Caro Alberto,
io non ti conosco e tu non mi conosci, ma se mi vedi
per strada con mio fratello sono certo che ti vengono in mente parole e
pensieri che ci riguardano, senza conoscere la nostra storia. Io ho un fratello
disabile, io lo vedo ogni giorno, ha ventitré anni, lo saluto, non risponde,
non so se ha capito o meno. Non so che emozioni prova: NESSUNO lo sa. Di
conseguenza, se io che sono una persona vedo mio fratello che sì, va bene, è
diverso, ma è pur sempre umano, ha due occhi, un naso e una bocca, perché devo
prenderlo in giro? Perché devo guardarlo male se non so cosa prova? Per
esempio, un giorno abbiamo guardato il «Re leone», ha pianto, ma non so se era
commosso o se voleva smettere... Perché la gente “pregiudica” un altro senza
sapere cosa prova? (In generale, non solo nel caso di mio fratello). Grazie.Andrea, II B
Caro Andrea,
Il pregiudizio «pregiudica»,
ossia nuoce, perché colpisce con viltà e lede la dignità di una persona. La
scelta del verbo “pregiudica” ricorda quei bellissimi lapsus di cui
parla Freud nella “Psicopatologia della vita quotidiana”. Il padre della psicoanalisi afferma che dietro
ad un lapsus c’è sempre un fondo di verità: la bambina a cui venne chiesto se
preferiva la cioccolata o i giocattoli rispose che voleva i
"cioccolattoli". La verità del suo desiderio esprimeva non
un’alternativa, ma la volontà di possederli entrambi. Così mi pare che anche
tu, “inconsciamente”, abbia rivelato una profonda realtà. Nella tua
meravigliosa e commovente testimonianza hai infatti unificato “preconcetto” e
“giudizio svalutativo” nel verbo “pregiudica” che sintetizza come
convinzioni erronee e verdetti negativi arrechino danni immensi e sofferenze
gratuite in chi li subisce. I preconcetti pregiudicano, perché compromettono
sul nascere la relazione e chi offende non si rende conto del dolore che causa
alla persona che si sente sminuita, offesa ed esclusa. Quando affermi che “non
sappiamo cosa provano” gli altri, affermi una profonda verità, ma per
scoprirlo non abbiamo solo bisogno delle parole, ma della capacità di sentire.
Un tempo questa capacità si chiamava “simpatia” e Adam Smith (Teoria
dei sentimenti morali, 1749) diceva che tutti gli uomini la possiedono,
perché è un sentimento che permette loro di sintonizzarsi con il prossimo («Siamo capaci di piangere persino per la rappresentazione
simulata di una tragedia»), mentre il filosofo
scozzese David Hume, nel secondo libro del “Trattato sulla natura umana”,
(1739-40) dedicato alle passioni, sottolineava come questa inclinazione
maturasse nelle relazioni interpersonali («alla simpatia son necessarie
delle relazioni» [...] e «diminuisce quando rescindiamo le relazioni»).
Dalla simpatia oggi si è passati all’empatia. Si tende infatti sempre
più a giudicare la maturità di un persona non tanto in base ad un’intelligenza
astratta o alla capacità di risolvere un problema, ma in base al sentimento di
empatia che prova nei confronti dei suoi simili. Nell’educazione si parla di “relazione
di cura”, nella psicologia di “intelligenza emotiva”, nella
giustizia si sottolinea l“immedesimazione”. Persino l’economista
statunitense Jeremy Rifkin ne “La civiltà dell’empatia” (2009) ritiene
che il tratto peculiare della nostra civiltà dovrà essere caratterizzato da
tale competenza. Scrive l’autore: «Se
nel mondo agricolo la coscienza era
governata dalla fede e in quello industriale dalla ragione, con la
globalizzazione e la transizione all'era
dell'informazione, si fonderà sull'empatia, ovvero sulla capacità di
immedesimarsi nello stato d'animo o nella situazione di un’altra persona». Sappiamo che l’empatia si sviluppa
nell’infanzia e si corrobora nell’adolescenza e nell’età adulta. Dipende
inizialmente dalla genetica: con la scoperta dei “neuroni specchio”, i “neuroni dell’empatia”, i biologi
hanno evidenziato la predisposizione genetica alla relazione empatica, ma poi
sono fondamentali le relazioni che i genitori sanno instaurare con i
bambini nei primi mesi di vita, un processo che John Bowlby ha definito
efficacemente come “attaccamento”. L’evoluzione empatica si alimenta anche
dei valori che una famiglia condivide, della sua visione del mondo, della
cultura a cui si abbevera. Se Rifkin ritiene che «ci stiamo rapidamente
evolvendo verso l'Homo empaticus», sappiamo quanto sia doloroso,
soprattutto per un ragazzo, essere oggetto di pregiudizi negativi e proviamo
sempre più fastidio per coloro che non sanno mettersi nei panni degli altri. Il romanticismo tedesco utilizzava la parola Einfühlung, “immedesimazione”, per segnalare la capacità di afferrare il
significato autentico di un’opera d’arte. Se tale immedesimazione è necessaria,
allora il limite alla comprensione
dell’altro non è solo un limite cognitivo, ma è un limite del sentire, dell’ “intelligenza emotiva”. Chi non ha
maturato questo costituente non sa riconoscere l’altro, lo spoglia
dell’umanità, lo considera oggetto e non soggetto. La relazione con tuo
fratello ha forgiato in te una finezza nell’avvertire le sfumature del dolore
che molti uomini non conoscono. Questa finezza ti permette di captare cosa
sente l’altro, e questo è il livello più alto dell’essere uomo. Ho pensato a
ciò che può aver avvertito tuo fratello guardando il “Re leone” e ho trovato
nel libro di Jeremy Rifkin una citazione di Carl Rogers efficace: “Quando
una persona capisce di essere sentita profondamente, i suoi occhi si riempiono
di lacrime. Io credo che, in un senso molto reale, pianga di gioia. È come se
stesse dicendo: «Grazie a Dio, qualcuno mi ascolta. Qualcuno sa cosa vuol dire
essere me»”.Un caro saluto,
Alberto
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