Caro professore,
Si può raccontare il dolore profondo? Non si rischia di trasmettere
questo dolore alla persona a cui lo si racconta? Ovvero, non è troppo
“doloroso” per essere raccontato? Certo, ognuno ha la propria concezione del dolore,
ma il dolore morale-psicologico non è forse quello che non può essere
raccontato? O forse è addirittura troppo complesso parlarne?Giovanni, 3I
Caro Giovanni,
I bambini piccoli non hanno le
parole per raccontare il dolore e sono sovrastati dal male. Gli adulti hanno le
parole, ma ci sono dolori che eccedono le parole. Qualche anno fa, durante gli
esami di Stato a Casale Monferrato, ho conosciuto una studentessa che aveva
tradotto dal farsi un libro che raccontava la vita di una donna iraniana. Il
libro si intitola “Quello che mi spetta”
(Garzanti). Al termine degli esami ho immediatamente comprato il libro, l’ho
letto avidamente e dopo l’estate ho invitato la ragazza a raccontare quella vicenda
ai suoi coetanei in alcune assemblee di istituto. Ho ripreso quell'opera, perché narra
le sofferenze di una donna vissuta in una cultura che le ha sottratto la
libertà e ho ritrovato in quella storia molti volti di un dolore profondo e
silenzioso. Dopo la perdita del fratello Ahmad, la giovane protagonista piange
per una settimana, ma poi si accorge del modo insolito di manifestare la
disperazione di uno dei suoi figli, Siamak:
«Non versava una lacrima, ed era come
una bomba pronta a scoppiare». Anche
la nonna era delusa, perché il bimbo non aveva pianto neppure alla sepoltura
del nonno, ma la mamma comprende invece che il bambino si sente così male «da
nascondere il proprio dolore anche a sé stesso». Così un giorno lascia il
figlio più piccolo da un’amica e va alla tomba del padre. Scrive l’autrice: «restammo lì, immobili e silenziosi, per
qualche minuto, mentre lui cercava di estraniarsi da tutto, volando lontano con
la mente ed evitando il mio sguardo. Lo feci sedere accanto a me e gli parlai
dei miei ricordi di mio padre, dei suoi pregi e difetti, del suo amore per noi,
e continuai finché le sue lacrime diedero finalmente sfogo a tutto il dolore
represso. Quando Masuud [il figlio più piccolo] tornò a casa, Siamak piangeva ancora, e piansero insieme. Lasciai che
si sfogassero senza intervenire: dovevano tirare fuori la sofferenza che
attanagliava i loro piccoli cuori». Elie Wiesel, lo scrittore di origine
ebraica sopravvissuto alla Shoah e premio Nobel per la pace nel 1986, per circa
dieci anni dopo la guerra non scrive nulla e non racconta la propria esperienza.
Pubblica “La notte”, il primo libro in
cui narra l’orrore, solo nel 1958. Per dieci anni porta dunque dentro di sé un male
che non può essere definito né circoscritto dalla parola, e forse neppure condiviso.
Qualche anno dopo con Jorge Semprún, un altro scrittore sopravvissuto ai campi
di concentramento, pubblica il libro “Tacere
è impossibile” (Guanda, 1996). Si tratta di un dialogo sull'opportunità o
meno di raccontare le drammatiche vicende vissute. Ad un certo punto i
due autori scrivono: «J.s.: Qualche volta
si scrive, non sempre. Non scriviamo solamente di questo, né tu né io, e
scriviamo sapendo che ci sono cose che non sono... E.W.: ... che non possono
essere dette. J.s.: Non si può dire tutto. Non si può far immaginare, far
capire tutto. È chiaro che è impossibile. E.W.: Tacere è proibito, parlare è
impossibile». Parlare è impossibile, perché nessuna parola può rendere il
male radicale, ma tacere è impossibile, perché c’è un dovere morale di far
conoscere e di testimoniare. Come vedi, il male subìto richiede tempo e anche
gli adulti fanno fatica ad affidarlo alle parole. I bambini possono essere
sopraffatti dal dolore, quello di una violenza subita, della perdita di un
famigliare o di una persona cara, ma ci sono forme di dolore che ammutoliscono
anche gli adulti. Tuttavia le persone piangono anche per una storia raccontata
in un libro o all’uscita del cinema dopo aver visto un film: si identificano nella
vita di un altro, anche di uno sconosciuto, perché sentono che il dolore non
appartiene solo alla persona che soffre, ma un po’ a tutti. Sì, il dolore – come
la gioia – si trasmette all’altro, per questo bisogna saper scegliere le
persone a cui lo si può affidare e che sono in grado di accoglierlo. Quando ascoltiamo
le confidenze di qualcuno non eliminiamo definitivamente la sua afflizione, ma nell’atto
della condivisione mostriamo che il suo dolore non ci è estraneo e
ci riguarda. E poiché il dialogo interpersonale è terapeutico, ci sono dolori
che certamente si attenuano nella relazione. C’è un dolore, per così dire, ordinario,
quello che ci accomuna nelle esperienze della vita, piccoli mali, minime
disfatte, che siamo soliti raccontare perché non ci sovrasta; ma c’è un dolore più
profondo che eccede la comprensione e le categorie con cui cerchiamo di
razionalizzare la vita. È questo dolore che trascende la nostra capacità di arginarlo
razionalmente ed emotivamente che è difficile da raccontare. Però è importante
comprendere che ogni uomo è sempre più del proprio dolore, e pertanto non si deve
indentificare con esso. Se nella vita trasmettiamo la nostra gioia, dobbiamo anche
avere il coraggio o, come dici tu, accettare il "rischio"di comunicare il dolore. Fa anch’esso parte della vita. Imparando
ad accogliere il dolore dell’altro diventiamo più umani in quanto avvertiamo la
natura effimera che ci costituisce.Un caro saluto,
Alberto
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