Caro professore,
sono sempre stata una persona emotiva, che ha sempre
compreso la vita solo poeticamente, artisticamente, una persona per la quale i
sentimenti sono sempre stati più forti di qualsiasi ragione. Sono così assetata
di meraviglia che solo lo straordinario potere che essa ha su di me mi disarma.
Tutto ciò che non riesco a trasformare in qualcosa di straordinario lo lascio
andare. La realtà non mi impressiona, credo solamente nell'ebbrezza,
nell'estasi, e quando la vita ordinaria mi vincola fuggo, in un modo o
nell'altro. Ed è proprio per questo che non mi rispecchio in
"nessuno", a volte non riesco nemmeno a credere nella mia esistenza,
mi ricerco nei libri, nelle frasi "fatte", nelle parole degli altri.
Cartesio diceva: «cogito, ergo sum», «io penso, dunque esisto»,
dando per scontato che proprio per il fatto che pensiamo, esistiamo. Come ne
posso avere la certezza? Come posso sapere se quello che sto facendo è "vivere",
"esistere" e non sopravvivere e basta? Grazie.T., 4D
Cara T.,
La meraviglia appartiene ad ogni uomo, ma è anche il
principio della filosofia. Platone segnala questa origine quando, nel “Teeteto”,
fa dire a Socrate queste parole: «Ed è proprio del filosofo questo che tu
provi, di essere pieno di meraviglia; né altro cominciamento ha il filosofare
che questo» (“Teeteto”, 55 d). E anche Aristotele concorda: «Infatti
gli uomini hanno iniziato a filosofare, ora come in origine, a causa della
meraviglia. (“Metafisica”, I, 2, 982b, 12). La meraviglia per
l’esistenza percorre tutta la ricerca umana. È nota la frase di Kant –
contenuta nelle ultime righe della “Critica della ragion pratica, 1788”
– scolpita sulla sua tomba a Kaliningrad, in Russia: «Due cose riempiono
l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto piú
spesso e piú a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra
di me, e la legge morale in me». Il filosofo contemporaneo Ermanno
Bencivenga ricorda tuttavia che «quando la meraviglia si estingue, quelle
che abbiamo davanti sono solo le spoglie della filosofia». Potremmo dire
che – eliminando la meraviglia – si presentano a noi le spoglie della vita,
perché l’esistenza diventa gravosa routine. Per questo il filosofo invita a
mantenere vivo questo sentimento e suggerisce di «praticare giornalmente»
il rinnovamento del linguaggio, per evitare che l’avventura straordinaria del
pensiero si trasformi in un rito, in una stantia riproduzione di formule più
che in uno stimolo creativo ad osservare e a meditare. La meraviglia va
dunque coltivata, è una disposizione dell’animo che richiede dedizione. Come dici tu,
non è sufficiente avere cognizione di esistere o avere la certezza che il
pensiero sia vitale, ma abbiamo bisogno di sapere chi siamo. Non ci
accontentiamo di essere una “cosa pensante”, vogliamo comprendere se la
nostra identità è data una volta per tutte o è in continua formazione. Sentiamo
il bisogno di condividere attraverso i libri intuizioni e aforismi degli autori
per due motivi: non solo perché si adattano alla nostra natura, ma perché
rappresentano ciò che vogliamo essere. Poiché l’identità passa attraverso
l’identificazione, immedesimandoci nei pensieri degli altri componiamo un
puzzle di idee e creiamo piano piano la vita che vorremmo vivere e la persona
che vorremmo essere. La lettura delle grandi opere offre informazioni su di
noi: dalla letteratura impariamo le emozioni, dalla storia la loro dimensione
culturale e sociale, dalla filosofia acquisiamo idee e argomentazioni, dalla
poesia intuizioni sulla vita, e da ogni forma di arte manifestazioni diverse
della bellezza e possibili scenari di vita. Vogliamo tenere insieme le parti
più belle, come se apparecchiassimo la vita stessa di cose buone: impariamo a
conoscere il mondo, decifrando come il mondo è stato compreso, afferriamo le
sfaccettature dei sentimenti, se seguiamo la loro evoluzione nelle storie che
leggiamo, e scopriamo le ambivalenze della vita ascoltando la complessità delle
narrazioni. Impariamo di noi, dunque, guardando gli altri. La meraviglia ci
spinge a cercare e a rinnovare ciò che siamo. Certo c’è differenza tra “vivere”
ed “esistere”, ma si può ricondurre lo stupore anche nell’ordinario.
Invece di fuggire la vita regolare, è possibile renderla sublime. Poiché lo
stupore si genera dall’attenzione, quando l’attenzione si posa sui particolari
dell’esistenza, restituisce al quotidiano sorpresa, incanto e novità. Per avere
la certezza di “vivere” occorre dunque coltivare la meraviglia.Un caro saluto,
Alberto
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