domenica 1 aprile 2012
Dire le cose ai bambini
Caro professore,
Perché è così difficile? La domanda è nata dalla mia testa ieri. Stavo leggendo il libro di Gramellini “Fai bei sogni”, dove l’autore racconta la sua infanzia e di come ha vissuto la precoce scomparsa della madre. A lui per quarant’anni è stato tenuto nascosto il modo in cui la madre è morta, ma ancor peggio al momento della morte nessuno gli ha detto che lei era morta, ma hanno inventato scuse, perché? Ieri, incuriosita, ho chiesto a mia mamma, alla quale è successa la stessa cosa, e lei mi ha risposto che spesso è l’ignoranza a far sì che la gente non riesca a parlare ai bambini, ma secondo me c’è di più.
Chiara
Cara Chiara,
Spiegare alcune questioni ai bambini crea grandi difficoltà agli adulti. Perché i bambini chiedono ragioni e non sempre le ragioni degli adulti sono sensate. Ma come si fa a raccontare la disperazione di una mamma che si toglie la vita a un bambino? Ad un bambino si può raccontare il dolore, ma non la disperazione. Si può parlare del dolore, perché attraverso l’empatia egli si può rendere conto che anche le altre persone soffrono come lui, poiché il dolore dell’altro ha un’analogia con il proprio dolore. Il bambino può sentire che un uomo soffre, comprenderne la tristezza, perché ha sperimentato su di sé sofferenza e tristezza. Ma non può afferrare la disperazione, perché la disperazione non è assimilabile al suo sentire. È fuori misura e dunque egli non la può immaginare, afferrare, contenere. Può cogliere un dolore più o meno forte, ma non ciò che eccede quella natura: non ha termini emotivi di paragone, né riferimenti personali, né parole. Qualche giorno fa ho letto su «La Stampa» un articolo di Ferdinando Camon (1935) (puoi rileggerlo interamente sul suo sito: http://www.ferdinandocamon.it/articolo_2012_03_15_22BambiniMorti.htm) in cui il giornalista e scrittore padovano rifletteva sulla morte dei 22 bambini in pullman in Svizzera. Camon scriveva che «Non ci sono gradazioni alla disperazione, perché la disperazione è lo stadio estremo del dolore». ("La Stampa" 15 marzo 2012). Proprio così. Se ci può essere corrispondenza nel dolore tra un bambino e un adulto, non c’è nella disperazione, perché questa apre ad un altra dimensione della vita, alla sua irrazionalità e al naufragio di ogni senso. Se già da adulti è difficile vivere accettando il fatto che talvolta il senso della vita naufraga (quando si perdono persone care, quando si viene lasciati in una relazione, quando la vita dirotta improvvisamente i progetti per l’avvenire e impone con risolutezza percorsi obbligati detestabili), quando si è bambini è inaccettabile. L’adulto o accetta la tragicità della vita o trova un rimedio in qualche ideologia o in una visione onnicomprensiva di qualche religione, oppure può trasformare la consapevolezza ineluttabile dell’assenza di senso in “male di vivere”. Al bambino non è dato comprendere il tragico, perché il tragico ha che fare con la razionalità, con il pensiero dell’assenza di senso, mentre per il bambino le cose hanno sempre senso.
Allora, facendo riferimento a libro di Massimo Gramellini, Fai bei sogni (Milano, Longanesi, 2012) che tu hai appena letto, puoi vedere quante difese mette in atto chi è piccolo. Nega: «ero solo un bimbo istupidito dal dolore che continuava a negare la morte di sua madre» [...] «la morte per me non esisteva ancora»; fugge: «ombra ineluttabile di morte da cui ero scappato per tutta la vita»; sente l’ingiustizia come inammissibile: «Eppure la morte precoce di una madre rimane un’ingiustizia inconcepibile»; immagina l’egoismo di chi ha troncato prematuramente la relazione: «la mamma se n’era infischiata di me. Aveva pensato solo a se stessa», sente di non essere amato «Sveva amava un figlio più grande che aveva cresciuto dopo la morte del marito. Neanche per lei sarei mai stato il primo della lista»; sente che forse non è neppure più possibile sopravvivere a quell’abbandono: «la mia passione per le vite degli altri è sempre dipesa dal desiderio inconsapevole di scoprire come fossero riusciti a sopravvivere al primo impatto con il dolore».
Il bambino non può contenere l’angoscia, l’angoscia originata dalla disperazione che per il bambino si trasforma nell’angoscia estrema di non meritare l’amore e soprattutto l’amore della mamma. Percepisce un rifiuto di sé, il rifiuto della relazione, perché gli viene sottratto ciò che alimenta la sua vita. Forse un bambino può anche capire che un adulto non è più padrone di sé, ma solo se quell’adulto non è il suo punto di riferimento per tutto.
Certo, bisogna sempre trovare il modo per parlare con i bambini, ed è giusto cercare di contenere le loro angosce in quadri di senso comprensibili, ma forse ci sono cose che è bene non svelare, per il semplice fatto che non possono essere accettate emotivamente né comprese razionalmente. Perché quando il senso della vita di un adulto deflagra, nel corpo del bambino esplode la vita stessa che, grazie alla madre, cominciava ad acquisire un senso.
Un caro saluto,
alberto
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