Caro professore,
leggendo il libro "Presenza", scritto da padre Renato Chiera, sono venuta a conoscenza di una dura realtà che, ancora oggi, colpisce il Brasile. Ho sempre pensato che il Brasile fosse una terra magnifica, dove problemi così terribili, come la violenza domestica, lo sfruttamento del lavoro, l'abuso sessuale, la prostituzione infantile, il narcotraffico e moltissimi altri, fossero ormai un vano ricordo. Ma ho capito che la gravità di questi problemi persiste ancora oggi. Leggendo alcune testimonianze di bambini e di ragazzi, spesso tra i 5 e 15 anni e a volte anche più piccoli, che avevano subito così tanta violenza sia fisica che mentale, sono rimasta senza parole. Mi sono sembrate inverosimili come se fossero frutto solo di un orribile sogno, eppure tutti quei casi sono realmente accaduti e rabbrividisco solo al pensiero che là fuori ci siano altri casi molto simili, se non peggio, a questi. Mi chiedo come può una madre maltrattare i propri figli o un padre abusare di loro? A volte, immedesimandomi troppo nella loro situazione, mi sono lasciata trasportare dalle emozioni, provando, in alcuni momenti, rabbia e a volte anche odio per coloro che hanno cercato di fare loro del male. Andando avanti nella lettura mi ha commossa un particolare episodio, che don Renato ha intitolato "Sono un cane...". Parla di una bambina, Valeria, che allora aveva solo dodici anni (a sedici anni è stata uccisa con una spranga di metallo, lasciando due figli). Un giorno chiese a don Renato: "Mi lasci dormire là nell'angolo?". "Ma là dorme il cane!" rispose il don. Ma lei ribatté dicendo: "Ma io sono un cane, è quello è il mio posto". Di fronte a questa risposta sono nuovamente rimasta senza parole. Come può una bambina di soli otto anni sentirsi trattata come un cane, se non peggio? Come può la "giustizia", invece di aiutare i bambini e capire il motivo dei loro comportamenti, picchiarli, solo perché considerati delle "fecce" (capaci solo di rubare, drogarsi e prostituirsi) dal resto della comunità? Quei ragazzi avranno pur fatto delle scelte sbagliate, ma come possono seguire la strada giusta da seguire se né la famiglia né il resto della comunità che li circonda sono dei modelli da imitare? Giordano Bruno (1548-1600), frate domenicano di Napoli, diceva che gli uomini si distinguono dalle "bestie" perché dotati di "intelletto". Grazie ad esso l'uomo avrebbe potuto capire cosa è bene e cosa è male, cosa è giusto e cosa è sbagliato. Ma di fronte a queste situazioni di "pianto e paura" dei bambini come possiamo ritenerci superiori agli animali?
Mary Jane, 4A/D
Cara Mary Jane,
James Hillman ne “Il codice dell’anima” riferisce
che il poeta inglese Robert Browning, mandato in un collegio a otto anni, si
era depresso così tanto da individuare «"il luogo di sepoltura" in
una cisterna della scuola, che aveva sul coperchio di piombo l'immagine in
rilievo di una faccia. Si figurava che quella faccia fosse il suo epitaffio e,
accarezzandola con la mano, recitava: “In memoria dell’infelice Browning"».
Abbiamo imparato da Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) e da Friedrich Fröbel
(1782-1852) una necessaria attenzione per l’infanzia e da Alice Miller
(1923-2010) i danni profondi dell’oppressione infantile. «Rabbrividire» è il
verbo giusto, perché quando si penetra nell’orrore si subisce una paralisi
dell’intelletto e della capacità di sentire e di immaginare oltre una certa
misura, perché tali facoltà sono anestetizzate da un graduale e penetrante gelo
interiore. Basta dare un’occhiata ai dati dell’Unicef («i dati della vergogna»)
per rendersi conto dell’enormità delle sofferenze (in questi giorni i
quotidiani descrivono la condizione dei bambini di frontiera sui “trenes de la
Muerte” in Salvador, Honduras e Guatemala). Le violenze sui bambini
rappresentano la forma più odiosa di violenza, perché i bambini non hanno mezzi
per difendersi non solo dalla sopraffazione fisica, ma dalle descrizioni che
vengono loro fatte dagli adulti, perché il loro vocabolario, la loro ideazione,
i loro sentimenti crescono con quelli dei genitori e in un preciso ambiente.
Chi è vissuto tra deprivazioni fisiche e nutrito di parole di esclusione e di
violenza, costruisce spesso un’immagine estremamente negativa di sé; gli
suonano dissonanti i sorrisi, perché assimila parole di rifiuto; crede di non aver
valore, perché non si sente amato; perde progressivamente fiducia nella vita e
teme persino il contatto fisico. Danilo Dolci scriveva che «un gatto che
cresce abbrancando tra i rifiuti, anche se ha bisogno di tutto non ti salta in
braccio, ma fugge via pauroso». Certo, l’uomo si distingue dagli animali
perché ha un intelletto più sviluppato, ma per diventare uomo – cioè persona
libera e dunque moralmente responsabile – non è sufficiente disporre di
un’intelligenza potenziale, è necessario che l’intelligenza si affini
nell’empatia, che l’essere umano “senta l’altro”, le sue emozioni, le sue
preoccupazioni, il suo sguardo sul mondo. Non bastano le pur necessarie e
bellissime dichiarazioni di intenti, come la “Dichiarazione dei diritti del
fanciullo” (Ginevra, 1924), la “Dichiarazione sui Diritti del Bambino”
(Onu, 1959) o la “Convenzione internazionale sui diritti dell'infanzia”
(Onu, 1989), è necessario che più persone si sentano custodi della dignità
reale di quelle vite. Serve l’aiuto degli Stati, ma sono indispensabili coloro
che, come Renato Chiera, rendono visibile a tutti che l’Umanità (l’insieme
degli uomini) ha assoluto bisogno di umanità (di relazioni di cura).Un caro saluto,
Alberto
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