 anni mi ero sentita molto importante. Alla fine poi non detti più tanto peso, e quasi me ne dimenticai perché non se ne parlò più.
Finché sei mesi dopo - ero in classe -, un giorno che non dimenticherò mai perché c'era il compito di scienze e, proprio mentre la professoressa stava consegnando il foglio – mi ero dimenticata di spegnere il cellulare -, il cellulare cominciò a squillare ad altissimo volume (suoneria tamarrissima). La professoressa mi fulminò con lo sguardo e disse: “guarda, faccio finta di niente, ma spegnilo”. Senza guardare il mittente e la chiamata spensi il cellulare e poi non lo guardai più. Tornata a casa mi ricordai di riaccenderlo e trovai un messaggio nella segreteria. Caso volle che quel giorno non avessi abbastanza soldi per ascoltare il messaggio, quindi aspettai il pomeriggio per effettuare la ricarica. Feci la ricarica e mia madre in macchina mi chiese: “ma allora chi ti ha chiamato questa mattina?”. Ascoltai il messaggio: era l’editor della Garzanti editore che, presentandosi, ci chiedeva un colloquio urgente presso gli uffici della Garzanti la settimana successiva. Rimasi di sasso. Non parlai più. Mia mamma che era al volante cominciò a guardare, si voltò e mi disse: “ma è successo qualcosa di grave?… Non dirmi che vinto l'ennesimo concorso per conoscere i tuoi cantanti preferiti, perché io non ti porto più fino a Milano”. Io le dissi: “no, no, no, è un’altra cosa. Ci hanno contattate per una traduzione”. Mi misi a urlare, e anche lei cominciò ad urlare. Fece una frenata improvvisa, e per poco non facemmo un incidente. La settimana dopo ci recammo presso gli uffici della Garzanti editore.
Ma che cosa accadde quando i responsabili si trovarono di fronte una ragazzina di 16 anni?
Rimasero spiazzati, perché si aspettavano che fossi giovane, ma non che avessi 16 anni. Pensavano al massimo che avessi 25 anni. Incominciammo la traduzione nel febbraio del 2008 e finimmo nel settembre dello stesso anno. Dopodiché il libro uscì nel marzo di quest'anno, così ho avuto la possibilità di presentarlo all'esame di Stato, dov'era presente il professor Alberto Lusso come commissario esterno di Storia e Filosofia; ed è così che ci siamo conosciuti ed è per questo motivo che io sono qui.
Quanta parte c'è di verità e quanta parte è frutto di invenzione nella storia narrata nel libro?
È tutta verità. Gli episodi che accadono alla protagonista (Masumeh) sono tutti veri, realmente accaduti. La scrittrice, che è una psicologa, aveva deciso di fare una serie di ricerche su alcuni gruppi particolari di donne: quelle cresciute in famiglie iraniane tradizionaliste nel periodo della rivoluzione, e quelle che si videro strappare via i figli nel periodo della guerra tra Iraq e Iran.
Fece la ricerca, intervistò moltissime donne, e si documentò. Nel momento in cui pubblicò il proprio studio si rese conto che si trattava semplicemente di una serie di dati freddi e di numeri che poi sarebbero finiti su un qualsiasi scaffale dell'Università di Teheran. E allora decise di trasferire tutti i dati in un racconto e di raccontare la situazione della donna sotto forma di storia, raccogliendo tutte queste vicende in un personaggio che si chiama Masumeh, la protagonista del romanzo.
lunedì 15 novembre 2010
Diritti civili e futuro della donna in Iran
Venerdì 19 novembre ore 21.00, presso l’Auditorium CRB di Bra, verrà presentato il libro (besteller in Iran) di Parinoush Saniee: “Quello che mi spetta”, Garzanti 2010.
Elisa Barberis, Gazzetta d'Alba, Martedì 16 novembre 2010
A presentarlo sarà la traduttrice dell’opera, Sepideh Rouhi. Sepideh ha solo 19 anni e si è appena diplomata al Liceo Scientifico di Casale Monferrato. La ragazza, ospite a Bra per due giorni, incontrerà venerdì 19 e sabato 20 in occasione dell’assemblea di Istituto, al mattino tutti i ragazzi dei licei cittadini, mentre alla sera la cittadinanza a cui racconterà la bellissima storia, insieme dolorosa e commovente, di una donna iraniana, Masumeh, emblema della condizione di vita di molte donne iraniane contemporanee. Durante la serata, coordinata dal prof. Alberto Lusso e dalla prof.ssa Daniela Oddenino, i ragazzi del liceo leggeranno alcune pagine del libro di Parinoush Saniee.
Programma:
1. Venerdì e sabato mattina:
Nell’assemblea di Istituto gli studenti del liceo affronteranno il tema dei diritti civili e del futuro della donna in Iran. Nella prima parte della mattinata verrà proiettato il film di animazione Persepolis, di Marjane Satrapi e Vincent Paronnaud, mentre nella seconda parte i ragazzi ascolteranno l’esperienza della loro coetanea Sepideh Rouhi e dialogheranno con lei sulla condizione della donna in Iran.
2. Venerdì sera:
presso l’Auditorium CRB di Bra, verrà presentato il libro “Quello che mi spetta”, Garzanti 2010.
Il libro:
Best seller in Iran e bandito improvvisamente dal governo di Ahmadinejad, il romanzo “Quello che mi spetta” di Parinoush Saniee, esce per la prima volta in Occidente proprio in Italia, pubblicato da Garzanti. L’autrice, nata a Teheran e terza di cinque figli, sin da piccola ha avuto accesso alla biblioteca di famiglia riuscendo, a differenza di tante sue coetanee, a coltivare e approfondire la sua passione per la letteratura. “Quello che mi spetta” è il suo primo romanzo e svela la condizione femminile delle donne iraniane con fermezza e sincerità, la stessa che ha spinto la scrittrice a partecipare ad una conferenza a Berlino sui diritti umani. Il suo intervento, volto a denunciare la condizione femminile in Iran e ad affermare la necessità di riforme sociali a favore delle donne, le è costato minacce e successivamente la persecuzione da parte del governo attuale del suo paese.
I contenuti (dal risvolto di copertina):
Teheran. A quindici anni Masumeh non ha mai conosciuto la libertà. Conosce l’obbedienza. Al padre e ai fratelli. Conosce le percosse, di cui spesso è vittima. Conosce i doveri che si pretendono da una ragazza d’onore come lei: portare il chador, servire l’uomo sempre e comunque, camminare svelta con lo sguardo rigorosamente rivolto verso il basso. Eppure, oggi. Masumeh ha disobbedito. Ha usato alzare gli occhi verso il giovane che ogni giorno la osserva negli stretti vicoli della città. Lui è Saeid e lavora come apprendista in una farmacia. Basta poco perché quello scambio di sguardi si trasformi in un amore forte e appassionato. Un amore pericoloso, impossibile da nascondere. A scoprirli è il fratello maggiore di Masumeh. La ragazza deve essere punita, si è macchiata del peggiore dei peccati, amare. Ma le botte e la violenza non bastano. Per salvare l’onore della famiglia si deve sposare subito, con un uomo scelto dai fratelli. Da questo momento in poi a Masumeh non resta altra scelta che accettare il suo destino. Prima come moglie dedita a compiacere ogni desiderio di un marito assente ed egoista, poi come madre di tre figli. E mentre l’Iran è sconvolto dalla rivoluzione, attingendo a una forza che non credeva di avere, la donna sacrifica sé stessa per crescerli e farli studiare. A darle coraggio è l’amore silenzioso che coltiva dentro di sé. Perché non ha mai dimenticato Saeid. E attende solo il giorno in cui finalmente forse avrà quello che le spetta.
Emanuele Forzinetti, Il Corriere di Alba, Bra, Langhe e Roero, Martedì 16 novembre 2010, p. 27.
Pier Paolo Faccio, Il nuovo Braidese, sabato 13 novembre 2010, p. 8.
lunedì 8 novembre 2010
Contro il fanatismo - II parte
Caro Professore,
Lo scrittore israeliano Amos Oz ha scritto tre saggi contro il
fanatismo. Ma concretamente, chi è in grado di stabilire i confini
esatti dello Stato di Israele e del futuro Stato di Palestina?
Alessandro
Caro Professore,
Dopo più di sessant’anni di guerre tra ebrei e musulmani, come è
possibile che nessuno sia ancora riuscito a trovare un accordo
soddisfacente per entrambe le parti? E cosa può far sperare che in
futuro un accordo sarà trovato? Se i progetti presentati in tutti
questi anni sono falliti, chi sarà in grado di creare un progetto che
accontenti entrambe le parti? Cioè: dopo sessant’anni come si fa a
creare ancora un altro progetto “nuovo”?
Matteo
Alcuni punti del libro:
1. La vita deve essere considerata più importante dell’ideologia.
Spesso i conflitti, nella storia, nascono tra povertà e ricchezza, tra chi non ha e chi ha troppo. Ma i conflitti prodotti dal fanatismo non sono di questo tipo. L’ideologia che li sostiene considera che certe forme di “giustizia” o di “diritto” siano più importanti della vita stessa. Scrive Oz: “Questa è una battaglia tra fanatici convinti che il fine, qualunque sia questo fine, giustifichi i mezzi, e noi altri, convinti invece che la vita sia un fine, non un mezzo. È una battaglia fra coloro per i quali la giustizia, in qualunque modo essi intendano questa parola, è più importante della vita, e noi che pensiamo che la vita venga prima di tantissimi altri valori, convinzioni o fedi” .
2. La vera battaglia è tra fanatismo e pluralismo.
Amos OZ ritiene che l'attuale lotta che si svolge in Medio Oriente sia una lotta “tra fanatismo e pragmatismo”, “tra fanatismo e pluralismo”, “tra fanatismo e tolleranza” .
Si tratta, dunque, di una battaglia complessa, lunga e dolorosa, in quanto i fanatici sono sempre intransigenti, non accettano cambiamenti di alcun tipo; ed è per questo che, giustamente, l’autore definisce il fanatico come “un punto esclamativo ambulante” . Contro i punti esclamativi ambulanti occorre individuare comportamenti adeguati, per non soccombere. Certo, il fanatismo è spesso legato alla disperazione (i profughi palestinesi in parte continuano a vivere in campi profughi), e sappiamo inoltre che quando le persone avvertono umiliazione e rovina possono ricorrere alla violenza. Allora, un possibile rimedio contro la disperazione consiste nel sostenere i moderati, ossia nel fare in modo che il mondo moderato, l'Islam moderato, aumentando la propria fiducia e la propria forza possa arginare il fanatismo islamico. E dall'altra parte, anche Israele dovrà riconsiderare le proprie pretese, affinché il nazionalismo moderato possa anch’esso arginare quello più accanito.
È vero, come dici tu (Tania), anche l'autore è stato da bambino un “lanciapietre”, (anzi, Oz ha poi combattuto anche sul fronte egiziano, nel Sinai, nel 1967, quando Israele ha occupato alcuni territori arabi; e sul fronte siriano, nel 1973, nella quarta guerra arabo-israeliana), questo perché respirava unicamente un clima culturale ed emotivo parziale e unilaterale, ma poi, come testimoniano le sue opere, gradualmente ha imparato a riconoscere come imprescindibili molte ragioni del popolo palestinese.
3. Abbandonare i giudizi schematici.
Per abbandonare una mentalità fanatica, occorre abbandonare anche il modo di ragionare che prevede la divisione di ogni problema in “o bianco o nero”; ossia quel tipo pensiero che gli psicologi chiamano dicotomico: o bianco o nero; o tutto o nulla; quel giudizio che semplifica tutte le questioni, ritenendo che il bene stia tutto da una parte e il male dall’altra. Incoraggiando la mentalità moderata si possono produrre cambiamenti.
4. Avere il coraggio di cambiare.
Chi esce da un gruppo, chi intraprende un proprio percorso personale, viene spesso apostrofato dal gruppo di appartenenza come “traditore”. La connotazione di traditore è una connotazione pesante, che scoraggia i cambiamenti; il traditore infatti è immediatamente percepito come persona spregevole, perché invece di lottare per il proprio popolo, in qualche modo, aiuta il nemico. Il traditore è un opportunista o un infedele o un doppiogiochista sleale che ha ripudiato la propria gente, i propri amici, per interesse personale.
Oz ha un’idea differente del tradimento; egli ritiene che: “solo colui che ama può diventare un traditore. Il tradimento non è il contrario dell'amore, è una delle sue tante opzioni. Traditore è colui che cambia agli occhi di coloro che non possono cambiare e non cambierebbero mai e odiano cambiare e non lo concepiscono, a parte il fatto che vogliono continuamente cambiare te: così la penso io. In altre parole agli occhi del fanatico il traditore è chiunque cambi. Triste alternativa quella fra il diventare un fanatico o un traditore. In un certo senso, non essere fanatici significa essere un traditore agli occhi dei fanatici.”
5. Essere consapevoli che cambiare non è tradire.
Per il fanatico ogni variazione è tradimento, e da questa logica sembra che non si possa uscire: o fanatici o traditori. Ma i fanatici, coloro che non ammettono il cambiamento, sono proprio quelli che vogliono continuamente cambiare gli altri.
6. Evitare di trasformarsi in fanatici, ma di segno opposto.
Occorre però fare attenzione alle forme meno vistose, ma ugualmente pericolose, di fanatismo. Perché il fanatismo è presente in mille conformazioni diverse, assume anche modalità “silenziose” e “civili” (non fumatori, vegetariani, pacifisti a loro volta si possono trasformare in uomini e donne intolleranti). Tutti coloro che non sopportano le diversità altrui, in qualche modo, portano dentro di sé il seme dal fanatismo.
7. Evitare di voler assolutamente cambiare gli altri.
Il fanatismo deriva spesso da una eccessiva nostalgia del passato che viene idealizzato; ma anche dall'idealizzazione di una religione o di un popolo. Secondo Oz, l'essenza del fanatismo consiste nel " desiderio di costringere gli altri a cambiare ". Invece di lasciar vivere uomini e donne secondo criteri individuali, i fanatici sono persone che ritengono di migliorare il prossimo, a patto che cambi. Per questo Oz dice che il fanatico si presenta come la creatura più disinteressata che ci sia: “Il fanatico è un grande altruista. Il fanatico è più interessato a te che a se stesso, di solito. Vuole salvarti l'anima, vuole redimerti, vuole affrancarti dal peccato, dall'errore, dal fumo, dalla tua fede o dalla tua incredulità, vuole migliorare le tue abitudini alimentari, vuole impedirti di bere o di votare nel modo sbagliato” . Il bene che viene imposto dall'esterno, l’interesse per la vita degli altri, per la libertà, per la salvezza dell'anima, sono modalità (manipolazioni) necessarie per controllare gli altri; alcuni uomini si ritengono superiori agli altri, più puri, più illuminati, e pertanto si ergono a giudici, ritenendo di essere gli unici interpreti della volontà di Dio.
8. Combattere il conformismo con l’immaginazione.
" Iniettare immaginazione” . In passato molti totalitarismi hanno usato narrazioni e storie per far nascere odio e per ispirare nazionalismi intransigenti e violenti; così, anche attraverso l'immaginazione creativa ci si può liberare da certi miti violenti e intransigenti.
9. Non smettere di immaginare l’altro.
Occorre considerare che ognuno di noi poteva essere nato in un luogo diverso: “E se fossi lei, e se fossi lui. Nel mio ambiente, nella mia storia personale e famigliare. Non posso fare a meno di pensare, e molto spesso, al fatto che sarebbe bastata una minima variante nei miei geni, e nelle circostanze di vita dei miei genitori, per far sì che io fossi lui o lei. Sarei potuto essere un ebreo della Cisgiordania, un estremista ultraortodosso, un ebreo orientale venuto dal Terzo mondo, chiunque altro. Sarei potuto essere uno dei miei nemici.”
10. Ricordare che si tratta di un problema di diritti e non di lotta tra bene e male.
“Non è così semplice, amici miei, non è così semplice perché il conflitto ísraelo-palestinese non è un film western. Non è una lotta fra bene e male, la considero piuttosto come una tragedia antica, nell'accezione più precisa che la parola assume: lo scontro fra un diritto e un altro, fra una rivendicazione profonda, pregnante, convincente, e un'altra assai diversa ma non meno convincente, pregnante, non meno umana” .
Per questo non si può pensare che il conflitto sia semplicemente un malinteso. Scrive Oz: “I palestinesi vogliono la terra che chiamano Palestina. La vogliono per delle ragioni stringenti. Gli ebrei israeliani vogliono esattamente la stessa terra esattamente per le stesse ragioni, il che garantisce una perfetta comprensione fra le parti, e dà la misura di una terribile tragedia.”
11. la separazione deve essere equa.
Combattere per la vita e per la libertà e per niente altro (non per del territorio o delle risorse in più) . Non abbiamo solo bisogno di amore (la nostra capacità di amare autenticamente è limitata), ma di giustizia e di buon senso; pertanto, egli si aspetta un “divorzio equo” (I divorzi non sono mai felici, anche quando sono più o meno equi. Fanno ancora e sempre male. Specialmente in un caso bizzarro come questo in cui le due parti, divorziando, finirebbero per stare nello stesso alloggio. Perché nessuno farà i bagagli.)
Che cosa propone allora Oz? Una separazione equa tra Israele e Palestina (divorzio equo, scrive Oz). Ossia la creazione di due Stati, le cui linee di demarcazione potrebbero essere simili a quelle anteriori al 1967 (in quell’anno Israele ha sottratto la penisola del Sinai e la striscia di Gaza all'Egitto, la Cisgiordania e Gerusalemme Est alla Giordania e le alture del Golan alla Siria. Gaza e Cisgiordania, ad una popolazione prevalentemente araba), con alcune rettifiche ovviamente concordate da entrambi gli Stati e con convenzioni speciali riguardanti i luoghi santi di Gerusalemme . Dopo tale accordo, egli ritiene che – gradualmente - i popoli non dovrebbero più avere difficoltà ad instaurare relazioni positive e pacifiche. Anzi, un passo successivo, secondo l’autore, potrebbe essere quello della creazione di un mercato comune mediorientale; magari di una moneta mediorientale (una sorta di nuova Unione Europea in Medio Oriente). Chissà se questo è solo un miraggio. In ogni caso, in questo momento, la questione più importante, rispetto anche a quella dei confini e dei luoghi santi, è la tragedia dei profughi palestinesi dal 1948. Molti palestinesi vivono ancora in campi profughi, in condizioni disumane. Non c’è soluzione tra Israele e Palestina che possa essere considerata duratura senza la risoluzione di questo problema.
Un caro saluto,
alberto
Roberto Manassero, Gazzetta d'Alba, 9 novembre 2010, p. 41.
lunedì 1 novembre 2010
Contro il fanatismo (I parte)
Caro professore,
Se Amoz Oz è riuscito a passare da una condizione di fanatico, circondato da persone fanatiche, a quella di un uomo dalla mentalità aperta che accetta dei compromessi, perché non riescono anche gli altri fanatici? E come è riuscito Oz a cambiare così radicalmente la sua idea?
Tania
Caro professore,
Amos Oz, nel libro "Contro il fanatismo" espone le proprie idee riguardo a questo argomento, ma rispetto ai luoghi dove il fanatismo è continuamente messo in risalto. Spesso ci viene da pensare che questa sia una realtà limitata a luoghi lontani da noi, ma anche se non in modo così evidente il fanatismo è presente nella vita di ognuno di noi, perché "è una componente onnipresente della natura umana". Detto questo, come possiamo nel nostro piccolo cercare di limitare questo fenomeno?
Erica,
Clara,
Federica,
Nicole
Domenica 7 novembre incontreremo ad Alba lo scrittore israeliano Amos Oz. Dedico pertanto due post per richiamare l’attenzione sul libro dell’autore, Contro il fanatismo, che il Salone del libro di Torino ha regalato ai ragazzi.
I
Care ragazze,
Già nel 1967 al tempo della “Guerra dei sei giorni” (5-10 giugno 1967), Amos Oz (Gerusalemme, 1939), scrittore e docente universitario di Letteratura, aveva sostenuto che per risolvere il conflitto arabo-israeliano era necessario giungere alla “soluzione dei due Stati”; quindi era apparso come uno dei primi intellettuali ad aver compreso l’urgenza della creazione di uno Stato palestinese, oltre a quello israeliano, e ad aver riconosciuto che“…nel conflitto fra ebrei israeliani e arabi palestinesi non ci sono “buoni” e “cattivi”. C'è una tragedia: il contrasto fra un diritto e l'altro” .
Nel libro “Contro il fanatismo” (Feltrinelli [2004], 2006), che raccoglie brevi saggi scritti in occasione di tre letture tenute all’Università di Tubinga (The Tubingen lectures. Three lectures, 2002), senza tentare frettolose o schematiche disquisizioni sulla natura del fanatismo egli dichiara però di conoscere alcuni modi per “ammansirlo” e “redimerlo”.
Vediamo alcuni punti importanti della sua riflessione.
Certamente, il mestiere di scrittore lo ha aiutato a non diventare un uomo radicale, intollerante, estremista; a rispettare i diritti degli altri uomini, considerando tutte le esigenze: quelle degli arabi e quelle degli ebrei, perché, costruendo romanzi, ha passato la vita ad immaginare emozioni, sentimenti e idee calandosi nei panni di differenti personaggi (“come mi sentirei se fossi lei? Come dev’essere stare dentro la sua pelle?”), imparando a conoscere contraddizioni recondite, conflitti interiori, sentimenti ambivalenti, opinioni contrastanti, con la stessa forza di quelli che di solito ha fatto emergere nel personaggio principale di un romanzo.
Immedesimarsi nell'altro è dunque il primo consiglio che propone a chi vuole superare le barriere dell’irrazionalità e dell’incomunicabilità tra persone e tra popoli. Riconoscendo le sofferenze e i diritti degli altri (“Come ci si sente essere un palestinese sradicato, come ci si sente essere un arabo palestinese cui degli ‘alieni di un altro pianeta’ hanno portato via la terra natale?”), gli ebrei possono giungere a limitare le proprie pretese. Immaginare l’altro, mettersi dunque nei suoi panni è pertanto, secondo l’autore, contemporaneamente “un’esperienza etica”, “un grande atto di umiltà”, “una buona direttiva politica” .
Ma, dopo questa imprescindibile necessità, questa direttiva politica, l’autore ritiene doveroso riconoscere il valore estremamente positivo del compromesso. Siamo abituati a considerare il compromesso come un cedimento, una soluzione di ripiego, un atto di debolezza, ma Amos Oz ricorda che solo dal compromesso è possibile la vita. “Nel mio mondo, la parola compromesso è sinonimo di vita. E dove c'è vita ci sono compromessi. Il contrario di compromesso non è integrità e nemmeno idealismo e nemmeno determinazione o devozione. Il contrario di compromesso è fanatismo, morte” .[...] “Permettetemi allora di aggiungere che quando dico compromesso non intendo capitolazione, non intendo porgere l'altra guancia a un avversario, un nemico, una sposa. Intendo incontrare l'altro, più o meno a metà strada. Comunque non esistono compromessi felici: un compromesso felice è una contraddizione. Un ossimoro” .[...]
“Se nei miei romanzi c'è un messaggio metapolitico è sempre, in un modo o nell'altro, il messaggio di un compromesso, un compromesso doloroso, e della necessità di scegliere fra vita e morte, fra l'imperfezione della vita e la perfezione di una morte gloriosa” .
Tutti sappiamo che i compromessi non sono mai “felici”, (compromesso felice è un “ossimoro”, dice l’autore) per nessuna parte in causa; ed egli scriverà più avanti che il compromesso a cui si dovrà giungere: “farà dannatamente male” .
“Perché entrambi i popoli amano il paese, perché entrambi i popoli, gli ebrei israeliani e gli arabi palestinesi, hanno radici storiche e sentimentali che li legano al paese nel profondo, in modo diverso ma altrettanto profondo. Uno degli elementi di questa tragedia, uno degli aspetti che contiene un pizzico di ironia, è il fatto che molti ebrei israeliani non riconoscono quanto sia profondo il legame emotivo dei palestinesi con questa terra. E molti palestinesi mancano di riconoscere quanto profonda sia la relazione ebraica con questa terra. La consapevolezza della profondità di queste radici giunge man mano, in un modo doloroso, attraverso un processo straziante per entrambe le nazionalità. Ed è lastricata di sogni infranti e illusioni spezzate e speranze disattese e slogan implosi, attinti dal passato di entrambe le parti” .
Compromesso, mediazione, adattamento, accordo. Potremmo dire che le cose su cui non si giunge ad un compromesso sono “compromesse”, ossia pregiudicate, invalidate, indebolite o inutilizzabili. Senza concessioni non ci sono accordi, ma solo atti di forza unilaterali o guerra. Se la guerra è una modalità perversa e iniqua di risoluzione dei conflitti, i compromessi rappresentano l’unica modalità possibile affinché popoli diversi vivano in pace.
un caro saluto,
alberto
(continua: lunedì 8 novembre 2010)
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