Caro professore,
La danza è ciò che mi libera la mente da ogni ansia o
preoccupazione. La fatica è tanta: a lezione bisogna rimanere sempre
concentrati, stringere i muscoli, cercare di stendere e alzare la gamba al
massimo, anche più della ragazza dietro alla sbarra per cercare di migliorare e
ricevere, raramente, i complimenti dell’insegnante. La competizione anche in un
ambiente provinciale come il mio si sente, ma non è un fattore negativo, anzi:
sprona e spinge ad andare oltre le proprie potenzialità e quindi a migliorare.
La cosa più bella in sala è vedere che riesci a fare un passo che appena
qualche lezione prima ti sembrava impossibile e dopo aver imparato la sequenza
di passi iniziare a dargli quel tocco personale che distingue ognuna di noi
compagne. Così quella fatica si trasforma e mi sento leggerissima, soddisfatta
e non vorrei essere da nessuna altra parte.Vanessa, VC
Cara Vanessa,
Quando penso alla danza, penso
sostanzialmente a due cose: da una parte alla complessità del lavoro di
preparazione, alla fatica fisica quotidiana per rendere il corpo permeabile al
gesto che esprime, alla leggerezza dei movimenti, che invece di essere
calcolati, stanchi e abitudinari mostrano la vitalità e le potenzialità del
corpo e rimandano alle sue infinite possibilità di interpretare la vita;
dall’altra, all’energia vitale e creativa che arde dentro ogni uomo che entra a
contatto con la propria parte irrazionale. Nella danza è il corpo che si
esprime, che riferisce se stesso, ed è per questo che sul palcoscenico essere e
apparire coincidono perfettamente. In un bel libro intitolato “Il corpo”
il filosofo Umberto Galimberti ci aiuta a pensare a questa meravigliosa
esperienza. Egli scrive che «ogni gesto espone il senso di un simbolo che il
gesto successivo già dissolve per evitare che divenga un segno, e quindi che
nasca un codice». Credo che intenda dire: poiché ogni gesto fluidifica in
quello successivo e non si fissa in una forma rigida, esprime autenticamente la
vita nel suo divenire, impedendo che venga cristallizzata in un unico
linguaggio. I movimenti del corpo non sono dunque un insieme di segni che
esprimono dei significati (un codice da interpretare), ma pura espressione di
se stessi. È semplicemente il corpo in movimento – in quello che accenna e
rapidamente cancella – a generare il senso dell’espressione. Chi danza produce
simboli che accennano a una pluralità di significati e non segni che descrivono
univocamente la realtà. Chi danza crea e dissolve rapidamente ogni “segno” che
vuole essere definitivamente spiegato e compreso. Così ogni traccia accennata
dalla ballerina che, come te si sente «leggerissima», si sottrae
all’interpretazione risolutiva, alla riduzione a schema. Essendo puro
rinnovamento che «libera dall’ansia e dalla preoccupazione», in quanto
scioglie ogni staticità che soffoca e immobilizza, la danza rappresenta un
sintonizzarsi con il pulsare creativo della natura. Gli uomini, spesso
abbandonati a atti ripetitivi o contratti in gesti abitudinari, faticano a rinnovare
la vita, assuefatti più a replicare il noto che a sperimentare, più a copiare
che a immaginare, più a seguire la scia ricalcando le orme degli altri che a
esplorare le proprie potenzialità. La danza ammonisce pertanto che la vita
evolve in incessanti e profonde metamorfosi e che la vera natura di ciascuno
implica un continuo e talvolta abissale rinnovamento. Ricordo che, qualche
tempo fa, su qualche maglietta estiva era riportata la frase di Nietzsche: «bisogna
avere ancora un caos dentro di sé, per partorire una stella danzante».
Io vi dico: voi avete ancora del caos dentro di voi». (“Così parlò
Zarathustra”). Per rimanere nella metafora dell’autore, su un terreno «impoverito
e addomesticato» non può crescere un «albero superbo». È forse dal
quel caos meraviglioso che abita ciascuno di noi che si originano le cose più
belle. In fondo, scrive Galimberti, «i nostri gesti dicono la nostra vita,
dicono se è una "festa" dionisiaca o se è la "tragedia"
della ripetizione, se il suo ritmo è la "danza" o il gesto economico
e calcolatore». Fino a quando uno «non vuole essere da
nessun’altra parte» – come te – significa che nella sua vita vibra la «festa
dionisiaca» che mette a contatto ogni uomo con la propria irriducibile
creatività.Un caro saluto,
Alberto
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