Sentiamo sempre più spesso ormai il bisogno di
fotografare cosa ci sta attorno. Persone, oggetti, messaggi. Vedo tutte queste
persone con queste macchine fotografiche enormi e supertecnologiche o con i
telefoni in mano pronti a scattare, ed è strano. È strano perché io mi chiedo
perché lo stiano facendo, perché sia così necessario catturare un preciso
istante della nostra vita. Perché? Ho paura che sia per non dimenticare, ma
dimenticare cosa? Collezioniamo momenti, ma io non ne capisco il motivo.
Sara, III D
Cara Sara,
L’espressione «collezioniamo
momenti» è bella ed efficace: esprime un bisogno profondo e
mette in evidenza anche alcune fragilità dell’uomo che non si accontenta
di vivere, ma vuole perpetuare la vita e moltiplicare gli istanti di felicità,
per goderli anche quando non è soddisfatto del proprio vissuto. Un po’ come
fanno le formiche prima dell’inverno, quando raccolgono le briciole per
sfamarsi nei periodi di magra, così gli uomini catturano istanti per prolungare
la rifrazione di un attimo felice. In fondo, il mondo non fa altro che
meravigliarci e le fotografie ci restituiscono la sua complessità: se il tempo
cancella rapidamente la vita, l’uomo desidera contro il tempo riaffermarla,
sottrarla al dissolvimento, per proiettare nel futuro qualche pulsazione luminosa, per riacciuffare la propria vita in un fotogramma e fondersi
nuovamente in essa. Il tempo del mondo è vertiginoso e contratto, quello della
vita è lento e disteso. Allora a volte le fotografie sono un modo per
dilatarlo, consentono all’uomo di isolare particolari, soffermarsi su dettagli o
suggeriscono nuovi pensieri. Credo che siano come parole o
elementi della sintassi della propria storia personale. Parole, perché scatti
ravvicinati esprimono ciò che il nostro analfabetismo linguistico non riesce a
descrivere né quello emotivo a evocare senza figure di supporto. Ma sono anche
lo sfondo da cui si originano nuovi discorsi che vogliamo sentire appropriati e
che senza l’ausilio di ciò che si è ancorato sulla carta o nei file non siamo
più in grado di pronunciare. La fotografia, che letteralmente è “scrittura con
la luce”, oggi serve per far “venire alla luce” il mondo, in quanto permette la
scoperta di particolari della natura e della vita. La ripresa differita di tali
frammenti fa sì che la felicità si re-innesti nella memoria e attraversi il
cuore. Per questo per gli antichi “ricordare” era un “re-cordare”, reimmettere
nel (cor) cuore. È, in fondo, la nostra piccola ricerca del tempo perduto. L’errore è che
spesso crediamo che per acciuffare la vita se ne debba riprodurre il più
possibile. E passiamo dalla selezione alla collezione. La selezione implica una
scelta, la collezione è incapacità di scegliere. La scelta è regolata da un
senso, la collezione da assenza di visione. Gli scatti che anche tu senti così
compulsivi suscitano attenzione, perché segnalano una caratteristica della
nostra epoca: invece di scendere in profondità rimaniamo in superficie
accumulando. L’accumulazione di istanti è il nuovo modo di stare al mondo:
consente di creare la propria identità e di certificare la propria storia. Così la paura di perdere il
momento che si sta vivendo o di non viverlo a sufficienza porta ad uno
sdoppiamento dello sguardo: si vive il presente con l’occhio (fotografico) che
mira più alla registrazione e alla posticipazione del vissuto che
all’identificazione completa con la vita che scorre. Abbiamo bisogno di un’eco
successiva per considerare un episodio finito. L’evento non si compie nel
momento in cui lo si vive, la sua conclusione è sempre posticipata come se esso
acquistasse un “valore aggiunto” in base alle persone che lo vedranno e lo
commenteranno. Ma il collezionismo implica la “lacuna” in una serie: di quante
fotografie abbiamo bisogno per certificare il nostro vissuto? Dieci, cento o
mille? Tendiamo a riempire i vuoti tra un fotogramma e l’altro, per
impossessarci della vita, per riprodurla integralmente. Abbiamo paura di perdere
la realtà e pensiamo affannosamente di possederla replicando le immagini di
essa. Ma la vita non è la collezione di tutti i momenti (non avremo mai il
tempo di contemplarli integralmente). Penso che un rimedio a questa corsa
forsennata dietro la duplicazione di ogni istante consista nell'adottare uno sguardo che sappia scrutare la realtà in lontananza. Lo scrittore
Claudio Magris in “Danubio” ci aiuta a considerare non solo la
dimensione orizzontale della vita, ma la sua stratificazione grazie alla
letteratura. Scrive l’autore: «Non so se qualche scrittore di fantascienza
abbia inventato una macchina fotografica spazio-temporale capace di
riprodurre, magari in ingrandimenti successivi, tutto ciò che nei secoli e nei
millenni è esistito in quella porzione di spazio inquadrata nell'obiettivo.
Come le rovine di Troia con gli strati delle nove città o una formazione
calcarea, ogni pezzo di realtà esige l'archeologo o il geologo che la decifri e
forse la letteratura non è altro che quest’archeologia della vita». La
letteratura è pertanto una fotografia di profondità che, mettendo in luce
l’archeologia della vita, consente di rallentare il tempo, di viverlo meglio e
di comprenderlo: è una fotografia che seleziona e non accumula. Per questo ci consente
di sfuggire alla tirannia dell’istante.Un caro saluto,
Alberto
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