Caro professore,
l’altro giorno ero in giro per
Alba insieme ad una mia amica ed abbiamo notato una ragazza di 16/17 anni
seduta in un bar con una sua coetanea. Entrambe avevano il cellulare in mano e
non si guardavano. Ogni tanto una faceva vedere all’altra qualcosa sul cellulare,
l’altra commentava distrattamente senza soffermarsi a guardare l’amica. Quasi
non volevo crederci, a mio parere per passare del tempo così è meglio stare a
casa o uscire con altre persone, ma invece avevo già visto la stessa scena con
le stesse persone altre volte. Quando esco con le mie amiche io non vedo l’ora
di raccontare loro cosa è cambiato da quando ci siamo viste l’ultima volta, di
ridere e scherzare con loro, ma a quanto pare non per tutti è così. Detto
questo, secondo me i cellulari andrebbero lasciati in una borsa quando si esce
con gli amici, per evitare di annoiare e di annoiarsi, facendo così si potrebbe
(a mio parere) recuperare il tempo non passato insieme agli amici al fine di
non distruggere i legami. Lei cosa ne pensa? Anche secondo lei non ha un senso
essere “amici” in rete o su whatsapp
se poi non ci si parla faccia a faccia?Marta, IC
Cara Marta,
Il filosofo tedesco Martin
Heidegger nell’opera “Essere e tempo”
(vedi il § 35) ha preso in considerazione anche le più elementari modalità
relazionali e ha affermato che la “chiacchiera”
– che pure secondo l’autore connoterebbe l’«esistenza
inautentica» – «non ha alcun
significato spregiativo». Anzi, ha sostenuto che essa deve essere
considerata un «fenomeno positivo»,
poiché è il modo di essere della comprensione e della quotidianità dell’uomo (Esserci). Ma dalla tua descrizione pare
che qui siamo un passo indietro persino rispetto alla chiacchiera, quindi,
secondo l’autore, a mille anni luce dall’autenticità dell’esistenza. Ma lasciamo
Heidegger. La volubilità dell’attenzione interpersonale è spesso segno della superficialità
delle relazioni e la progressiva perdita dell’interesse connota la frivolezza del
rapporto. Le amiche che descrivi sembra che assimilino il mondo confinate nel loro
mutismo. La scena che hai visto ripetersi più volte tra le due compagne
rappresenta una modalità passiva della relazione: è un ricevere il mondo senza
elaborarlo. Forse è dovuta a un momento di stanchezza reciproca, ma se fosse
una condizione abituale di un’esile amicizia (come tu affermi) in cui entrambe le
ragazze sono spettatrici distratte e non protagoniste della propria vita allora
il loro legame rivelerebbe una grande povertà cognitiva, affettiva e
relazionale. Pare che non abbiano nulla da raccontare, ma soprattutto nulla da
dir-si ossia da “dire di sé”. E dire di sé significa rivelarsi all’altro,
manifestare la propria modalità di guardare il mondo, di accoglierlo e di
relazionarsi ad esso, di entusiasmarsi o di respingerne alcuni elementi, di prendere
parte alla vita affettiva, sociale e anche politica. Nel dialogo (ad alta voce
o interiore) si origina la comprensione che è sempre un’interpretazione di ciò
che accade. Insieme agli amici si condivide e si decodifica la realtà, se ne fa
una continua esegesi: un’esegesi che spesso parte da sé, si amplia a cerchi
concentrici a ciò che accade intorno per poi ritornare a comprendere meglio se
stessi e la propria relazione con il mondo. Gli amici bramano «recuperare il tempo non passato insieme»,
perché pretendono di sentire vivo il legame e la condizione per avvertire
l’intensità di un rapporto è quella di alimentarlo con le parole e con i
sentimenti. Il venir meno dell’attenzione interpersonale è tuttavia un segnale da
non sottovalutare e il filosofo tedesco Wilhelm Schmid ne «L’amicizia per se stessi. Cura di sé e arte di vivere» (Fazi editore,
2012) ci aiuta a capire perché. Egli scrive infatti che «Così come l'io che impara a fare a meno dell'attenzione da parte di
altri si sente misconosciuto, allo stesso modo, a causa della mancanza di
attenzione verso se stesso, l'io smette di riconoscersi». Le due forme di insufficienza
di attenzione citate dal Schmid sono davvero nocive, da un parte perché il
venir meno dell’interesse dell’altro produce frustrazione. Se non avvertiamo di
essere importanti per qualcuno se non veniamo convocati neppure dallo sguardo
di un amico rischiamo di rintanarci piano piano nel silenzio dell’apatia e dell’indifferenza
fino a scomparire. Ma c’è una seconda carenza di attenzione altrettanto deleteria,
ed è quella verso se stessi, perché segnala che un soggetto ha rinunciato a
prendersi cura di sé («L’io smette di
riconoscersi»). È la relazione con gli amici che attiva tutta la persona,
la sua creatività, i suoi ricordi, i suoi progetti. Se ci abituiamo a fare a
meno dell’attenzione degli altri rischiamo di perdere fiducia nella nostra
capacità di suscitare l’interesse o persino di essere degni di attenzione e inconsciamente
accettiamo che la nostra vita non sia così importante cessando di coltivare ciò
che è essenziale per noi. La faccia (dal latino facies, ossia dal verbo facio,
fare) è la parte del corpo che più si modella nella relazione. I volti che non
si guardano rimangono impermeabili e piano piano appassiscono nella solitudine.
Molti tuoi compagni soffrono, ma non sanno
riconoscere le cause del proprio malessere. Dobbiamo pertanto reimparare a tenere
le cose al proprio posto: il cellulare in tasca e gli occhi negli occhi
dell’altro, perché solo così il nostro volto e la nostra vita riprendono forma.Un caro saluto,
Alberto
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