Caro professore,
Nel corso della vita, che sia più breve o più lunga, ognuno di noi
compie delle azioni, cresce, impara, conosce, a volte in modo positivo e a volte in modo negativo. Quello
che intendo dire è che nella vita, ogni giorno, si fanno tante cose nuove, ma
poi, si muore. Perché esiste la vita se non porta a nessun risultato? Tutto ciò
che si fa durante la vita alla fine non conta niente. Forse è questo che mi
spaventa, quando sento la parola “morte”: ogni tanto penso che quello che
faccio lo faccio inutilmente, ed è vero. Magari bisogna porsi degli obiettivi,
non lo so. Tante persone si spaventano della morte, pensando che può arrivare
in qualsiasi momento, dicono che prima di morire vogliono fare certe cose,
hanno paura di perdersi degli avvenimenti ecc., ma io non capisco, quando sarai
morto non ti ricorderai di quella determinata cosa o di esserti perso
qualcos’altro! Quindi non capisco, perché questo attaccamento?Gloria, IA
Cara Gloria,
Internet abbonda di siti dal titolo
«100 luoghi da visitare» o «100 cose da fare prima di morire». Nei
contenuti analitici i vari autori cercano di condensare ciò che ritengono sia
il valore della vita e di giustificarne i pregi; tentano pertanto di fornire una
guida rapida alle bellezze da non perdere e alle attività che possono dare
senso ai giorni. E se si fa una ricerca per immagini affiorano luoghi meravigliosi
che il nostro sguardo non si stanca di contemplare. Forse siamo una specie un
po’ meno stoica e più hollywoodiana e per essere certi di aver vissuto dobbiamo
archiviare nella memoria delle immagini e redigere delle liste confidenziali nelle
quali compaiono attività personalissime o oggetti imprescindibili. Forse
ricorderai la ragazza neozelandese di 21 anni, Vivian Waller, affetta da un
tumore ai polmoni, che nel gennaio 2015 aveva compilato una lista dei desideri,
nella quale emergevano questi propositi: sposarsi, festeggiare il proprio
compleanno e quello della figlia e conoscere Robin Williams. L’attore, comprensivo
e sollecito, le inviò un augurio in un video messaggio. Oppure la malata
terminale olandese che espresse il suo ultimo desiderio alla Stichting
Ambulance Wens (Fondazione Ambulanza dei Desideri): «Portatemi a vedere il museo di Rembrandt», il Rijksmuseum di Amsterdam.
Quando si avvicina la morte facciamo un rapido esame di noi stessi, come un
attore che sa che tra pochi minuti entrerà in scena. Deve organizzare il tempo
residuo: ripassare il copione, esaminare il vestito, guardarsi allo specchio,
avere l’idea che tutto sia a posto. Anche gli uomini devono coordinare il tempo
che precede la morte che, per quanto marginale, è ancora sempre parte significativa
della vita. E non è un caso che l’approssimarsi della morte risvegli un più
intenso attaccamento ad essa. C’è una maggiore consapevolezza di ciò che si
lascia e si avverte una doppia sconfitta: quella che abbatterà il corpo e
quella che dissolverà ogni progetto. L’azzeramento di un disegno di vita o di
un proposito relazionale è più doloroso dell’annullamento della vita stessa.
Perché se è già difficile accettare la morte, è meno doloroso accettarla se la
vita ci concede il tempo di realizzarci in qualche dimensione. Di fronte alla
morte ci si può disporre in alcuni modi: c’è chi si prepara come uomo di fede,
sperando di essere accolto in un altro piano dell’essere e si affida a Dio, e
chi come uno stoico non chiede più tempo alla vita e accetta la propria misura finita
senza recriminare nulla. L’imperatore Marco Aurelio (II sec. d. C.) nei suoi “Ricordi” scriveva infatti: «Dunque quest’attimo bisogna passarlo secondo
natura e andarcene tranquillamente, come l’oliva, giunta a maturazione,
benedice, nel cadere, la terra che l’ha prodotta e ringrazia l’albero che l’ha
generata». Ma poiché non è facile
essere sazi di vita e non a tutti, come nei casi delle malattie terminali, sono
concessi tempi adeguati per maturare e benedire la terra, c’è anche chi ritiene
di doversi congedare in altra forma. Certo, hai ragione, c’è qualcosa di
irrazionale in certe richieste, soprattutto se sostenute dall’idea che il
valore della vita consista nell’immagazzinare attimi impossibili da traghettare.
Allora perché questo istintivo tentativo di fare provviste di eventi? L’idea
che mi sono fatto è che ciò che fa accettare l’implosione della vita è la condivisione
della sua pienezza e che la vera cura dell’uomo di fronte all’assurdo non è la
medicina, ma il senso che egli dà alla vita. In Italia è popolare il detto
attribuito a Goethe «vedi Napoli e poi
muori», vedi qualcosa di bellissimo o fai un’esperienza importante e poi
puoi anche congedarti dal banchetto della vita sazio, come diceva Lucrezio.
Purtroppo, non tutti si alzano appagati,
ma la bellezza che si contempla o il bene che si riceve consentono di accettare
più facilmente l’uscita di scena. Gli occhi che hanno avvertito la bellezza di
un’opera d’arte o della natura e hanno fatto esperienza del bene che ne deriva o
che scaturisce da una relazione affettiva si possono chiudere. Contemplare i
lavori di Rembrandt significa partecipare alla meraviglia dell’avventura umana,
che è insieme di complessità e fragilità. Non perché si portino quelle immagini
da qualche parte, ma perché la pienezza di quegli attimi ci
ricorda che abbiamo preso parte all’impresa dell’uomo. Il mistero di ciò che è
umano si avverte anche nella sconfitta. Ma è avventura del pensiero e non nel “bios” che si arrende. Un caro saluto,
Alberto
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