Caro Professore,
tutti sanno che per il bene di se stessi non bisognerebbe mai desiderare cose che si ritengono impossibili fin dall'inizio. Eppure, più le cose sono assurde, più l'uomo le brama ardentemente, sembra non poterne fare a meno e cerca di consolarsi sempre con le solite parole famose: “la speranza è l’ultima a morire”. Ma che cos’è la speranza? Riflettendoci un po’ su sembra quasi che sia l’unica forza che abbia permesso di evitare l’estinzione dell’uomo. Perché altrimenti cosa gli permetterebbe di superare tutti gli ostacoli, di trovare la forza di cambiare ed evolversi, di non arrendersi anche nelle situazioni peggiori e di riuscire a rialzarsi dopo essere stato atterrato dalla sofferenza? Da dove viene questa specie di istinto di auto-conservazione? E’ qualcosa che ci appartiene e che possiamo dominare e controllare, oppure fa parte del nostro subconscio ed è il solo strumento e aiuto che ci abbiano dato per permettere alla vita di andare avanti e svolgere il suo corso? Ho i miei dubbi però sul fatto che questa nostra tendenza che ci porta a sperare sempre e comunque funzioni in ogni caso e conduca regolarmente al ritorno alla vita. Per esempio, non è forse la speranza di trovare qualcosa di migliore o perlomeno di liberarsi di un’esistenza insoddisfacente che porta i suicidi ad abbandonare la vita? E allora perché l’uomo non ha scampo e continua a sperare e illudersi, magari anche negando a se stesso che sia così, ma sapendo nel suo profondo che in lui c’è ancora un frammento di speranza che non morirà mai? Perché non riusciamo a fare a meno di illuderci, anche se cerchiamo di non cadere in questa intricata trappola con tutte le nostre forze e anche se la nostra parte razionale sa già che verremo disillusi e non vorrebbe essere ferita in questo modo per l’ennesima volta?
Fiammetta
PROMETEO: Ho impedito agli uomini di prevedere la loro sorte mortale.
CORO: Che tipo di farmaco hai scovato per questa malattia?
PROMETEO: Ho posto in loro cieche speranze...
ESCHILO, Prometeo incatenato.
Cara Fiammetta,
Friedrich Nietzsche nella Nascita della tragedia [1872], riferendosi a Arthur Schopenhauer scrisse: “gli mancò ogni speranza, ma volle la verità”. Sì perché, secondo Nietzsche, Schopenhauer avrebbe rinunciato alle illusioni consolatorie degli uomini che cercano, più o meno consapevolmente, di voltare lo sguardo dalla loro condizione mortale. Schopenhauer, infatti, parlava con diffidenza degli “adescamenti della speranza”, che oggi possiamo intendere come lusinghe del desiderio o fantasiose aspirazioni che illudono gli uomini e impediscono loro di guardare in faccia il loro destino. Oggi siamo abituati ad attribuire all’aggettivo tragico sinonimi come crudele o doloroso, pertanto non sentiamo più riverberare la gravità e la potenza che scaturivano dall’idea del tragico nell’antichità. Per i greci in questa parola risuonava la mortalità dell’uomo e l’assenza di scopo della vita. Assenza di scopo. L’uomo ha degli scopi e dei progetti, ma la natura no. La natura è indifferente. Così pensavano sia Schopenhauer sia Nietzsche. Entrambi consideravano la vita dopo la morte una speranza illusoria. Scriveva Schopenhauer “[…] lo spirito umano, non ancora contento delle angosce, amarezze e occupazioni impostegli dal mondo reale, si crea per di più, in forma di mille variate superstizioni, un mondo immaginario, col quale si affatica in tutti i modi, dissipandovi e tempo e forze, non appena il mondo reale gli lasci un riposo ch'egli non sa gustare” (Il mondo come volontà e rappresentazione, II vol.). Ribadiva con più forza lo stesso concetto Nietzsche, quando in Così parlò Zarathustra [1883-1885] scriveva: “Vi scongiuro, fratelli, "rimanete fedeli alla terra" e non credete a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze! Lo sappiano o no: costoro esercitano il veneficio”. La speranza a cui fanno riferimento questi autori è la speranza ultraterrena, frutto del desiderio smodato dell’uomo che non si accontenta più di abitare lo sfondo immutabile della Natura (Physis), ma prendente per sé caratteristiche analoghe, eterne, potremmo dire in-naturali.
Allo stesso modo Goethe (1749-1832) qualche anno prima aveva scritto che la natura ci “prende nel giro della sua danza”, ma poi ci abbandona senza provare alcun dolore: «Natura! Noi siamo da essa circondati e avvinti, senza poter da essa uscire e senza poter entrare in essa più profondamente. Non invitati e non avvertiti, essa ci prende nel giro della sua danza e ci attrae nel vortice, finché, stanchi, cadiamo nelle sue braccia”. La natura secondo Goethe, infatti, “non sa che farsene degli individui”…[…] “Essa fa uscire le sue creature dal nulla, e non dice loro donde vengono e dove vanno: esse debbono soltanto camminare; lei sola sa la via. -Il suo teatro è sempre nuovo, perché essa crea sempre nuovi spettatori. La vita è la sua più bella invenzione, e la morte è il suo artifizio per avere più vita” [Frammento sulla natura, 1792-93]. E allora, la speranza? Altro non sarebbe che un’illusione che impedisce agli uomini di impazzire, distogliendo il loro sguardo dalla loro sorte mortale. Per questo Eschilo fa dire a Prometeo che, per non pensare alla propria condizione effimera, è necessario un potente farmaco. L’unico rimedio efficace sarebbero dunque “cieche speranze”. Speranze irragionevoli, aspettative esagerate. Miraggi. Illusioni.
È con l’avvento del Cristianesimo che l’uomo ha spostato la speranza dall’ambito del finito a quello dell’infinito. Consideriamo l’enciclica del papa “Spe salvi” [2007]. La frase iniziale dell’enciclica è: “Spe salvi facti sumus”, “nella speranza siamo stati salvati”. Ratzinger ha ripreso questa frase che san Paolo ha scritto ai Romani (Rm 8,24), per ribadire che la redenzione di Cristo (la salvezza) passa attraverso il dono della speranza, una “speranza affidabile”, scrive il papa, che permetterebbe di affrontare anche le difficoltà della vita. Perché la speranza è fondata sulla fede (“Anche quando la Prima Lettera di Pietro esorta i cristiani ad essere sempre pronti a dare una risposta circa il logos – il senso e la ragione – della loro speranza (cfr 3,15), « speranza » è l'equivalente di « fede »”). Il carattere distintivo dei cristiani è dato dalla convinzione che la vita non finisca nel nulla, per questo san Paolo diceva ai Tessalonicesi: “Voi non dovete « affliggervi come gli altri che non hanno speranza » (1 Ts 4,13)”. Certo, nessuno sa cosa lo attende dopo la morte, ma l’idea del Cristianesimo è che ci sia un futuro e, scrive il papa, “Solo quando il futuro è certo come realtà positiva, diventa vivibile anche il presente”. La speranza, dunque, è ancorata al futuro: per alcune persone il futuro è l’ambito inesauribile della dimensione del finito, per altre la speranza si radica nella fiducia che la vita non si esaurisca nel finito. La fiducia nel futuro, sia nell’ambito del finito sia in quello dell’infinito, è così forte che aiuta gli uomini a superare le difficoltà.
Hai ragione quando scrivi che spesso “ci consoliamo sempre con le solite parole famose: “la speranza è l’ultima a morire”, oppure potremmo ancora aggiungere: “finché c’è vita, c’è speranza”. In questi giorni ho letto una frase dello scrittore Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1896-1957) riportata nel “Gattopardo” (l’ho trovata nel libro di Gianfranco Ravasi, Ritorno alle virtù, Mondadori 2005). Il principe Fabrizio afferma che: “finché c’è morte, c’è speranza”. Questo aforisma è l’esatto opposto di quello precedente “finché c’è vita, c’è speranza”, e probabilmente significa che le cose, anche quelle che sembrano essere dolorosamente immutabili, possono essere trasformate. A me suggerisce questo: la vita è precaria, fragile, ed è affidata agli uomini. La dimensione della vita avverte che tutto può andare incontro alla fine. Questa consapevolezza può responsabilizzare l’uomo: la consapevolezza che la morte, la rovina, la distruzione di sé stessi e del mondo sono sempre possibili, mai definitivamente allontanate dall’orizzonte delle possibilità, può rendere l’uomo responsabile di sé, degli altri e della natura. Consapevoli che l’annientamento di ogni cosa è sempre dietro l’angolo, possiamo far nascere in noi una nuova speranza. Non una speranza fallace o utopica, ma una speranza generata e continuamente stimolata dalla responsabilità per tutto ciò che ci è affidato. E la responsabilità richiede l’azione e l’azione richiede coraggio, come scriveva Aristotele nell’ Etica nicomachea [Laterza 1998]: “Quindi il pauroso è in certo modo privo di speranza: egli infatti teme ogni cosa. Il coraggioso è invece il contrario: infatti l'aver ardire è proprio di chi ha speranza.” La responsabilità, secondo me, è ciò che motiva l’azione e rende autenticamente fondata e giustificata la speranza.
Un caro saluto,
alberto
tutti sanno che per il bene di se stessi non bisognerebbe mai desiderare cose che si ritengono impossibili fin dall'inizio. Eppure, più le cose sono assurde, più l'uomo le brama ardentemente, sembra non poterne fare a meno e cerca di consolarsi sempre con le solite parole famose: “la speranza è l’ultima a morire”. Ma che cos’è la speranza? Riflettendoci un po’ su sembra quasi che sia l’unica forza che abbia permesso di evitare l’estinzione dell’uomo. Perché altrimenti cosa gli permetterebbe di superare tutti gli ostacoli, di trovare la forza di cambiare ed evolversi, di non arrendersi anche nelle situazioni peggiori e di riuscire a rialzarsi dopo essere stato atterrato dalla sofferenza? Da dove viene questa specie di istinto di auto-conservazione? E’ qualcosa che ci appartiene e che possiamo dominare e controllare, oppure fa parte del nostro subconscio ed è il solo strumento e aiuto che ci abbiano dato per permettere alla vita di andare avanti e svolgere il suo corso? Ho i miei dubbi però sul fatto che questa nostra tendenza che ci porta a sperare sempre e comunque funzioni in ogni caso e conduca regolarmente al ritorno alla vita. Per esempio, non è forse la speranza di trovare qualcosa di migliore o perlomeno di liberarsi di un’esistenza insoddisfacente che porta i suicidi ad abbandonare la vita? E allora perché l’uomo non ha scampo e continua a sperare e illudersi, magari anche negando a se stesso che sia così, ma sapendo nel suo profondo che in lui c’è ancora un frammento di speranza che non morirà mai? Perché non riusciamo a fare a meno di illuderci, anche se cerchiamo di non cadere in questa intricata trappola con tutte le nostre forze e anche se la nostra parte razionale sa già che verremo disillusi e non vorrebbe essere ferita in questo modo per l’ennesima volta?
Fiammetta
PROMETEO: Ho impedito agli uomini di prevedere la loro sorte mortale.
CORO: Che tipo di farmaco hai scovato per questa malattia?
PROMETEO: Ho posto in loro cieche speranze...
ESCHILO, Prometeo incatenato.
Cara Fiammetta,
Friedrich Nietzsche nella Nascita della tragedia [1872], riferendosi a Arthur Schopenhauer scrisse: “gli mancò ogni speranza, ma volle la verità”. Sì perché, secondo Nietzsche, Schopenhauer avrebbe rinunciato alle illusioni consolatorie degli uomini che cercano, più o meno consapevolmente, di voltare lo sguardo dalla loro condizione mortale. Schopenhauer, infatti, parlava con diffidenza degli “adescamenti della speranza”, che oggi possiamo intendere come lusinghe del desiderio o fantasiose aspirazioni che illudono gli uomini e impediscono loro di guardare in faccia il loro destino. Oggi siamo abituati ad attribuire all’aggettivo tragico sinonimi come crudele o doloroso, pertanto non sentiamo più riverberare la gravità e la potenza che scaturivano dall’idea del tragico nell’antichità. Per i greci in questa parola risuonava la mortalità dell’uomo e l’assenza di scopo della vita. Assenza di scopo. L’uomo ha degli scopi e dei progetti, ma la natura no. La natura è indifferente. Così pensavano sia Schopenhauer sia Nietzsche. Entrambi consideravano la vita dopo la morte una speranza illusoria. Scriveva Schopenhauer “[…] lo spirito umano, non ancora contento delle angosce, amarezze e occupazioni impostegli dal mondo reale, si crea per di più, in forma di mille variate superstizioni, un mondo immaginario, col quale si affatica in tutti i modi, dissipandovi e tempo e forze, non appena il mondo reale gli lasci un riposo ch'egli non sa gustare” (Il mondo come volontà e rappresentazione, II vol.). Ribadiva con più forza lo stesso concetto Nietzsche, quando in Così parlò Zarathustra [1883-1885] scriveva: “Vi scongiuro, fratelli, "rimanete fedeli alla terra" e non credete a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze! Lo sappiano o no: costoro esercitano il veneficio”. La speranza a cui fanno riferimento questi autori è la speranza ultraterrena, frutto del desiderio smodato dell’uomo che non si accontenta più di abitare lo sfondo immutabile della Natura (Physis), ma prendente per sé caratteristiche analoghe, eterne, potremmo dire in-naturali.
Allo stesso modo Goethe (1749-1832) qualche anno prima aveva scritto che la natura ci “prende nel giro della sua danza”, ma poi ci abbandona senza provare alcun dolore: «Natura! Noi siamo da essa circondati e avvinti, senza poter da essa uscire e senza poter entrare in essa più profondamente. Non invitati e non avvertiti, essa ci prende nel giro della sua danza e ci attrae nel vortice, finché, stanchi, cadiamo nelle sue braccia”. La natura secondo Goethe, infatti, “non sa che farsene degli individui”…[…] “Essa fa uscire le sue creature dal nulla, e non dice loro donde vengono e dove vanno: esse debbono soltanto camminare; lei sola sa la via. -Il suo teatro è sempre nuovo, perché essa crea sempre nuovi spettatori. La vita è la sua più bella invenzione, e la morte è il suo artifizio per avere più vita” [Frammento sulla natura, 1792-93]. E allora, la speranza? Altro non sarebbe che un’illusione che impedisce agli uomini di impazzire, distogliendo il loro sguardo dalla loro sorte mortale. Per questo Eschilo fa dire a Prometeo che, per non pensare alla propria condizione effimera, è necessario un potente farmaco. L’unico rimedio efficace sarebbero dunque “cieche speranze”. Speranze irragionevoli, aspettative esagerate. Miraggi. Illusioni.
È con l’avvento del Cristianesimo che l’uomo ha spostato la speranza dall’ambito del finito a quello dell’infinito. Consideriamo l’enciclica del papa “Spe salvi” [2007]. La frase iniziale dell’enciclica è: “Spe salvi facti sumus”, “nella speranza siamo stati salvati”. Ratzinger ha ripreso questa frase che san Paolo ha scritto ai Romani (Rm 8,24), per ribadire che la redenzione di Cristo (la salvezza) passa attraverso il dono della speranza, una “speranza affidabile”, scrive il papa, che permetterebbe di affrontare anche le difficoltà della vita. Perché la speranza è fondata sulla fede (“Anche quando la Prima Lettera di Pietro esorta i cristiani ad essere sempre pronti a dare una risposta circa il logos – il senso e la ragione – della loro speranza (cfr 3,15), « speranza » è l'equivalente di « fede »”). Il carattere distintivo dei cristiani è dato dalla convinzione che la vita non finisca nel nulla, per questo san Paolo diceva ai Tessalonicesi: “Voi non dovete « affliggervi come gli altri che non hanno speranza » (1 Ts 4,13)”. Certo, nessuno sa cosa lo attende dopo la morte, ma l’idea del Cristianesimo è che ci sia un futuro e, scrive il papa, “Solo quando il futuro è certo come realtà positiva, diventa vivibile anche il presente”. La speranza, dunque, è ancorata al futuro: per alcune persone il futuro è l’ambito inesauribile della dimensione del finito, per altre la speranza si radica nella fiducia che la vita non si esaurisca nel finito. La fiducia nel futuro, sia nell’ambito del finito sia in quello dell’infinito, è così forte che aiuta gli uomini a superare le difficoltà.
Hai ragione quando scrivi che spesso “ci consoliamo sempre con le solite parole famose: “la speranza è l’ultima a morire”, oppure potremmo ancora aggiungere: “finché c’è vita, c’è speranza”. In questi giorni ho letto una frase dello scrittore Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1896-1957) riportata nel “Gattopardo” (l’ho trovata nel libro di Gianfranco Ravasi, Ritorno alle virtù, Mondadori 2005). Il principe Fabrizio afferma che: “finché c’è morte, c’è speranza”. Questo aforisma è l’esatto opposto di quello precedente “finché c’è vita, c’è speranza”, e probabilmente significa che le cose, anche quelle che sembrano essere dolorosamente immutabili, possono essere trasformate. A me suggerisce questo: la vita è precaria, fragile, ed è affidata agli uomini. La dimensione della vita avverte che tutto può andare incontro alla fine. Questa consapevolezza può responsabilizzare l’uomo: la consapevolezza che la morte, la rovina, la distruzione di sé stessi e del mondo sono sempre possibili, mai definitivamente allontanate dall’orizzonte delle possibilità, può rendere l’uomo responsabile di sé, degli altri e della natura. Consapevoli che l’annientamento di ogni cosa è sempre dietro l’angolo, possiamo far nascere in noi una nuova speranza. Non una speranza fallace o utopica, ma una speranza generata e continuamente stimolata dalla responsabilità per tutto ciò che ci è affidato. E la responsabilità richiede l’azione e l’azione richiede coraggio, come scriveva Aristotele nell’ Etica nicomachea [Laterza 1998]: “Quindi il pauroso è in certo modo privo di speranza: egli infatti teme ogni cosa. Il coraggioso è invece il contrario: infatti l'aver ardire è proprio di chi ha speranza.” La responsabilità, secondo me, è ciò che motiva l’azione e rende autenticamente fondata e giustificata la speranza.
Un caro saluto,
alberto
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