Caro professore,
sono fidanzata con un ragazzo da alcuni anni, e ho sempre avuto a che fare con la sua famiglia. Un anno fa suo padre si è ammalato di Alzheimer. Ha soltanto 52 anni e già deve combattere contro questa malattia che inevitabilmente lo divora dentro. In un solo anno è peggiorato moltissimo. A volte entro in casa loro e lui mi sorride, e mi porge la mano per stringere la mia e salutarmi. Io lo guardo, e vedo uno sguardo diverso, commosso, e triste nel profondo. Gli occhi sono cambiati, il fisico è cambiato. E la sua memoria? Svanisce, un po’ alla volta; ogni gesto abitudinario diventa un ostacolo. In quella casa ogni problema è legato alla memoria: i parenti stanno male perché ricordano com’era, e lui sta male perché non riesce a ricordare. Io in tutto questo tempo mi sono fatta tante domande, ma quella a cui non ho mai trovato risposta è: che cosa succede nella sua testa? I medici danno tante spiegazioni, ma parlano di memoria come se fosse un termine medico. Dunque i medici ne parlano e “sanno” cosa sia, i filosofi ne hanno parlato, i cantanti ne parlano continuamente e i poeti con loro. Ma io no, io ne parlo ma non so cos’è la memoria. E vedendo suo padre mi accorgo di dover capire. Quindi mi rivolgo a lei, professore: che cos’è la memoria, in fondo? Io credo che sia come un magazzino in cui risiedono i ricordi; ma quando questo magazzino viene a mancare? Può un uomo vivere senza memoria?
Laura, 4A
Cara Laura,
L’idea che la memoria sia una sorta di “magazzino” in cui ogni uomo
preserva i propri ricordi giunge da lontano. S. Agostino, nel decimo capitolo
delle “Confessioni”, connota la memoria come una «reggia immensa»,
una «riserva di immagini e di cose». Scrive Agostino: «Quando io mi
trovo là, a mia richiesta si presenta tutto ciò che voglio; certe cose vengono
subito, certe altre si fanno cercare più a lungo e tirar fuori come da
ripostigli segreti». La memoria tuttavia non deve essere considerata un
saldo archivio di documenti o di immagini inalterabili. Non dobbiamo pensare il
passato confinato in un abisso ricoperto da una nebbia che di tanto in tanto si
assottiglia. Il passato, direbbe Henri Bergson, «ci segue, tutto intero, in
ogni istante», è la stoffa della vita, interagisce con il presente e
permette ad ogni uomo, che riconosce la propria storia, di comprendere chi è.
Non è un caso che il premio Nobel per la medicina Eric Kandel – noto per i suoi
studi sulle sinapsi della lumaca marina Aplysia – abbia detto che «io sono
quello che sono, perché mi ricordo di quello che sono stato». Là dove, a
causa della malattia, la memoria lentamente si dissolve, viene meno anche
l’identità, perché l’identità è relazione con il passato e con il futuro. Le
persone, normalmente, riprendono dal proprio passato scelte e idee, per
confermarle o per metterle in discussione e individuano un percorso nel quale
approssimativamente si riconoscono, mentre la vita del malato, non alimentata
dal passato e non pungolata dal futuro, perde il proprio sostegno. L’uomo
assiste così ad una graduale sparizione di sé. Mi viene in mente il pittore
William Utermohlen, colpito dall’Alzheimer. Quando ha scoperto la propria
malattia ha iniziato a dipingere degli autoritratti, cercando di segnalare il
venir meno della propria identità. Sulle sue tele compaiono figure sempre più
essenziali che poco per volta si dissolvono, svaporando nell’indistinto. Questo
è stato il suo modo di esprimere ciò che provava e sentiva di sé. La moglie,
Patricia Utermohlen, ha detto che «Verso la fine non riusciva nemmeno a
riconoscere i propri dipinti ... la cosa più triste». Murata nell’attimo,
senza memoria e senza rotta, la vita accoglie ciò che si presenta senza poter
dare un senso alle cose. Poiché ogni nostro gesto si nutre di significati che
prendiamo dal passato e acquista un senso grazie allo sguardo sul futuro che
indica la direzione, vivere un eterno presente è doloroso; infatti, non
riconoscendo le relazioni tra le cose si perde il loro senso. Ogni oggetto
ordinario diventa nuovo e non si lascia assimilare. Il mondo produce così solo
un flusso continuo di immagini dove un’istantanea dilegua sotto la spinta di
un’altra, senza durata. E noi sappiamo che nella conservazione e nella
continuità di quel «tempo della vita», che come una valanga « ci
segue, tutto intero», ogni uomo trova l’orientamento di sé e la bussola per
l’esistenza. È terribile vivere senza memoria, per questo il poeta e scrittore
portoghese Fernando Pessoa, ne “Il libro dell’inquietudine”, fa
pronunciare a Bernardo Soares queste parole: «Sì, quello che sono sarebbe
insopportabile se non potessi ricordare quello che sono stato». Poiché nel
malato scorre la vita ed è inaccessibile il suo senso, egli, spesso si sente
esiliato e piange «come un mendicante il silenzio chiuso di tutte le porte»
che la sua coscienza cerca – senza successo – di varcare.Un caro saluto,
Alberto
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