Caro professore,
viviamo in una società dove il carattere, il grado di
studi o i propri valori sembrano essere stati superati dall’aspetto esteriore.
Tanti sono gli esempi che ci dimostrano che tale cosa è vera: i ragazzi che si
suicidano perché i compagni li prendo in giro a causa del colore della maglia
che indossano, i pregiudizi dovuti ad un abbigliamento succinto, oppure i posti
di lavoro dati solamente alle persone ordinate e ben vestite, senza considerare
il loro grado di abilità o di capacità. Proprio pensando a queste cose mi sono
più volte posta la domanda: “Perché allora, nel XXI secolo, epoca in cui ci
vantiamo di avere una mentalità aperta, siamo ancora così condizionati dalle
apparenze?”Federica, IVA
Cara Federica,
Voglio fare un elogio
dell’apparenza. Certo è vero che a volte si è giudicati ingiustamente e che la
prima impressione può essere fuorviante. Ma perché pensiamo che l’apparire
sia costantemente menzognero? In fondo esso non è sempre sinonimo di inganno o
di illusione. Se consideri la storia della filosofia forse conoscerai alcuni
autori che hanno parlato di quella questione sibillina dell’essere e degli
enti, che altro non sono che il tutto (finito o infinito che sia) e le sue
manifestazioni provvisorie nello spazio e nel tempo. Immagina la lavagna
digitale che probabilmente hai in classe e i possibili contenuti che su di essa
appaiono e scompaiono. Beh, gli antichi avevano pensato che la lavagna fosse
l’essere e che le varie immagini finite che si formano su di essa fossero gli
enti, oggetti che durano un po’ e poi si dissolvono. In questo senso l’essere
si manifesta a noi sotto forma di cose ed eventi che dileguano sotto la spinta
del tempo. Non è questione di menzogna, è che noi conosciamo a partire da ciò
che si manifesta. Insomma, i filosofi hanno dato molto valore all’apparire.
Pietro Chiodi in uno studio sull’esistenzialismo di Heidegger, per segnalare la
rilevanza di questa tematica, ci ha ricordato che la storia dell’Occidente è
stata caratterizzata da quattro contrapposizioni fondamentali: essere e
divenire, essere ed apparire, essere e pensare, essere e
dover-essere. Ma “apparire” significa prima di tutto manifestarsi, venire
alla luce, svelarsi. Non ingannare. Non è dunque l’apparire che ci deve preoccupare,
sono piuttosto le discriminazioni sociali e l’intolleranza verso la diversità a
produrre sofferenza. La filosofa italiana Barbara Carnevali, in un libro
intitolato “Le apparenze sociali. Una filosofia del prestigio” (il
Mulino, 2012), ha messo in evidenza che nell’esperienza sociale forse non ha
troppo senso mantenere il dualismo superficie/profondità, considerando che ciò
che è superficiale sia artefatto e che sotto la facciata si nasconda
l’autenticità. Scrive la filosofa: «Ciò
che sappiamo sugli altri, e ciò che gli altri sanno su di noi, si fonda
essenzialmente su apparenze». E subito chiarisce che «L'io si volge
all'altro io e instaura il legame sociale attraverso la propria apparenza. Essa
crea il legame, lo istituisce e lo rappresenta, rivelando la società come una
rete di relazioni sensibili». L’apparenza è il modo con cui andiamo
incontro agli altri, ed è il modo con cui chiediamo agli altri di reagire di
fronte ai nostri vestiti, ai nostri atteggiamenti e di entrare in relazione con
noi. Chi giudica dalle apparenze, in fondo, non fa torto a chi viene giudicato.
Spesso consideriamo chi viene osservato e valutato come un soggetto disarmato e
debole nei confronti di chi emette una sentenza, ma non è sempre così. Esibire
un vestito significa voler incontrare il mondo con una certa disposizione
d’animo. Gli altri si relazionano a noi a partire da quella modalità che si è
resa pubblica. Certo, è possibile che quella che si esibisce sia una maschera
per assumere un ruolo sociale e che il soggetto non voglia esprimersi per
quello che è. Si indossa infatti un vestito per essere più rispettati, per fare
un certo effetto o per ridurre le distanze sociali. Ma, al di là delle
intenzioni soggettive, non è possibile dissimulare completamente le proprie espressioni
e illudere a lungo i nostri interlocutori. Sono i piccoli gesti sfuggiti al
controllo che nel loro “apparire” mostrano chi siamo realmente. Prova ad
immaginare il lavoro di uno scrittore. È proprio dall’osservazione di un
microgesto, inavvertito dal soggetto, che egli cerca di individuare la personalità.
Un certo portamento, un modo di muovere le mani, uno sguardo evitato,
rivelano più di molte parole. È la superficie, ossia ciò che appare a svelare
il tratto distintivo di ognuno di noi. Umberto Galimberti in un bellissimo
libro intitolato “Il corpo” (Feltrinelli, 1983) ci ricorda che il nostro
volto non è un immagine di noi stessi, ma siamo noi stessi. Scrive il filosofo:
«Nel corpo, infatti, c'è perfetta identità tra essere e apparire, e accettare
questa identità è la prima condizione dell'equilibrio. Non esiste un pensiero
al di fuori della parola che lo esprime, perché, solo abitando il mondo della
parola, il pensiero può risvegliarsi e farsi parola. Allo stesso modo non
esiste un uomo al di fuori del suo corpo, perché il suo corpo è lui stesso
nella realizzazione della sua esistenza». Non dobbiamo essere ingenui e
pensare che l’apparire sia banale. Perché non lo è quasi mai. Sarà anche vero
che – come dice un detto popolare – “l’apparenza inganna”, ma è anche vero che
l’apparenza, soprattutto, rivela. Un caro saluto,
Alberto
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