Caro professore,
fino a circa un anno fa, quando c’era ancora mia nonna,
non ho mai fatto caso alla fortuna che avevo. Ogni volta che andavo a casa sua
vivevo la cosa come un evento normale a cui non davo molta importanza. Faceva
parte della routine di ogni giorno. Ad un certo punto, però, il ciclo continuo
e regolare si interruppe. Mia nonna morì. I primi giorni, nonostante la
sofferenza, non mi resi subito conto della gravità della perdita. Iniziai a
capire esattamente cos’era successo solamente quando ricominciai ad andare a
casa sua. Vedere l’abitazione buia, entrare dentro e sentire il silenzio e il
freddo dell’abbandono, mi fece aprire gli occhi. Lei non c’era più e non
sarebbe più tornata. Mi iniziarono a venire in mente mille sensi di colpa, cose
che avrei potuto fare con lei quando era ancora in vita, ma che non avevo mai
pensato, affiorarono i ricordi delle giornate passate in campagna a parlare e
ad ascoltarla raccontare i suoi tempi passati. Pensai a quante cose non le
avevo chiesto e che quindi per me sarebbero rimaste sempre sconosciute. Ora il
tempo ha rimarginato un po’ la ferita, ma mi domando perché l’essere umano, me
compresa, abbia l’abitudine di sorvolare sulle piccole cose. Sara, III F
Cara Sara,
Il poeta ed educatore Danilo
Dolci scriveva che ogni uomo è un centro di cordoni ombelicali in partenza e in
arrivo con altri uomini. In questo duplice gesto di ricevere nutrimento e di
offrirlo, come la mamma e il bambino si trasformano reciprocamente, così anche
noi viviamo in un continuo adattamento creativo, formati dalle relazioni. Non
possiamo tuttavia proteggere le persone, che talvolta ci lasciano, ma possiamo
mantenere il cordone ombelicale con loro. Sentiamo, come gli antichi, che
ricordare è un re-cordare, ossia un reimmettere (re) nel cuore (cor),
e i contenuti che reimmettiamo ci danno forza e ci vengono in aiuto, anche a
distanza di anni. Perdere qualcuno significa perdere un mondo o, come dici tu,
«sentire il silenzio e il freddo dell’abbandono», e avere la consapevolezza che
qualcosa in noi si dissolve: lasciamo chi ci ha amato, chi serba la nostra
storia e la storia di un altro tempo. Ma anche quando la scomparsa, come nella
morte, è irreversibile, in fondo non è mai totale, e il cordone ombelicale non
si interrompe del tutto, perché l’affetto di tua nonna continuerà ad
accompagnarti nel corso della vita e nei momenti di difficoltà ti farà
percepire che sei stata fortemente amata e che sei degna di amore. Oltre al suo
affetto ti giungeranno le storie che ti narrava, che continueranno a parlarti
del suo mondo (un tempo in cui tu non c’eri), di lei (una storia che senti
vicina e da cui provieni) e di te (una storia che ti appartiene, ma che ti
viene consegnata). In questo senso, ricordare è qualcosa di più del richiamare
alla memoria dei fatti. Il filosofo francese Paul Ricoeur scriveva che i verbi
della memoria, se rappeler, se souvenir, come anche il verbo italiano ricordarsi,
mettono in luce che nell’azione del ricordare è implicato un soggetto il quale,
nel momento stesso in cui ricorda il passato, ricorda contemporaneamente di sé
e della storia che lo caratterizza. Non potendo fare altre domande e non
potendo sapere di più, rimaniamo un po’ orfani delle vite precedenti che
cerchiamo faticosamente di ricostruire per disegnare una mappa di noi stessi.
Poiché la vita è alimentata da un dialogo continuo, saranno comunque sempre
tante le domande che non abbiamo formulato e le parole che non abbiamo
pronunciato. Tuttavia, pur non possedendo tutta la vita dei nostri cari, i
frammenti sparsi che rimangono, discontinui e fragili, sono sufficienti a
scaldare lunghi tratti dell’esistenza. Immersi nel flusso della vita,
sottovalutiamo le piccole cose che, come scriveva nel 1937 la giovane poetessa
Antonia Pozzi, «scalpellano» la vita interiore. È attraverso lo scalpellìo
quotidiano delle piccole cose che si preservano i ricordi, e si dà uno buona
forma alla propria esistenza.Un caro saluto,
Alberto
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