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Cor-rispondenze

lunedì 29 settembre 2014

Le cose che amiamo


Caro professore,
Qualche tempo fa mi sono imbattuto in questa frase: «Sono le cose che amiamo di più che ci distruggono». Mi chiedo perché uno dei migliori sentimenti dell’uomo come l’amore possa portare con sé conseguenze così drammatiche. Perché la nostra evoluzione non ha provveduto anche a questo?
Federico, IV A

Caro Federico,
Mi hai raccontato di aver letto il libro fantasy «Il trono di spade» di George R. R. Martin, dove ad un certo punto un personaggio pronuncia questa frase: «Le cose che amiamo finiscono sempre con il distruggerci, ragazzo. Ricordalo» («The things we love destroy us every time, lad. Remember that»). È una frase potente, che si imprime nell’ideazione, perché afferma qualcosa che percepiamo come “vero” sulla natura umana: avvertiamo infatti che ciò che lega può soffocare e ciò che attrae può spingere alla fusione e produrre il dissolvimento. Sentiamo che la nostra natura è esposta al pericolo dell’autodistruzione, proprio a partire da ciò che più congiunge, ossia l’amore. L’amore muove, diceva Socrate, perché è figlio di Penia e di Poros, della mancanza e dell’espediente. L’amore è una mancanza che spinge alla ricerca. Ma la ricerca è inesauribile. Credo che ci siano almeno due specie di autodistruzione possibile provocata da un ideale. La prima ha a che fare con l’impossibilità di raggiungerlo per eccessiva lontananza, la seconda per eccessiva vicinanza. Se leggerai «I dolori del giovane Werther» di Goethe, l’opera fondamentale dello “Sturm und Drang”, scoprirai che c’è una forma di amore che si trasfigura in dolore estenuante quando il protagonista avverte l’impossibilità di raggiungere il proprio ideale. Werther ama Charlotte anche quando è fidanzata con Albert. La descrive proprio come tu descriveresti ad un amico la ragazza di cui ti sei innamorato: «Un angelo! ahi, questo ognuno lo dice della sua amata. E quindi non so come fare a dirti come lei sia perfetta, perché‚ sia perfetta: in breve lei è riuscita ad avvincere tutto il mio essere. Una grande purezza si unisce a una grande intelligenza, e la bontà e l'energia, la pace dell'animo e l'amore alla vita attiva armonizzano in lei. Tutte le cose che ti scrivo non sono che chiacchiere inutili e vane astrazioni che non esprimono nulla di quello che lei è». È una perfezione che Werther non può raggiungere. Pur riconoscendo che l’amore è il significato principale della vita («Guglielmo, che sarebbe per il nostro cuore un mondo senza amore? Quello che è una lanterna magica senza la luce. Appena tu introduci la piccola lampada, ecco apparire sulla bianca parete le più svariate immagini!»), egli comprende che il suo ideale è inarrivabile, allora la forza dell’amore non produce più uno slancio positivo, una vitalità che trasforma la vita, la motiva e la nutre di energia. Riconoscere l’impossibilità di fondersi con il proprio desiderio conduce all’autodistruzione e Werther, con un colpo di pistola, metterà fine all’impossibile unione. Scriverà, pensando a Charlotte: «Non fremo prendendo in mano il freddo, orrendo calice nel quale berrò l'ebbrezza della morte. Tu me l’hai dato, e io non esito. Così si compiono tutti i desideri e le speranze della mia vita; così batto, freddo e rigido, alla bronzea porta della morte». Ma c’è un altro tipo di autodistruzione: anche la vicinanza smisurata di Narciso conduce alla perdita. Ovidio nel terzo libro delle “Metamorfosi” racconta che Narciso, nel tentativo di abbracciare la propria immagine riflessa si affatica fino a esaurirsi («non sa chi veda, ma chi sta vedendo lo sta consumando d’amore») e muore o perché cade nell’acqua («quante volte tuffa le braccia nell’acqua per stringere il collo, il collo che vede, ma nulla stringe nell’acqua!») o perché crolla stremato nel prato («Lui lascia crollare la testa stanca sul prato; la morte chiude quegli occhi stregati dal proprio padrone»). Qui il dolore non è dato da un ostacolo fisico – «il mare infinito, un lungo cammino, montagne, mura con porte sbarrate» –, ma dall’impossibile fusione di sé con la propria immagine. Entrambe le storie parlano di autodistruzione: o perché l’immagine dell’altro è idealizzata o perché sembra raggiungibile; ma ci si dimentica che l’amore non è riduzione dell’altro al medesimo, né lontananza assoluta. È piuttosto un giusto equilibrio che mantiene la relazione e non la soffoca, una distanza che feconda e non devasta, perché l’altro, anche quando sembra vicinissimo rimane distinto rispetto a noi. La psicoanalisi direbbe che è impossibile colmare la distanza tra il soggetto e l’ideale, ossia tra il soggetto e il desiderio. L’immagine ideale, sia quella dell’altro sia quella di se stessi, è sempre inaccessibile. Potremmo dire che proprio nelle cose che amiamo di più, una persona o un lavoro, occorre saper stare in un giusto rapporto. È necessario saper «abitare la distanza» per non cadere nell’autodistruzione. L’evoluzione non ha posto rimedio a questo pericolo, forse perché ha lasciato spazio all’uomo per la libertà. Non occorre annullarsi per perseguire il proprio obiettivo, così nell’amore come nella vita: un ideale troppo elevato mozza il fiato e non permette di generare.
Un caro saluto,
Alberto

(Nella traduzione delle Metamorfosi, ho scelto la versione di Vittorio Sermonti, Rizzoli, 2014).

lunedì 22 settembre 2014

I filosofi si ascoltano?

Caro professore,
Le scrivo una domanda che mi incuriosisce molto. Tutti i filosofi che conosciamo hanno elaborato differenti teorie sull’essere, a volte partendo da zero e altre volte ispirandosi al pensiero di altri filosofi. Ma ognuno di essi considerava esatto solamente il proprio pensiero o teneva conto e rispettava anche altre idee?
Marco, IVB

 

Caro Marco,
È impressione comune, studiando la storia della filosofia sui manuali scolastici, che il filosofo appena studiato sia più significativo di quello precedente. Spesso, quando si comprendono le riflessioni raffinate di qualche autore e si ha il tempo di affiancare per un tratto di strada il suo sguardo sul mondo (ossia di valutare le argomentazioni razionali che sostengono una teoria), si ha l’impressione di assistere ad un costante parricidio, una sorta di battaglia in cui l’ultimo filosofo pugnala il proprio maestro. Come se i filosofi, inebriati esclusivamente dalle proprie intuizioni o dai propri percorsi di ricerca, fossero sordi ai grandi lavori precedenti. Forse hai avuto anche tu la percezione che il pensiero di un autore abbia completamente azzerato i presupposti di un altro sistema filosofico. Così se si mettono a confronto Aristotele con Platone, Tommaso con Agostino, Bacone con Aristotele, Spinoza con Cartesio, Kant con Hobbes e Locke, Hegel con Kant e così via. Per questo alcuni tuoi compagni chiedono spesso: «prof., qual è l’ultimo filosofo», magari per risparmiarsi un po’ di fatica e di delusioni, dovendo dolorosamente abbandonare i presupposti a cui si erano affezionati. Certo, alcuni filosofi non sono stati teneri con i precedenti: Bacone definiva Galeno un «disertore dell'esperienza», Platone uno «sfacciato cavillatore» e Aristotele un «detestabile sofista». E neppure Schopenhauer usava molto “fair play” con i suoi contemporanei: definiva Schelling «pagliaccio», diceva che Hegel «scarabocchia[va] impudentemente» e considerava la sua filosofia una «pseudofilosofia», un «mo­struoso susseguirsi di parole che si annullano e si con­traddicono». Al di là di queste spietate valutazioni, dovute a diverse scelte valoriali o a simpatie personali, occorre dire che ogni filosofo sa che la verità è inesauribile e che il proprio sguardo è limitato dal periodo storico, dagli interessi e dalla discussione del proprio tempo. Non dobbiamo pensare la storia della filosofia come se alla «volontà di verità» si sia sostituita la «volontà di potenza», come se al desiderio autentico di conoscere a fondo la vita si sia sostituito il desiderio di vincere nel prestigio e nell’influenza per una maggiore affermazione di sé. È famoso il detto di Aristotele «amicus Plato, sed magis amica veritas» («sono amico di Platone, ma più amico della verità»), ma si racconta che anche Newton, mentre prendeva appunti su Aristotele si sia fermato bruscamente e dopo aver lasciato molte pagine bianche, abbia scritto in una nuova pagina: «Amicus Plato, amicus Aristoteles magis amica veritas», («Platone è un amico, amico è anche Aristotele, ma l'amica mia più grande è la verità»). Insomma la verità è più importante dell’amicizia e della fama, del rispetto e della tradizione. Tuttavia, i filosofi dialogano tra loro incessantemente, non solo perché la vita fa emergere nuovi problemi o apre nuovi spazi alla riflessione, ma perché è proprio dalla discussione razionale che emergono le debolezze e i punti forti di un’idea. La filosofia è dialogo continuo in cui il conflitto – polemos – tra le idee è inevitabile. Se ti capita di prendere in mano la “Summa theologica” di Tommaso D’Aquino, scoprirai che per circa 600 questioni (3122 articoli!) Tommaso riporta le tesi a favore o contro dei filosofi precedenti, prima di affermare le proprie ragioni. Era il modo di lavorare della Scolastica, ossia della filosofia cristiana medievale. Ma il dialogo tra filosofi è strutturale e continua incessantemente. Più che da eccentricità individuali, le differenze dipendono da una diversa adozione di presupposti. Il filosofo analitico americano Nicholas Rescher ne “La lotta dei sistemi”, analizzando i fondamenti e le implicazioni della pluralità filosofica, ha mostrato sia che la filosofia è un’impresa conoscitiva di carattere razionale sia che la “lotta” – la pluralità filosofica – è ineliminabile. Le buone ragioni e le buone argomentazioni («ragione probativa») riflettono infatti gli obiettivi e i valori di chi scrive («ragione valutativa»). Il «pluralismo degli orientamenti» deriva dal fatto che ogni indagine è orientata da certi valori cognitivi e il disaccordo sulle dottrine dipende da una divergenza su ciò che ogni autore ritiene importante o marginale. Così, la forza di un’argomentazione non è mai assolutamente oggettiva, perché riflette scelte e valori di chi pensa e scrive. Anche quando gli autori si occupano di uno stesso problema, quando organizzano il proprio sistema stabiliscono ciò è «centrale e periferico», ossia ciò che è significativo e ciò che può passare in secondo piano. Potremmo dire, con Rescher, che «il problema dello standard con cui si deve propriamente giudicare un dato valore è esso stesso un problema di valori». Dunque: niente di personale, in filosofia.
Un caro saluto,
Alberto