venerdì 31 dicembre 2010
Buon anno!!!
Un affettuoso augurio di Buon anno e di Buone feste a tutti...
Il blog riparte il 10 gennaio 2011...
a presto,
alberto
lunedì 20 dicembre 2010
Egoismo
Caro professore,
Mi ritengo e vengo ritenuto una persona particolarmente egoista, e proprio per questo motivo ricevo numerose critiche. Ma esistono persone realmente altruiste e disinteressate nell'aiutare gli altri e nel condividere le loro sofferenze?
Samuele
Mi ritengo e vengo ritenuto una persona particolarmente egoista, e proprio per questo motivo ricevo numerose critiche. Ma esistono persone realmente altruiste e disinteressate nell'aiutare gli altri e nel condividere le loro sofferenze?
Samuele
Egoista: persona priva di considerazione per l'egoismo altrui.
Ambrose Bierce
Ambrose Bierce
Caro Samuele,
Questo aforisma, probabilmente ideato da Ambrose Bierce - scrittore statunitense del secolo scorso -, sottintende in forma ironica l’idea che gli uomini sono fondamentalmente tutti egoisti: l’altruismo, dunque, non sarebbe altro che un atteggiamento superfluo e autolesionistico verso altri esseri viventi che hanno come scopo principale l’attenzione verso se stessi. Se fosse così, le “numerose critiche” che ricevi sarebbero immotivate; anzi, potresti usare questo divertente aforisma per replicare a coloro che, osservando il tuo comportamento, disapprovano le tue azioni. Nella storia della filosofia si sono alternate concezioni diametralmente opposte sull’egoismo e sull’altruismo degli uomini.
Questo aforisma, probabilmente ideato da Ambrose Bierce - scrittore statunitense del secolo scorso -, sottintende in forma ironica l’idea che gli uomini sono fondamentalmente tutti egoisti: l’altruismo, dunque, non sarebbe altro che un atteggiamento superfluo e autolesionistico verso altri esseri viventi che hanno come scopo principale l’attenzione verso se stessi. Se fosse così, le “numerose critiche” che ricevi sarebbero immotivate; anzi, potresti usare questo divertente aforisma per replicare a coloro che, osservando il tuo comportamento, disapprovano le tue azioni. Nella storia della filosofia si sono alternate concezioni diametralmente opposte sull’egoismo e sull’altruismo degli uomini.
Il filosofo inglese Thomas Hobbes (1588-1679), ad esempio, metteva in luce il naturale egoismo degli uomini richiamando un detto di Plauto (255 a. C. – 184 a. C.) - contenuto nell’Asinaria -, secondo cui ogni uomo è un lupo per gli altri uomini (homo homini lupus). Egli affermava che la società nasce proprio perché serve a mitigare gli impulsi distruttivi e dunque a migliorare gli uomini. Qualche tempo dopo, il filosofo ginevrino Jean Jacques Rousseau (1712-1778) si impegnava in una tesi opposta sulla natura umana: egli considerava invece gli uomini buoni per natura, e dunque naturalmente cooperativi e sociali fin da bambini, ma corrotti successivamente dalla società. Nella storia si sono alternate concezioni che hanno considerato l’uomo capace esclusivamente di egoismo a concezioni che hanno invece idealizzato l’uomo esaltandone i caratteri positivi.
Sì, forse hai ragione, talvolta anche comportamenti che appaiono altruistici sottintendono un egoismo di fondo. Facciamo il bene, magari per essere accettati da un certo gruppo o perché qualcuno approvi il nostro comportamento; per essere al centro dell’attenzione, per ottenere gratificazione, per sentirci buoni. Persino i cristiani, come dici tu, possono mascherare sotto l’altruismo una forma di egoismo. Credo che intendesse pressappoco questo il teologo luterano tedesco Dietrich Bonhoeffer (1906-1945) - morto nel campo di concentramento di Flossenbürg - in “Resistenza e resa” [1970] 1988, quando metteva in guardia da una certa forma di “egoismo” dei cristiani che definiva un “altruistico amore di sé”.
Un famoso biologo britannico contemporaneo, Richard Dawkins (1941), in un libro che ha avuto grande importanza in campo scientifico (Il gene egoista [1976] 1995), ha spostato invece la questione dell’egoismo in un ambito dove non avremmo immaginato: la genetica. Egli scrive: “Noi siamo macchine da sopravvivenza - robot semoventi programmati ciecamente per preservare quelle molecole egoiste note sotto il nome di geni”.
Potremmo dire, secondo le ricerche di Richard Dawkins, che a livello ontogenetico (dello sviluppo dell’individuo) attraversiamo momenti diversi di egoismo e di altruismo, ma che a livello filogoenetico (dell’evoluzione della specie) i geni si comportano in modo egoistico per ottenere la massima possibilità di sopravvivenza (“un gene può raggiungere le proprie mete egoistiche favorendo una forma limitata di altruismo”).
Insomma, nel corso dell’evoluzione la sopravvivenza dei geni sarebbe dovuta all’egoismo dei geni stessi. Per cui, ad esempio, la generosità, il disinteresse e l’altruismo sarebbero comportamenti legati alla cultura, perché – direbbe Dawkins - “siamo nati egoisti”. Egli scrive, infatti: “Se osserveremo il modo di operare della selezione naturale, concluderemo che qualunque cosa si evolva per selezione naturale sia egoista; quindi dobbiamo aspettarci che se osserveremo il comportamento dei babbuini, degli uomini e di tutte le altre creature viventi, lo troveremo egoista. E se scopriremo che non è vero, se osserveremo che il comportamento umano è veramente altruista, allora avremo di fronte qualcosa di strano che richiederà una spiegazione.”
Ovviamente egli non parla a livello della psicologia individuale, ma dal punto di vista della genetica: “È importante rendersi conto che le definizioni riportate sopra di altruismo ed egoismo sono comportamentali e non soggettive. Non ho intenzione di occuparmi qui della psicologia dei motivi, né di stabilire se la gente che si comporta altruisticamente lo fa in realtà per motivi egoistici segreti o inconsci. Forse sì e forse no, e forse non lo sapremo mai, ma in ogni caso non è cosa che riguarda questo libro.”
Michael Tomasello, codirettore del Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology di Leipzig, ha recentemente pubblicato un libro dal titolo “Altruisti nati. perché cooperiamo fin da piccoli” [2009] Bollati Boringhieri 2010, in cui sostiene invece una tesi opposta a quella di Dawkins.
L’autore ha condotto una serie di esperimenti con i bambini molto piccoli, per comprendere se l'altruismo emerga «naturalmente» o se invece venga trasmesso esclusivamente dalla cultura.
Il modello di cui si è servito teneva conto di tre tipologie di altruismo: altruismo rispetto a “beni”, “sevizi” e “informazioni”. Scrive Tomasello: “Essere altruisti relativamente a risorse materiali come il cibo significa essere generosi, promuovere la condivisione; esserlo riguardo a un determinato servizio, come recuperare e porgere a qualcuno un oggetto lontano dalla sua portata, significa prestare aiuto; condividere altruisticamente competenze e informazioni (compreso il pettegolezzo) significa essere informativi.”
I bambini molto piccoli dovevano essere in grado di risolvere quattro tipi di problemi: recuperare oggetti; rimuovere ostacoli; correggere un errore dell'adulto; scegliere i mezzi comportamentali corretti per raggiungere un determinato obiettivo. Egli scrive che “Per aiutare gli altri con tanta flessibilità, è necessario innanzitutto che i piccoli riescano a comprendere gli obiettivi altrui e, in secondo luogo, che abbiano la motivazione altruistica per farlo”. Al termine degli esperimenti Michael Tomasello mostra che nei bambini vi sono comportamenti del tutto spontanei e che i bambini sono propensi a prestare aiuto in modo incondizionato. Ci sarebbe dunque una predisposizione ai comportamenti altruistici che poi la cultura tende a premiare successivamente.
Un caro saluto,
alberto
Sì, forse hai ragione, talvolta anche comportamenti che appaiono altruistici sottintendono un egoismo di fondo. Facciamo il bene, magari per essere accettati da un certo gruppo o perché qualcuno approvi il nostro comportamento; per essere al centro dell’attenzione, per ottenere gratificazione, per sentirci buoni. Persino i cristiani, come dici tu, possono mascherare sotto l’altruismo una forma di egoismo. Credo che intendesse pressappoco questo il teologo luterano tedesco Dietrich Bonhoeffer (1906-1945) - morto nel campo di concentramento di Flossenbürg - in “Resistenza e resa” [1970] 1988, quando metteva in guardia da una certa forma di “egoismo” dei cristiani che definiva un “altruistico amore di sé”.
Un famoso biologo britannico contemporaneo, Richard Dawkins (1941), in un libro che ha avuto grande importanza in campo scientifico (Il gene egoista [1976] 1995), ha spostato invece la questione dell’egoismo in un ambito dove non avremmo immaginato: la genetica. Egli scrive: “Noi siamo macchine da sopravvivenza - robot semoventi programmati ciecamente per preservare quelle molecole egoiste note sotto il nome di geni”.
Potremmo dire, secondo le ricerche di Richard Dawkins, che a livello ontogenetico (dello sviluppo dell’individuo) attraversiamo momenti diversi di egoismo e di altruismo, ma che a livello filogoenetico (dell’evoluzione della specie) i geni si comportano in modo egoistico per ottenere la massima possibilità di sopravvivenza (“un gene può raggiungere le proprie mete egoistiche favorendo una forma limitata di altruismo”).
Insomma, nel corso dell’evoluzione la sopravvivenza dei geni sarebbe dovuta all’egoismo dei geni stessi. Per cui, ad esempio, la generosità, il disinteresse e l’altruismo sarebbero comportamenti legati alla cultura, perché – direbbe Dawkins - “siamo nati egoisti”. Egli scrive, infatti: “Se osserveremo il modo di operare della selezione naturale, concluderemo che qualunque cosa si evolva per selezione naturale sia egoista; quindi dobbiamo aspettarci che se osserveremo il comportamento dei babbuini, degli uomini e di tutte le altre creature viventi, lo troveremo egoista. E se scopriremo che non è vero, se osserveremo che il comportamento umano è veramente altruista, allora avremo di fronte qualcosa di strano che richiederà una spiegazione.”
Ovviamente egli non parla a livello della psicologia individuale, ma dal punto di vista della genetica: “È importante rendersi conto che le definizioni riportate sopra di altruismo ed egoismo sono comportamentali e non soggettive. Non ho intenzione di occuparmi qui della psicologia dei motivi, né di stabilire se la gente che si comporta altruisticamente lo fa in realtà per motivi egoistici segreti o inconsci. Forse sì e forse no, e forse non lo sapremo mai, ma in ogni caso non è cosa che riguarda questo libro.”
Michael Tomasello, codirettore del Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology di Leipzig, ha recentemente pubblicato un libro dal titolo “Altruisti nati. perché cooperiamo fin da piccoli” [2009] Bollati Boringhieri 2010, in cui sostiene invece una tesi opposta a quella di Dawkins.
L’autore ha condotto una serie di esperimenti con i bambini molto piccoli, per comprendere se l'altruismo emerga «naturalmente» o se invece venga trasmesso esclusivamente dalla cultura.
Il modello di cui si è servito teneva conto di tre tipologie di altruismo: altruismo rispetto a “beni”, “sevizi” e “informazioni”. Scrive Tomasello: “Essere altruisti relativamente a risorse materiali come il cibo significa essere generosi, promuovere la condivisione; esserlo riguardo a un determinato servizio, come recuperare e porgere a qualcuno un oggetto lontano dalla sua portata, significa prestare aiuto; condividere altruisticamente competenze e informazioni (compreso il pettegolezzo) significa essere informativi.”
I bambini molto piccoli dovevano essere in grado di risolvere quattro tipi di problemi: recuperare oggetti; rimuovere ostacoli; correggere un errore dell'adulto; scegliere i mezzi comportamentali corretti per raggiungere un determinato obiettivo. Egli scrive che “Per aiutare gli altri con tanta flessibilità, è necessario innanzitutto che i piccoli riescano a comprendere gli obiettivi altrui e, in secondo luogo, che abbiano la motivazione altruistica per farlo”. Al termine degli esperimenti Michael Tomasello mostra che nei bambini vi sono comportamenti del tutto spontanei e che i bambini sono propensi a prestare aiuto in modo incondizionato. Ci sarebbe dunque una predisposizione ai comportamenti altruistici che poi la cultura tende a premiare successivamente.
Un caro saluto,
alberto
lunedì 13 dicembre 2010
La speranza
Caro Professore,
tutti sanno che per il bene di se stessi non bisognerebbe mai desiderare cose che si ritengono impossibili fin dall'inizio. Eppure, più le cose sono assurde, più l'uomo le brama ardentemente, sembra non poterne fare a meno e cerca di consolarsi sempre con le solite parole famose: “la speranza è l’ultima a morire”. Ma che cos’è la speranza? Riflettendoci un po’ su sembra quasi che sia l’unica forza che abbia permesso di evitare l’estinzione dell’uomo. Perché altrimenti cosa gli permetterebbe di superare tutti gli ostacoli, di trovare la forza di cambiare ed evolversi, di non arrendersi anche nelle situazioni peggiori e di riuscire a rialzarsi dopo essere stato atterrato dalla sofferenza? Da dove viene questa specie di istinto di auto-conservazione? E’ qualcosa che ci appartiene e che possiamo dominare e controllare, oppure fa parte del nostro subconscio ed è il solo strumento e aiuto che ci abbiano dato per permettere alla vita di andare avanti e svolgere il suo corso? Ho i miei dubbi però sul fatto che questa nostra tendenza che ci porta a sperare sempre e comunque funzioni in ogni caso e conduca regolarmente al ritorno alla vita. Per esempio, non è forse la speranza di trovare qualcosa di migliore o perlomeno di liberarsi di un’esistenza insoddisfacente che porta i suicidi ad abbandonare la vita? E allora perché l’uomo non ha scampo e continua a sperare e illudersi, magari anche negando a se stesso che sia così, ma sapendo nel suo profondo che in lui c’è ancora un frammento di speranza che non morirà mai? Perché non riusciamo a fare a meno di illuderci, anche se cerchiamo di non cadere in questa intricata trappola con tutte le nostre forze e anche se la nostra parte razionale sa già che verremo disillusi e non vorrebbe essere ferita in questo modo per l’ennesima volta?
Fiammetta
PROMETEO: Ho impedito agli uomini di prevedere la loro sorte mortale.
CORO: Che tipo di farmaco hai scovato per questa malattia?
PROMETEO: Ho posto in loro cieche speranze...
ESCHILO, Prometeo incatenato.
Cara Fiammetta,
Friedrich Nietzsche nella Nascita della tragedia [1872], riferendosi a Arthur Schopenhauer scrisse: “gli mancò ogni speranza, ma volle la verità”. Sì perché, secondo Nietzsche, Schopenhauer avrebbe rinunciato alle illusioni consolatorie degli uomini che cercano, più o meno consapevolmente, di voltare lo sguardo dalla loro condizione mortale. Schopenhauer, infatti, parlava con diffidenza degli “adescamenti della speranza”, che oggi possiamo intendere come lusinghe del desiderio o fantasiose aspirazioni che illudono gli uomini e impediscono loro di guardare in faccia il loro destino. Oggi siamo abituati ad attribuire all’aggettivo tragico sinonimi come crudele o doloroso, pertanto non sentiamo più riverberare la gravità e la potenza che scaturivano dall’idea del tragico nell’antichità. Per i greci in questa parola risuonava la mortalità dell’uomo e l’assenza di scopo della vita. Assenza di scopo. L’uomo ha degli scopi e dei progetti, ma la natura no. La natura è indifferente. Così pensavano sia Schopenhauer sia Nietzsche. Entrambi consideravano la vita dopo la morte una speranza illusoria. Scriveva Schopenhauer “[…] lo spirito umano, non ancora contento delle angosce, amarezze e occupazioni impostegli dal mondo reale, si crea per di più, in forma di mille variate superstizioni, un mondo immaginario, col quale si affatica in tutti i modi, dissipandovi e tempo e forze, non appena il mondo reale gli lasci un riposo ch'egli non sa gustare” (Il mondo come volontà e rappresentazione, II vol.). Ribadiva con più forza lo stesso concetto Nietzsche, quando in Così parlò Zarathustra [1883-1885] scriveva: “Vi scongiuro, fratelli, "rimanete fedeli alla terra" e non credete a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze! Lo sappiano o no: costoro esercitano il veneficio”. La speranza a cui fanno riferimento questi autori è la speranza ultraterrena, frutto del desiderio smodato dell’uomo che non si accontenta più di abitare lo sfondo immutabile della Natura (Physis), ma prendente per sé caratteristiche analoghe, eterne, potremmo dire in-naturali.
Allo stesso modo Goethe (1749-1832) qualche anno prima aveva scritto che la natura ci “prende nel giro della sua danza”, ma poi ci abbandona senza provare alcun dolore: «Natura! Noi siamo da essa circondati e avvinti, senza poter da essa uscire e senza poter entrare in essa più profondamente. Non invitati e non avvertiti, essa ci prende nel giro della sua danza e ci attrae nel vortice, finché, stanchi, cadiamo nelle sue braccia”. La natura secondo Goethe, infatti, “non sa che farsene degli individui”…[…] “Essa fa uscire le sue creature dal nulla, e non dice loro donde vengono e dove vanno: esse debbono soltanto camminare; lei sola sa la via. -Il suo teatro è sempre nuovo, perché essa crea sempre nuovi spettatori. La vita è la sua più bella invenzione, e la morte è il suo artifizio per avere più vita” [Frammento sulla natura, 1792-93]. E allora, la speranza? Altro non sarebbe che un’illusione che impedisce agli uomini di impazzire, distogliendo il loro sguardo dalla loro sorte mortale. Per questo Eschilo fa dire a Prometeo che, per non pensare alla propria condizione effimera, è necessario un potente farmaco. L’unico rimedio efficace sarebbero dunque “cieche speranze”. Speranze irragionevoli, aspettative esagerate. Miraggi. Illusioni.
È con l’avvento del Cristianesimo che l’uomo ha spostato la speranza dall’ambito del finito a quello dell’infinito. Consideriamo l’enciclica del papa “Spe salvi” [2007]. La frase iniziale dell’enciclica è: “Spe salvi facti sumus”, “nella speranza siamo stati salvati”. Ratzinger ha ripreso questa frase che san Paolo ha scritto ai Romani (Rm 8,24), per ribadire che la redenzione di Cristo (la salvezza) passa attraverso il dono della speranza, una “speranza affidabile”, scrive il papa, che permetterebbe di affrontare anche le difficoltà della vita. Perché la speranza è fondata sulla fede (“Anche quando la Prima Lettera di Pietro esorta i cristiani ad essere sempre pronti a dare una risposta circa il logos – il senso e la ragione – della loro speranza (cfr 3,15), « speranza » è l'equivalente di « fede »”). Il carattere distintivo dei cristiani è dato dalla convinzione che la vita non finisca nel nulla, per questo san Paolo diceva ai Tessalonicesi: “Voi non dovete « affliggervi come gli altri che non hanno speranza » (1 Ts 4,13)”. Certo, nessuno sa cosa lo attende dopo la morte, ma l’idea del Cristianesimo è che ci sia un futuro e, scrive il papa, “Solo quando il futuro è certo come realtà positiva, diventa vivibile anche il presente”. La speranza, dunque, è ancorata al futuro: per alcune persone il futuro è l’ambito inesauribile della dimensione del finito, per altre la speranza si radica nella fiducia che la vita non si esaurisca nel finito. La fiducia nel futuro, sia nell’ambito del finito sia in quello dell’infinito, è così forte che aiuta gli uomini a superare le difficoltà.
Hai ragione quando scrivi che spesso “ci consoliamo sempre con le solite parole famose: “la speranza è l’ultima a morire”, oppure potremmo ancora aggiungere: “finché c’è vita, c’è speranza”. In questi giorni ho letto una frase dello scrittore Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1896-1957) riportata nel “Gattopardo” (l’ho trovata nel libro di Gianfranco Ravasi, Ritorno alle virtù, Mondadori 2005). Il principe Fabrizio afferma che: “finché c’è morte, c’è speranza”. Questo aforisma è l’esatto opposto di quello precedente “finché c’è vita, c’è speranza”, e probabilmente significa che le cose, anche quelle che sembrano essere dolorosamente immutabili, possono essere trasformate. A me suggerisce questo: la vita è precaria, fragile, ed è affidata agli uomini. La dimensione della vita avverte che tutto può andare incontro alla fine. Questa consapevolezza può responsabilizzare l’uomo: la consapevolezza che la morte, la rovina, la distruzione di sé stessi e del mondo sono sempre possibili, mai definitivamente allontanate dall’orizzonte delle possibilità, può rendere l’uomo responsabile di sé, degli altri e della natura. Consapevoli che l’annientamento di ogni cosa è sempre dietro l’angolo, possiamo far nascere in noi una nuova speranza. Non una speranza fallace o utopica, ma una speranza generata e continuamente stimolata dalla responsabilità per tutto ciò che ci è affidato. E la responsabilità richiede l’azione e l’azione richiede coraggio, come scriveva Aristotele nell’ Etica nicomachea [Laterza 1998]: “Quindi il pauroso è in certo modo privo di speranza: egli infatti teme ogni cosa. Il coraggioso è invece il contrario: infatti l'aver ardire è proprio di chi ha speranza.” La responsabilità, secondo me, è ciò che motiva l’azione e rende autenticamente fondata e giustificata la speranza.
Un caro saluto,
alberto
tutti sanno che per il bene di se stessi non bisognerebbe mai desiderare cose che si ritengono impossibili fin dall'inizio. Eppure, più le cose sono assurde, più l'uomo le brama ardentemente, sembra non poterne fare a meno e cerca di consolarsi sempre con le solite parole famose: “la speranza è l’ultima a morire”. Ma che cos’è la speranza? Riflettendoci un po’ su sembra quasi che sia l’unica forza che abbia permesso di evitare l’estinzione dell’uomo. Perché altrimenti cosa gli permetterebbe di superare tutti gli ostacoli, di trovare la forza di cambiare ed evolversi, di non arrendersi anche nelle situazioni peggiori e di riuscire a rialzarsi dopo essere stato atterrato dalla sofferenza? Da dove viene questa specie di istinto di auto-conservazione? E’ qualcosa che ci appartiene e che possiamo dominare e controllare, oppure fa parte del nostro subconscio ed è il solo strumento e aiuto che ci abbiano dato per permettere alla vita di andare avanti e svolgere il suo corso? Ho i miei dubbi però sul fatto che questa nostra tendenza che ci porta a sperare sempre e comunque funzioni in ogni caso e conduca regolarmente al ritorno alla vita. Per esempio, non è forse la speranza di trovare qualcosa di migliore o perlomeno di liberarsi di un’esistenza insoddisfacente che porta i suicidi ad abbandonare la vita? E allora perché l’uomo non ha scampo e continua a sperare e illudersi, magari anche negando a se stesso che sia così, ma sapendo nel suo profondo che in lui c’è ancora un frammento di speranza che non morirà mai? Perché non riusciamo a fare a meno di illuderci, anche se cerchiamo di non cadere in questa intricata trappola con tutte le nostre forze e anche se la nostra parte razionale sa già che verremo disillusi e non vorrebbe essere ferita in questo modo per l’ennesima volta?
Fiammetta
PROMETEO: Ho impedito agli uomini di prevedere la loro sorte mortale.
CORO: Che tipo di farmaco hai scovato per questa malattia?
PROMETEO: Ho posto in loro cieche speranze...
ESCHILO, Prometeo incatenato.
Cara Fiammetta,
Friedrich Nietzsche nella Nascita della tragedia [1872], riferendosi a Arthur Schopenhauer scrisse: “gli mancò ogni speranza, ma volle la verità”. Sì perché, secondo Nietzsche, Schopenhauer avrebbe rinunciato alle illusioni consolatorie degli uomini che cercano, più o meno consapevolmente, di voltare lo sguardo dalla loro condizione mortale. Schopenhauer, infatti, parlava con diffidenza degli “adescamenti della speranza”, che oggi possiamo intendere come lusinghe del desiderio o fantasiose aspirazioni che illudono gli uomini e impediscono loro di guardare in faccia il loro destino. Oggi siamo abituati ad attribuire all’aggettivo tragico sinonimi come crudele o doloroso, pertanto non sentiamo più riverberare la gravità e la potenza che scaturivano dall’idea del tragico nell’antichità. Per i greci in questa parola risuonava la mortalità dell’uomo e l’assenza di scopo della vita. Assenza di scopo. L’uomo ha degli scopi e dei progetti, ma la natura no. La natura è indifferente. Così pensavano sia Schopenhauer sia Nietzsche. Entrambi consideravano la vita dopo la morte una speranza illusoria. Scriveva Schopenhauer “[…] lo spirito umano, non ancora contento delle angosce, amarezze e occupazioni impostegli dal mondo reale, si crea per di più, in forma di mille variate superstizioni, un mondo immaginario, col quale si affatica in tutti i modi, dissipandovi e tempo e forze, non appena il mondo reale gli lasci un riposo ch'egli non sa gustare” (Il mondo come volontà e rappresentazione, II vol.). Ribadiva con più forza lo stesso concetto Nietzsche, quando in Così parlò Zarathustra [1883-1885] scriveva: “Vi scongiuro, fratelli, "rimanete fedeli alla terra" e non credete a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze! Lo sappiano o no: costoro esercitano il veneficio”. La speranza a cui fanno riferimento questi autori è la speranza ultraterrena, frutto del desiderio smodato dell’uomo che non si accontenta più di abitare lo sfondo immutabile della Natura (Physis), ma prendente per sé caratteristiche analoghe, eterne, potremmo dire in-naturali.
Allo stesso modo Goethe (1749-1832) qualche anno prima aveva scritto che la natura ci “prende nel giro della sua danza”, ma poi ci abbandona senza provare alcun dolore: «Natura! Noi siamo da essa circondati e avvinti, senza poter da essa uscire e senza poter entrare in essa più profondamente. Non invitati e non avvertiti, essa ci prende nel giro della sua danza e ci attrae nel vortice, finché, stanchi, cadiamo nelle sue braccia”. La natura secondo Goethe, infatti, “non sa che farsene degli individui”…[…] “Essa fa uscire le sue creature dal nulla, e non dice loro donde vengono e dove vanno: esse debbono soltanto camminare; lei sola sa la via. -Il suo teatro è sempre nuovo, perché essa crea sempre nuovi spettatori. La vita è la sua più bella invenzione, e la morte è il suo artifizio per avere più vita” [Frammento sulla natura, 1792-93]. E allora, la speranza? Altro non sarebbe che un’illusione che impedisce agli uomini di impazzire, distogliendo il loro sguardo dalla loro sorte mortale. Per questo Eschilo fa dire a Prometeo che, per non pensare alla propria condizione effimera, è necessario un potente farmaco. L’unico rimedio efficace sarebbero dunque “cieche speranze”. Speranze irragionevoli, aspettative esagerate. Miraggi. Illusioni.
È con l’avvento del Cristianesimo che l’uomo ha spostato la speranza dall’ambito del finito a quello dell’infinito. Consideriamo l’enciclica del papa “Spe salvi” [2007]. La frase iniziale dell’enciclica è: “Spe salvi facti sumus”, “nella speranza siamo stati salvati”. Ratzinger ha ripreso questa frase che san Paolo ha scritto ai Romani (Rm 8,24), per ribadire che la redenzione di Cristo (la salvezza) passa attraverso il dono della speranza, una “speranza affidabile”, scrive il papa, che permetterebbe di affrontare anche le difficoltà della vita. Perché la speranza è fondata sulla fede (“Anche quando la Prima Lettera di Pietro esorta i cristiani ad essere sempre pronti a dare una risposta circa il logos – il senso e la ragione – della loro speranza (cfr 3,15), « speranza » è l'equivalente di « fede »”). Il carattere distintivo dei cristiani è dato dalla convinzione che la vita non finisca nel nulla, per questo san Paolo diceva ai Tessalonicesi: “Voi non dovete « affliggervi come gli altri che non hanno speranza » (1 Ts 4,13)”. Certo, nessuno sa cosa lo attende dopo la morte, ma l’idea del Cristianesimo è che ci sia un futuro e, scrive il papa, “Solo quando il futuro è certo come realtà positiva, diventa vivibile anche il presente”. La speranza, dunque, è ancorata al futuro: per alcune persone il futuro è l’ambito inesauribile della dimensione del finito, per altre la speranza si radica nella fiducia che la vita non si esaurisca nel finito. La fiducia nel futuro, sia nell’ambito del finito sia in quello dell’infinito, è così forte che aiuta gli uomini a superare le difficoltà.
Hai ragione quando scrivi che spesso “ci consoliamo sempre con le solite parole famose: “la speranza è l’ultima a morire”, oppure potremmo ancora aggiungere: “finché c’è vita, c’è speranza”. In questi giorni ho letto una frase dello scrittore Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1896-1957) riportata nel “Gattopardo” (l’ho trovata nel libro di Gianfranco Ravasi, Ritorno alle virtù, Mondadori 2005). Il principe Fabrizio afferma che: “finché c’è morte, c’è speranza”. Questo aforisma è l’esatto opposto di quello precedente “finché c’è vita, c’è speranza”, e probabilmente significa che le cose, anche quelle che sembrano essere dolorosamente immutabili, possono essere trasformate. A me suggerisce questo: la vita è precaria, fragile, ed è affidata agli uomini. La dimensione della vita avverte che tutto può andare incontro alla fine. Questa consapevolezza può responsabilizzare l’uomo: la consapevolezza che la morte, la rovina, la distruzione di sé stessi e del mondo sono sempre possibili, mai definitivamente allontanate dall’orizzonte delle possibilità, può rendere l’uomo responsabile di sé, degli altri e della natura. Consapevoli che l’annientamento di ogni cosa è sempre dietro l’angolo, possiamo far nascere in noi una nuova speranza. Non una speranza fallace o utopica, ma una speranza generata e continuamente stimolata dalla responsabilità per tutto ciò che ci è affidato. E la responsabilità richiede l’azione e l’azione richiede coraggio, come scriveva Aristotele nell’ Etica nicomachea [Laterza 1998]: “Quindi il pauroso è in certo modo privo di speranza: egli infatti teme ogni cosa. Il coraggioso è invece il contrario: infatti l'aver ardire è proprio di chi ha speranza.” La responsabilità, secondo me, è ciò che motiva l’azione e rende autenticamente fondata e giustificata la speranza.
Un caro saluto,
alberto
lunedì 6 dicembre 2010
LETTERA DI SEPIDEH ROUHI AGLI STUDENTI DEL LICEO DI BRA
Cari ragazzi di Bra,
vi scrivo per ringraziarvi della calorosa accoglienza che mi avete mostrato nelle due giornate da me trascorse nella vostra splendida cittadina. Ad essere sincera non mi sarei mai aspettata una tale attenzione e partecipazione da un pubblico di studenti in quanto, io stessa, liceale fino a qualche mese fa, stentavo a mantenere l’attenzione durante le solite conferenze con esperti vari durante le assemblee di istituto presso la mia scuola.
È stato un onore, oltre che un piacere, potervi parlare della mia cultura, del mio lavoro e della mia vita. Ho scorto visi attenti e concentrati durante la lettura di alcuni brani tratti dal libro, che non mi stancherò mai di consigliarvi.
Mi sono divertita. Quelle due giornate trascorse con voi sono state un tuffo nella vecchia vita (da poco abbandonata) del liceo. Vi ho visto sorridenti, disponibili e gentilissimi. Ho fatto un sacco di nuove amicizie e conosciuto persone singolari. Mi sono rincuorata del fatto che esistono ancora ragazzi semplici, educati e con tanta voglia di fare e divertirsi. Vi ho visto molto uniti tra di voi. Non ho fatto alcuna fatica ad intrufolarmi tra i vostri discorsi quotidiani, non mi avete fatta sentire diversa. Ho ancora i vostri applausi e complimenti nelle orecchie. Ho la pagina di facebook piena delle vostre richieste d’amicizia
Appena rientrata a Milano dal weekend in vostra compagnia, a sera nel mettermi a dormire, mi ha assalito un senso di malinconia, quello che si prova quando si saluta un amico che parte per un lungo viaggio o quando si torna da una vacanza particolarmente memorabile. Vi ho pensati e mi siete subito mancati. Avevo voglia di conoscervi meglio. Avevo voglia, di tornare al liceo!
Ma bando ai sentimentalismi. Solitamente, questo tipo di lettere si chiude con un augurio particolare o un consiglio filosofeggiante stile saggio giapponese. Non ho auguri particolari da fare (se non quelli di Natale) e non sono giapponese (al massimo iraniana). Vi propongo, invece, un mega abbraccio virtuale e me ne torno a studiare, visto che, ahimè, ogni esame universitario sembra la fine di quadrimestre al liceo: centinaia e centinaia di pagine da studiare in una sola volta, all’ultimo secondo, come al solito; perché tanto, a scuola, è sempre meglio rimandare J
Un bacione (in particolare a Mitch che si è dimenticato di lasciarmi il suo numero),
Sepi
P. s : Leggete il libro!!!!
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