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Cor-rispondenze

lunedì 3 ottobre 2011

La felicità della mia vita





Caro professore,
E’ ormai da un po’ di tempo che mi pongo questa domanda: cos’è realmente la felicità? Spesso quando sono sola penso alla mia vita, alla mia adolescenza. In molti dicono che questo dovrebbe essere il periodo più felice della vita, ma io sinceramente non credo di essere felice... e per me felicità è sinonimo di libertà e tra la scuola e la famiglia non credo di essere libera. Per avere una buona media a scuola devo impegnare tempo dei miei pomeriggi a studiare ovviamente, e al mattino devo svegliarmi presto; non sono libera di vivere la mia giornata come vorrei, questo in fondo è anche un bene perché se ognuno volesse vivere libero il mondo non andrebbe più avanti e anche io devo impegnarmi per contribuire all’evoluzione. Io non sono molto credente in Dio, spesso mi pongo dei dubbi: ma sarà vero che la vita è solamente un passaggio per l’eternità? Io in ogni modo voglio vivere la vita al meglio, perché non sono sicura che dopo ci sarà qualcosa...qualcosa di meglio. Due settimane fa sono stata ad un campo-scuola e gli educatori ci hanno fatto riflettere sul significato del sogno; sono arrivata alla conclusione che non ho un sogno-obiettivo vero e proprio per la mia vita a parte essere felice. Ciò che mi preoccupa è che non so come raggiungere la felicità, non so come fare...lei cosa ne pensa? Cosa dovrei fare per raggiungere il mio obiettivo?
Irene


Cara Irene,
Chissà perché molti guardano all’adolescenza come al periodo più felice della vita. Seguendo questo ragionamento potremmo pensare che: 1. l’adolescenza è il periodo più felice della vita: 2. io non sono felice in questa fase; 3 dunque, la vita che segue l’adolescenza sarà ancora meno felice. Beh, se rimaniamo prigionieri di questa logica, non abbiamo molto da rallegrarci. Io non so se l’adolescenza sia il periodo più felice della vita, ma so che si può essere felici in forme diverse nei diversi momenti della vita. Potremmo dire che anche l’infanzia è il periodo più felice, perché tutto è da scoprire e non si hanno preoccupazioni (ma chi vorrebbe vivere tutta la vita nell’infanzia?); oppure la giovinezza, perché si è più consapevoli, più liberi e autonomi; oppure l’età adulta, perché si ha la massima libertà di scegliere e di agire. Non scrivo che la vecchiaia sia il periodo più felice, perché spesso il corpo presenta il conto degli anni e viene gravato da acciacchi, ma non escludo che anche una persona che abbia avuto un’esistenza più o meno travagliata possa essere felice se considera di aver avuto una vita piena e realizzata. Scriveva Marco Aurelio: «Attraversa quindi questo breve periodo di tempo in modo conforme alla natura e finisci felice il tuo viaggio, proprio come un'oliva che cade quando è matura, benedicendo la natura che l'ha prodotta e ringraziando l'albero sul quale è cresciuta». (Marco Aurelio, I ricordi). Come un’oliva si stacca dalla natura “benedicendola”, la persona che guarda alla propria vita considerando di avere ben amministrato il tempo e sapendo di aver creato buoni legami - con le persone della propria famiglia e con quelle incontrate nel proprio percorso - è persino serena di lasciare il mondo. Socrate, in fondo, invece di fuggire dal carcere, accetta la propria condizione, perché sa di aver ben vissuto; Montaigne, che ha perso cinque figli e un amico carissimo, ritiene che anche con tutte le avversità la vita sia un bene prezioso, e scrive: «amo la vita». Kant, che muore quasi a 80 anni, dopo aver bevuto un po’ di vino diluito con acqua, mormora «es ist gut», «va bene così»; era in armonia con il mondo e con gli uomini. Ma anche Wittgenstein, che ha preso parte alla I guerra mondiale, dice al proprio medico «Dite loro che ho avuto una vita felice».
Forse chi ritiene che nell’adolescenza vi sia la massima felicità, non tiene conto delle molte difficoltà a cui i ragazzi vanno incontro in quel periodo: l’accettazione del corpo che cambia, la fatica di creare legami, la difficoltà ad accettare dei rifiuti senza sentirsi insignificanti, le preoccupazioni per le scelte importanti, il timore del futuro. A me sembra che l’adolescenza, insieme al suo carico di leggerezza abbia anche un carico di preoccupazioni che possono pesare come un macigno. Il filosofo francese contemporaneo Frédéric Lenoir, nel libro Vivere è un’arte. Piccolo trattato di vita interiore, [Mondadori, 2011], risponde alla tua domanda su come conquistare la felicità. E parla dell’impegno. Credo anch’io che vivendo intensamente la vita, la felicità giunga come conseguenza. Non dobbiamo pensare che la felicità sia inaccessibile o qualcosa di raro difficile da incontrare. Spesso dipende dalla nostra attività, dalla volontà di sviluppare le nostre capacità, a livello scolastico e relazionale. Dobbiamo essere attivi e non passivi, lavorare per la felicità e non attendere che accada. Ecco qualche spunto della riflessione di Lenoir: «Accettare il dato della vita e accogliere gli imprevisti dell'esistenza ci incitano, al contrario, a lasciarci coinvolgere. Questo coinvolgimento è una combinazione sottile di abbandono e impegno, passività e azione, recettività e iniziativa. La vita richiede impegno. Se la affrontiamo con circospezione, con il timore di investire il massimo, ci prepariamo al fallimento e le nostre gioie saranno tiepide. Ciò vale a ogni livello: uno sportivo o un artista che aspirano a eccellere nella loro disciplina non hanno altra scelta che impegnarsi al massimo. Chi intraprende una relazione amorosa con qualche esitazione ha la garanzia che essa non avrà sbocco. Lo stesso accade sul piano professionale o dello studio: quando si fa il proprio lavoro a metà, senza applicarsi a fondo, non se ne trae la minima soddisfazione. Una vita riuscita è sempre frutto dell'impegno, di un sentito coinvolgimento in tutti i campi dell'esistenza. Noi siamo responsabili della nostra vita. Spetta a noi sviluppare le capacità che abbiamo ricevuto, correggere i difetti, reagire in modo appropriato agli eventi che si presentano, legarci agli altri o vivere ripiegati su noi stessi. Dobbiamo farci carico della nostra felicità e della nostra infelicità. Questo atteggiamento è agli antipodi rispetto al vittimismo fin troppo diffuso. In tanti non si sentono responsabili di niente: tutto ciò che succede loro è colpa degli altri, della sfortuna, del governo. Il male arriva sempre dall'esterno ed è sempre dall'esterno che attendono la soluzione. Si lamentano della loro sorte invece di prenderla in mano; rifiutano di vedere la loro responsabilità nelle vicende che li riguardano e attendono sistematicamente un soccorso esterno. Questa deresponsabilizzazione proviene, in gran parte, da una mancanza di vita interiore e di coscienza di sé». Siamo responsabili della nostra felicità, e se lavoriamo con questo atteggiamento scopriamo che la felicità è molto più alla nostra portata di quanto siamo soliti pensare. Hai scritto che vuoi vivere la tua vita «al meglio», quindi ritieni che la vita vada vissuta con impegno. In questo caso puoi stare certa che avrai una felicità più profonda, in grado di includere anche gli urti e gli strappi che la vita porta con sé, perché la felicità di una vita impegnata per sé e per gli altri è così forte da contenere anche i momenti di tristezza; perché una vita buona – come dicevano gli antichi - è una vita felice.
Un caro saluto,
alberto

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