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Cor-rispondenze

lunedì 28 ottobre 2013

Cambiare vita



Caro professore,
mi ritrovo ad elaborare quesiti quasi esistenziali, “domandone” alle quali l’uomo solitamente non è mai riuscito a rispondere o, peggio ancora, punti interrogativi che vengono volontariamente evitati da chi ha paura di trovare una soluzione. In particolare: è da un po’ di tempo (probabilmente dalla fine delle vacanze e dalla ripresa del ritmo frenetico da liceale diviso tra casa e scuola, amici e sport) che penso spesso a come sarebbe la vita se abbandonassimo tutto, o perlomeno tutto ciò che è stato creato o ideato dall’umanità, dal semplice telefonino alle problematiche vicende politiche, passando per l’abbandono della vita pubblica e mondana, fino ad allontanarci da tutti e tutto. Abbandonare il mondo odierno. Penso che ci ritroveremmo completamente immersi nella natura, a contatto con la “vita vera” , una sorta di moderni “figli dei fiori”, una vita da hippie impegnati a godere tutto ciò che vita può offrire. Cosa ne sarà però del mondo, il moderno e avanzato pianeta dove software e gas stanno purtroppo sostituendo piante e ossigeno? Sarebbe forse “buttar via” secoli di sviluppo mentale e tecnologico, forse. Ma, secondo me, sarebbe anche il modo migliore per conoscere ciò che la “Vita” con la  “V” maiuscola ci può regalare ogni giorno.
Nicolò IVD

Caro Nicolò,
C’è un momento in cui osservando la dissennata linea di sviluppo che il nostro mondo ha intrapreso, caratterizzata da frenesia individuale e collettiva, spreco di risorse e dilapidazione delle riserve naturali, verrebbe voglia di fare un passo indietro: liberarci dalla tecnologia che invece di renderci più liberi sottrae irreversibilmente energie e tempo prezioso alle relazioni, ma soprattutto chiede continui e crescenti investimenti temporali di attenzione e impegno. Verrebbe voglia, come a moderni sopravvissuti, di ritirarsi da qualche parte, fuori dall’apparato tecnico, non necessariamente su un’isola e per ventotto anni, come Robinson Crusoe, e forse neppure per soli due anni sulle sponde del lago Walden, in Massachusetts, come fece il filosofo Henry David Thoreau (“Walden”, Donzelli 2005). Basterebbe qualche passeggiata in compagnia di Jean-Jacques Rousseau (“Le passeggiate del sognatore solitario”, Feltrinelli 2012) per recuperare un corretto rapporto con la natura o, come dici tu, per «conoscere la Vita». Certo, qualche periodo di assenza è certamente salutare, ma può non essere sufficiente per ristabilire il vigore individuale se si torna ad essere pedine di un apparato produttivo che sovrasta l’uomo e lo rende alienato. Perché il nostro tempo non viaggia solo su un «ritmo frenetico», ma impone tale ritmo a tutto che produce e prontamente scarta. Il professor emerito di Scienze economiche dell’Università di Parigi-Sud, Serge Latouche, ricorda che il nostro tempo ha persino prodotto la «follia dell’obsolescenza programmata» (Usa e getta, Bollati Boringhieri 2013). Uno squilibrio progettuale che impone di sostituire rapidamente gli apparecchi che utilizziamo. Certo, il treno ha reso inopportuni gli spostamenti con la diligenza («obsolescenza tecnica») e la pubblicità ci fa sentire inadeguati se non possediamo l’ultimo prodotto ben confezionato («obsolescenza psicologica»). Ma la pazzia del nostro tempo emerge soprattutto perché i prodotti che utilizziamo sono concepiti per avere una durata limitata, poi si rompono. Poiché la riparazione è impossibile, siamo costretti a sostituire interamente l’oggetto («obsolescenza programmata»). Non so se Latouche dopo aver indagato a fondo la società dei consumi e aver scritto moltissimi libri sulle sregolatezze della contemporaneità abbia mai desiderato evadere da questo mondo. So però che, invece di sottrarsi, si è impegnato per rendere gli uomini maggiormente consapevoli delle conseguenze delle loro azioni. Oggi sappiamo che dobbiamo convivere con un’accelerazione della storia che ha avuto inizio con le rivoluzioni industriali, ed è chiaro che si può vivere fuori dalla società, ma solo per poco tempo. A livello individuale può essere utile, una boccata d’ossigeno. Ma a livello collettivo credo che sia più costruttivo vivere con gli uomini in modo informato e critico, difendendo politiche e idee che possano rendere la vita degna di essere vissuta al maggior numero di persone possibile ed esibendo comportamenti che siano coerenti con le riflessioni annunciate.
Un caro saluto,
Alberto

lunedì 21 ottobre 2013

Il silenzio sa parlare



Caro professore,
Quest’inverno ho letto un libro: «Bianca come il latte, rossa come il sangue». «Ogni cosa è un colore, ogni emozione è un colore. Il silenzio è bianco, una notte in bianco, gettare bandiera bianca...». Questa frase mi ha fatto riflettere. Secondo me il silenzio non è bianco, il silenzio è l’unione di tutti i colori. Perché i momenti di silenzio sono quelli in cui pensi, ed è lì che ti accorgi dei tuoi cambiamenti, ti accorgi delle tue scelte, di tutte le cose che hai detto quando non sopportavi nessuno, ed è lì che ti accorgi che il silenzio non è bianco! Il silenzio parla più di tutti gli altri colori... Perché la gente parte dal presupposto che il silenzio abbia meno valore delle parole?
Francesca (I H)

Cara Francesca,
Il silenzio comunica. Non è assenza di significato, ma moltitudine di contenuti. Il silenzio può essere bianco, se lo intendiamo simbolo di freddo distacco, ma è ricchezza di caldi colori in quanto comunica vari significati. C’è un silenzio che è vuoto relazionale e un silenzio che è pienezza. Un silenzio che segnala la mancanza di persone significative e un silenzio che è segno di vicinanza affettuosa. C’è il silenzio di chi compie frettolosamente un crimine e c’è un silenzio di chi crea armonia con gli altri. Dolore e gioia si alternano sulla scena del silenzio. Dentro l’animo umano arde talvolta un silenzio di rabbia o risplende un silenzio di mitezza e di serenità. Talvolta il silenzio allontana ed esclude, talvolta avvolge e include. È vero, spesso temiamo il silenzio e lo saturiamo con le parole, ma chi ha dimestichezza con la dimensione del silenzio sa che nella vita esso segnala spesso pienezza di relazione e non solo mancanza. Sappiamo quanto sia importante il ruolo del silenzio nella comunicazione. Il critico letterario Stuart Sim ha scritto un “Manifesto per il silenzio” (Feltrinelli 2008) in cui richiama la distinzione operata da J. Vernon Jensen  sulle  cinque funzioni che il silenzio svolge nel processo comunicativo («connettere, emozionare, rivelare, giudicare e attivare»). Egli ritiene che il silenzio possa avere un ruolo positivo o negativo: può infatti «unire o separare un gruppo», «confortare o ferire», «palesare o nascondere l'informazione», «esprimere un consenso o un disaccordo su una questione», o mettere «in atto o meno qualche forma di pensiero». Stuart Sim propone di rivalutare il ruolo essenziale del silenzio per una vita sana. Egli ritiene che la nostra società consumistica faccia abbondante uso del rumore per vendere i suoi prodotti («il business sfrutta il rumore per fini commerciali»). Per questo, secondo l’autore: «Il silenzio, quindi, può diventare un chiaro messaggio politico, il rifiuto di sottostare agli imperativi economici delle grandi imprese e delle multinazionali».
Il rapporto della parola con il silenzio è certamente un rapporto inscindibile e particolare: ci sono parole che rompono il silenzio, pronunciate appositamente per infrangerlo e parole che «penetrano nel silenzio senza romperlo». Elie Wiesel, in “Credere o non credere” scrive: «Quando la Toràh fu promulgata sul Sinai — disse Rabbi Abbahù a nome di Rabbi Yochanan — gli uccelli smisero di pigolare e gli animali di grugnire, il mare di mugghiare e i venti di soffiare. E quando Dio parlò e disse «Anokhì», le parole penetrarono nel silenzio senza romperlo». Ho sempre trovato bellissima questa frase: «parole che penetrano nel silenzio senza romperlo». Come un suono dolce che scivola dentro il respiro. Quelle parole permetteranno all’uomo di pensare. C’è dunque un silenzio come «condizione» del pensiero e uno come «reazione» emotiva. Io amo soprattutto il primo: quello che precede le parole, il requisito fondamentale per la formazione dei pensieri. Spesso si dice che la televisione impedisca il dialogo, perché interrompe le parole tra i componenti della famiglia. In realtà fa molto di più: occupando e saturando lo spazio che precede le parole, zittisce il silenzio, annulla cioè lo sfondo da cui emergono le parole e dunque solo in un secondo tempo frena le espressioni e impedisce il dialogo. Il silenzio, come dici tu, «parla più di tutti gli altri colori», perché, oltre ad essere esso stesso un colore, è ciò che permette l’affacciarsi alla vita di tutti gli altri colori.
Un caro saluto,
Alberto

lunedì 14 ottobre 2013

Il doping e il limite



Caro professore,
Le sostanze dopanti sono guardate da tutti con disprezzo, a parte da chi ne fa uso. Con questa riflessione non intendo difendere questi prodotti né consigliarli, ma c'é una cosa riguardo ad essi che considero sbagliata: il fatto che siano illegali. Questo, secondo me, non è corretto: è giusto che siano banditi dalle competizioni, perché altrimenti vincerebbe chi può permettersi le sostanze migliori, ma perché proibirli a tutti? Se una persona non è intenzionata a gareggiare, perché non può assumere queste sostanze? Magari il suo sogno è di superare i propri limiti, ma farlo per se stesso. Magari è consapevole degli effetti collaterali di questi prodotti, ma li accetta, perché confida molto nel risultato. Perché deve stare sotto al limite imposto dalla natura? Solo perché la società non vuole che lo si superi? Magari una persona ha piacere di riuscire a correre per 200 chilometri, senza però mai prendere parte a delle gare, facendolo solo per sé. Perché non deve poterlo fare?
Lorenzo, 4E

 
Caro Lorenzo,
Rileggendo il libro del sociologo francese Alain Ehrenberg, “La fatica di essere se stessi” [Einaudi 1999] ho scoperto che nel 1988 apparve in Francia una “Guida ai 300 farmaci per superare i propri limiti fisici e intellettuali”. Ehrenberg ricorda che il libro fece scandalo e che gli autori – anonimi – difendevano, in una società ormai «esasperatamente competitiva», il «diritto al doping». Sembra che oggi si accetti che l’organismo possa essere stimolato per superare i propri limiti, proprio come si ammette l’uso di ansiolitici che, diminuendo l’angoscia, rendono la persona più tranquilla e disinibita. Gli imperativi del nostro tempo sembrano essere: “superare i limiti”, “migliorare le prestazioni”, “stimolare”, “potenziare”. Ci siamo abituati a sentir parlare di farmaci che migliorano l’umore, aumentano la padronanza di sé e mitigano i traumi dell’esistenza. Ma phàrmakon è insieme rimedio e veleno. Ci siamo sbilanciati sul rimedio e abbiamo dimenticato il veleno. E qual è il limite da oltrepassare a cui si aspira? Ci sono superamenti che provocano danni irreversibili. Qualche settimana fa è morto per doping a 33 anni Daniele Seccarecci, il body-builder di Taranto che aveva il braccio più grande al mondo (55 cm). Kant, nella “Fondazione della metafisica dei costumi” (1785), scriveva: «Agisci in modo da considerare l'umanità, sia nella tua persona, sia nella persona di ogni altro, sempre come scopo, e mai come semplice mezzo». Perché avrebbe dovuto soffermarsi a spiegare cosa si deve intendere per “umanità”? È chiaro a tutti. Eppure Kant raccomanda di includere anche la “propria persona”, affinché non trattiamo gli altri come strumenti per i nostri scopi, ma neppure noi stessi. Non è morale considerare il valore del corpo solo per raggiungere dei fini. Potremmo pensare che l’onestà abbia valore solo nella relazione con gli altri. E che se non c’è competizione allora non c’è imbroglio, se non si cerca di prevalere disonestamente allora tutto è lecito e non si infrange alcuna etica. Io non credo che si faccia una cosa solo per sé. Non è per se stessi che ci si potenzia artificialmente. È per comunicare qualcosa. Allora il doping non è forse una forma di compensazione per raggiungere un obiettivo non esplicitamente dichiarato? Credo che sia necessaria una prudenza, che impone di rispettare il corpo, di farlo riposare, di nutrirlo in modo corretto, di non considerarlo solo una macchina per raggiungere degli obiettivi. C’è un superamento dei limiti che non è più affinamento di un talento, ma è “hybris”, tracotanza, incapacità di accettare la propria natura. Secondo me esprime un’inadeguatezza di fondo, un’incapacità di vivere senza dover per forza mostrare una presunta superiorità. Forse è la mancata accettazione di sé il problema sotterraneo da curare: i Greci ci hanno insegnato che per vivere bene l’uomo non deve dissipare la propria vita in una corsa disastrosa polarizzata al potenziamento, ma deve prendersi cura di sé, per evitare che le aspettative degli altri abbiano eccessivo potere su di lui. In questo senso occorre non barare: non solo con gli altri, ma neppure con se stessi. «Conosci te stesso», «Nulla di troppo», «Ottima è la misura». La saggezza degli antichi ci ricorda che, proprio nel “limite”, l’uomo può essere felice.
Un caro saluto,
Alberto

lunedì 7 ottobre 2013

Leggerissima nella danza


 
Caro professore,
La danza è ciò che mi libera la mente da ogni ansia o preoccupazione. La fatica è tanta: a lezione bisogna rimanere sempre concentrati, stringere i muscoli, cercare di stendere e alzare la gamba al massimo, anche più della ragazza dietro alla sbarra per cercare di migliorare e ricevere, raramente, i complimenti dell’insegnante. La competizione anche in un ambiente provinciale come il mio si sente, ma non è un fattore negativo, anzi: sprona e spinge ad andare oltre le proprie potenzialità e quindi a migliorare. La cosa più bella in sala è vedere che riesci a fare un passo che appena qualche lezione prima ti sembrava impossibile e dopo aver imparato la sequenza di passi iniziare a dargli quel tocco personale che distingue ognuna di noi compagne. Così quella fatica si trasforma e mi sento leggerissima, soddisfatta e non vorrei essere da nessuna altra parte.
Vanessa, VC

Cara Vanessa,
Quando penso alla danza, penso sostanzialmente a due cose: da una parte alla complessità del lavoro di preparazione, alla fatica fisica quotidiana per rendere il corpo permeabile al gesto che esprime, alla leggerezza dei movimenti, che invece di essere calcolati, stanchi e abitudinari mostrano la vitalità e le potenzialità del corpo e rimandano alle sue infinite possibilità di interpretare la vita; dall’altra, all’energia vitale e creativa che arde dentro ogni uomo che entra a contatto con la propria parte irrazionale. Nella danza è il corpo che si esprime, che riferisce se stesso, ed è per questo che sul palcoscenico essere e apparire coincidono perfettamente. In un bel libro intitolato “Il corpo” il filosofo Umberto Galimberti ci aiuta a pensare a questa meravigliosa esperienza. Egli scrive che «ogni gesto espone il senso di un simbolo che il gesto successivo già dissolve per evitare che divenga un segno, e quindi che nasca un codice». Credo che intenda dire: poiché ogni gesto fluidifica in quello successivo e non si fissa in una forma rigida, esprime autenticamente la vita nel suo divenire, impedendo che venga cristallizzata in un unico linguaggio. I movimenti del corpo non sono dunque un insieme di segni che esprimono dei significati (un codice da interpretare), ma pura espressione di se stessi. È semplicemente il corpo in movimento – in quello che accenna e rapidamente cancella – a generare il senso dell’espressione. Chi danza produce simboli che accennano a una pluralità di significati e non segni che descrivono univocamente la realtà. Chi danza crea e dissolve rapidamente ogni “segno” che vuole essere definitivamente spiegato e compreso. Così ogni traccia accennata dalla ballerina che, come te si sente «leggerissima», si sottrae all’interpretazione risolutiva, alla riduzione a schema. Essendo puro rinnovamento che «libera dall’ansia e dalla preoccupazione», in quanto scioglie ogni staticità che soffoca e immobilizza, la danza rappresenta un sintonizzarsi con il pulsare creativo della natura. Gli uomini, spesso abbandonati a atti ripetitivi o contratti in gesti abitudinari, faticano a rinnovare la vita, assuefatti più a replicare il noto che a sperimentare, più a copiare che a immaginare, più a seguire la scia ricalcando le orme degli altri che a esplorare le proprie potenzialità. La danza ammonisce pertanto che la vita evolve in incessanti e profonde metamorfosi e che la vera natura di ciascuno implica un continuo e talvolta abissale rinnovamento. Ricordo che, qualche tempo fa, su qualche maglietta estiva era riportata la frase di Nietzsche: «bisogna avere ancora un caos dentro di sé, per partorire una stella danzante». Io vi dico: voi avete ancora del caos dentro di voi». (“Così parlò Zarathustra”). Per rimanere nella metafora dell’autore, su un terreno «impoverito e addomesticato» non può crescere un «albero superbo». È forse dal quel caos meraviglioso che abita ciascuno di noi che si originano le cose più belle. In fondo, scrive Galimberti, «i nostri gesti dicono la nostra vita, dicono se è una "festa" dionisiaca o se è la "tragedia" della ripetizione, se il suo ritmo è la "danza" o il gesto economico e calcolatore». Fino a quando uno «non vuole essere da nessun’altra parte» – come te – significa che nella sua vita vibra la «festa dionisiaca» che mette a contatto ogni uomo con la propria irriducibile creatività.
Un caro saluto,
Alberto