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Cor-rispondenze

lunedì 28 settembre 2015

Attaccamento alla vita

memoria trapianto

Caro professore,
Nel corso della vita, che sia più breve o più lunga, ognuno di noi compie delle azioni, cresce, impara, conosce, a volte in modo  positivo e a volte in modo negativo. Quello che intendo dire è che nella vita, ogni giorno, si fanno tante cose nuove, ma poi, si muore. Perché esiste la vita se non porta a nessun risultato? Tutto ciò che si fa durante la vita alla fine non conta niente. Forse è questo che mi spaventa, quando sento la parola “morte”: ogni tanto penso che quello che faccio lo faccio inutilmente, ed è vero. Magari bisogna porsi degli obiettivi, non lo so. Tante persone si spaventano della morte, pensando che può arrivare in qualsiasi momento, dicono che prima di morire vogliono fare certe cose, hanno paura di perdersi degli avvenimenti ecc., ma io non capisco, quando sarai morto non ti ricorderai di quella determinata cosa o di esserti perso qualcos’altro! Quindi non capisco, perché questo attaccamento?
Gloria, IA
 

Cara Gloria,
Internet abbonda di siti dal titolo «100 luoghi da visitare» o «100 cose da fare prima di morire». Nei contenuti analitici i vari autori cercano di condensare ciò che ritengono sia il valore della vita e di giustificarne i pregi; tentano pertanto di fornire una guida rapida alle bellezze da non perdere e alle attività che possono dare senso ai giorni. E se si fa una ricerca per immagini affiorano luoghi meravigliosi che il nostro sguardo non si stanca di contemplare. Forse siamo una specie un po’ meno stoica e più hollywoodiana e per essere certi di aver vissuto dobbiamo archiviare nella memoria delle immagini e redigere delle liste confidenziali nelle quali compaiono attività personalissime o oggetti imprescindibili. Forse ricorderai la ragazza neozelandese di 21 anni, Vivian Waller, affetta da un tumore ai polmoni, che nel gennaio 2015 aveva compilato una lista dei desideri, nella quale emergevano questi propositi: sposarsi, festeggiare il proprio compleanno e quello della figlia e conoscere Robin Williams. L’attore, comprensivo e sollecito, le inviò un augurio in un video messaggio. Oppure la malata terminale olandese che espresse il suo ultimo desiderio alla Stichting Ambulance Wens (Fondazione Ambulanza dei Desideri): «Portatemi a vedere il museo di Rembrandt», il Rijksmuseum di Amsterdam. Quando si avvicina la morte facciamo un rapido esame di noi stessi, come un attore che sa che tra pochi minuti entrerà in scena. Deve organizzare il tempo residuo: ripassare il copione, esaminare il vestito, guardarsi allo specchio, avere l’idea che tutto sia a posto. Anche gli uomini devono coordinare il tempo che precede la morte che, per quanto marginale, è ancora sempre parte significativa della vita. E non è un caso che l’approssimarsi della morte risvegli un più intenso attaccamento ad essa. C’è una maggiore consapevolezza di ciò che si lascia e si avverte una doppia sconfitta: quella che abbatterà il corpo e quella che dissolverà ogni progetto. L’azzeramento di un disegno di vita o di un proposito relazionale è più doloroso dell’annullamento della vita stessa. Perché se è già difficile accettare la morte, è meno doloroso accettarla se la vita ci concede il tempo di realizzarci in qualche dimensione. Di fronte alla morte ci si può disporre in alcuni modi: c’è chi si prepara come uomo di fede, sperando di essere accolto in un altro piano dell’essere e si affida a Dio, e chi come uno stoico non chiede più tempo alla vita e accetta la propria misura finita senza recriminare nulla. L’imperatore Marco Aurelio (II sec. d. C.) nei suoi “Ricordi” scriveva infatti: «Dunque quest’attimo bisogna passarlo secondo natura e andarcene tranquillamente, come l’oliva, giunta a maturazione, benedice, nel cadere, la terra che l’ha prodotta e ringrazia l’albero che l’ha generata».  Ma poiché non è facile essere sazi di vita e non a tutti, come nei casi delle malattie terminali, sono concessi tempi adeguati per maturare e benedire la terra, c’è anche chi ritiene di doversi congedare in altra forma. Certo, hai ragione, c’è qualcosa di irrazionale in certe richieste, soprattutto se sostenute dall’idea che il valore della vita consista nell’immagazzinare attimi impossibili da traghettare. Allora perché questo istintivo tentativo di fare provviste di eventi? L’idea che mi sono fatto è che ciò che fa accettare l’implosione della vita è la condivisione della sua pienezza e che la vera cura dell’uomo di fronte all’assurdo non è la medicina, ma il senso che egli dà alla vita. In Italia è popolare il detto attribuito a Goethe «vedi Napoli e poi muori», vedi qualcosa di bellissimo o fai un’esperienza importante e poi puoi anche congedarti dal banchetto della vita sazio, come diceva Lucrezio. Purtroppo,  non tutti si alzano appagati, ma la bellezza che si contempla o il bene che si riceve consentono di accettare più facilmente l’uscita di scena. Gli occhi che hanno avvertito la bellezza di un’opera d’arte o della natura e hanno fatto esperienza del bene che ne deriva o che scaturisce da una relazione affettiva si possono chiudere. Contemplare i lavori di Rembrandt significa partecipare alla meraviglia dell’avventura umana, che è insieme di complessità e fragilità. Non perché si portino quelle immagini da qualche parte, ma perché la pienezza di quegli attimi ci ricorda che abbiamo preso parte all’impresa dell’uomo. Il mistero di ciò che è umano si avverte anche nella sconfitta. Ma è avventura del pensiero e non nel “bios” che si arrende.
Un caro saluto,
Alberto

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