Caro professore,
Le scrivo una domanda che mi incuriosisce molto. Tutti
i filosofi che conosciamo hanno elaborato differenti teorie sull’essere, a
volte partendo da zero e altre volte ispirandosi al pensiero di altri filosofi.
Ma ognuno di essi considerava esatto solamente il proprio pensiero o teneva
conto e rispettava anche altre idee?
Marco, IVB
Caro Marco,
È impressione comune, studiando la storia della filosofia
sui manuali scolastici, che il filosofo appena studiato sia più significativo
di quello precedente. Spesso, quando si comprendono le riflessioni raffinate di
qualche autore e si ha il tempo di affiancare per un tratto di strada il suo
sguardo sul mondo (ossia di valutare le argomentazioni razionali che sostengono
una teoria), si ha l’impressione di assistere ad un costante parricidio, una
sorta di battaglia in cui l’ultimo filosofo pugnala il proprio maestro. Come se
i filosofi, inebriati esclusivamente dalle proprie intuizioni o dai propri
percorsi di ricerca, fossero sordi ai grandi lavori precedenti. Forse hai avuto
anche tu la percezione che il pensiero di un autore abbia completamente
azzerato i presupposti di un altro sistema filosofico. Così se si mettono a
confronto Aristotele con Platone, Tommaso con Agostino, Bacone con Aristotele,
Spinoza con Cartesio, Kant con Hobbes e Locke, Hegel con Kant e così via. Per
questo alcuni tuoi compagni chiedono spesso: «prof., qual è l’ultimo
filosofo», magari per risparmiarsi un po’ di fatica e di delusioni, dovendo
dolorosamente abbandonare i presupposti a cui si erano affezionati. Certo,
alcuni filosofi non sono stati teneri con i precedenti: Bacone definiva Galeno
un «disertore dell'esperienza», Platone uno «sfacciato cavillatore»
e Aristotele un «detestabile sofista». E neppure Schopenhauer usava
molto “fair play” con i suoi contemporanei: definiva Schelling «pagliaccio»,
diceva che Hegel «scarabocchia[va] impudentemente» e considerava
la sua filosofia una «pseudofilosofia», un «mostruoso susseguirsi di parole che si annullano e si contraddicono». Al di là di queste spietate
valutazioni, dovute a diverse scelte valoriali o a simpatie personali, occorre
dire che ogni filosofo sa che la verità è inesauribile e che il proprio sguardo
è limitato dal periodo storico, dagli interessi e dalla discussione del proprio
tempo. Non dobbiamo pensare la storia della filosofia come se alla «volontà
di verità» si sia sostituita la «volontà di potenza», come se al
desiderio autentico di conoscere a fondo la vita si sia sostituito il desiderio
di vincere nel prestigio e nell’influenza per una maggiore affermazione di sé.
È famoso il detto di Aristotele «amicus Plato, sed magis amica veritas»
(«sono amico di Platone, ma più amico della verità»), ma si racconta che
anche Newton, mentre prendeva appunti su Aristotele si sia fermato bruscamente
e dopo aver lasciato molte pagine bianche, abbia scritto in una nuova pagina: «Amicus
Plato, amicus Aristoteles magis amica veritas», («Platone è un amico,
amico è anche Aristotele, ma l'amica mia più grande è la verità»). Insomma
la verità è più importante dell’amicizia e della fama, del rispetto e della
tradizione. Tuttavia, i filosofi dialogano tra loro incessantemente, non solo
perché la vita fa emergere nuovi problemi o apre nuovi spazi alla riflessione,
ma perché è proprio dalla discussione razionale che emergono le debolezze e i
punti forti di un’idea. La filosofia è dialogo continuo in cui il conflitto – polemos
– tra le idee è inevitabile. Se ti capita di prendere in mano la “Summa
theologica” di Tommaso D’Aquino, scoprirai che per circa 600 questioni
(3122 articoli!) Tommaso riporta le tesi a favore o contro dei filosofi
precedenti, prima di affermare le proprie ragioni. Era il modo di lavorare
della Scolastica, ossia della filosofia cristiana medievale. Ma il dialogo tra
filosofi è strutturale e continua incessantemente. Più che da eccentricità
individuali, le differenze dipendono da una diversa adozione di presupposti. Il
filosofo analitico americano Nicholas Rescher ne “La lotta dei sistemi”,
analizzando i fondamenti e le implicazioni della pluralità filosofica, ha
mostrato sia che la filosofia è un’impresa conoscitiva di carattere razionale
sia che la “lotta” – la pluralità filosofica – è ineliminabile. Le buone
ragioni e le buone argomentazioni («ragione probativa») riflettono
infatti gli obiettivi e i valori di chi scrive («ragione valutativa»).
Il «pluralismo degli orientamenti» deriva dal fatto che ogni indagine è
orientata da certi valori cognitivi e il disaccordo sulle dottrine dipende da
una divergenza su ciò che ogni autore ritiene importante o marginale. Così, la
forza di un’argomentazione non è mai assolutamente oggettiva, perché riflette
scelte e valori di chi pensa e scrive. Anche quando gli autori si occupano di
uno stesso problema, quando organizzano il proprio sistema stabiliscono ciò è
«centrale e periferico», ossia ciò che è significativo e ciò che può passare in
secondo piano. Potremmo dire, con Rescher, che «il problema dello standard
con cui si deve propriamente giudicare un dato valore è esso stesso un problema
di valori». Dunque: niente di personale, in filosofia.
Un caro saluto,
Alberto
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