Caro professore,
Alessandro (4F)
Caro Alessandro,
Credo che il tuo sacerdote e il
vicario abbiano risposto correttamente: non ci sono argomentazioni razionali
che determinano la fede. Altrimenti non sarebbe fede, ma una forma di
conoscenza da acquisire attraverso buone argomentazioni. Blaise Pascal sapeva
benissimo che non si tratta di esibire delle prove: «Le prove metafisiche di
Dio – scrive l’autore – sono così lontane dal ragionamento degli uomini
e così complicate, che colpiscono poco; e, quando ciò servisse ad alcuni, non
servirebbe che nell’istante in cui essi vedessero quella dimostrazione, ma,
un’ora dopo, essi avrebbero timore di essersi sbagliati». Egli sapeva che
le prove razionali non alimentano la fede nei credenti né la suscitano in
coloro che non la possiedono. La fede non si trasmette con il dna, non è un
oggetto che viene consegnato inalterato da una generazione all’altra, come un
mobile che si eredita con le pertinenze di famiglia. Anche se i genitori sono
uomini di fede, i fondamenti della loro credenza accettati supinamente
conducono ad una fede superficiale, di facciata, dunque inesistente, perché la
fede individuale non è la riproposizione inconsapevole di credenze altrui.
Nell’adolescenza si mette in dubbio tutto quello che proviene dal mondo degli
adulti e anche la fede non si sottrae all’esercizio della impetuosa critica
della ragione. Ogni generazione rimette alla prova i contenuti che la
tradizione consegna. C’è tuttavia differenza tra “credere in Dio” e “credere
nella credenza”. Spesso ci si ferma a “credere nella credenza”: si
accetta remissivamente ciò che proviene dal passato, dalla propria famiglia,
dalla propria comunità. Magari si nutrono dei dubbi, ma poi con indolenza si
rimane nel solco della tradizione, oppure, per reazione, si rigetta tutto come
irrazionale e primitivo. Ma “credere in Dio” è diverso. Espone in prima
persona al mistero della vita. Richiede il travaglio, l’angoscia, la prova del
fuoco della ragione, e poi la consapevolezza che la ragione non è l’approdo
definitivo della propria ricerca. La fede si smarrisce, è inevitabile. Perché quella
interiorizzata non è ancora la propria disposizione al sacro. Non esistono
argomentazioni sufficienti, perché non si tratta di esibire delle prove, ma di
accennare ad una sensibilità, una forma di fiducia. Richiede dunque la volontà
di approfondire il senso dell’esistenza. Poiché è ricerca, ogni percorso
attraversa momenti altalenanti e l’esito non è mai scontato né definitivo.
Tuttavia, non è sul piano delle prove che anche gli uomini più intelligenti,
come dici tu, fondano la propria fede, ma su una sensibilità che altro non è
che una semplice e insopprimibile forma di fiducia. Kierkegaard ironizzava
sulle ragioni della fede, e scriveva: «Se tu vuoi assolutamente delle
ragioni, ti accontenterò volentieri. Ne vuoi tre, cinque, sette? Dimmi un po’,
quante ne vuoi?». Ma non posso dire nulla che sia più alto di questo: «io
credo». Qui c'è il positivo della sazietà. Nell’ambito del Cristianesimo,
scrive Enzo Bianchi in “Ama il prossimo tuo” [2011], «Fidarsi di Dio
significa fidarsi del suo amore, della sua capacità
di amare, del suo essere amore» (cfr. 1Gv 4,8.16).Un caro saluto,
Alberto
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