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Cor-rispondenze

lunedì 18 settembre 2017

La saggezza

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Caro professore,
A che età si diventa saggi?
Federico Tommaso, 3H

Caro Federico Tommaso,
Sono contento che tu ambisca alla saggezza e non solo a incrementare le tue competenze ora che hai iniziato un nuovo anno scolastico. È un’aspirazione alta. Significa che riconosci che la saggezza vale più delle abilità conseguite in uno specifico settore lavorativo. Il saggio, direbbero gli antichi, è colui che ha senno: che giudica con oculatezza dopo aver ponderato bene una causa, che ascolta con attenzione senza trascurare i particolari, che valuta con prudenza calcolando le conseguenze delle proprie azioni, che rispetta l’altro e sa discernere in una matassa intricata la soluzione più ragionevole. Non giudica quindi in modo viscerale, ma presta ascolto alla complessità della vita. Poiché il saggio si sa muovere a suo agio nelle difficoltà e non si lascia sopraffare dagli eventi, sa essere felice. Gli uomini aspirano dunque alla saggezza perché sanno che da essa discende una vita buona. C’è un’età per diventare saggi? Un tempo il saggio era considerato l’anziano, perché attraverso l’esperienza aveva affinato la capacità di discernere. Ma la saggezza non appartiene necessariamente ad una età precisa. Ascoltando le parole essenziali dei bambini, riconosciamo la verità del loro discorso; dialogando con i ragazzi scopriamo che spesso hanno paradigmi interpretativi e emotivi meno rigidi di quelli degli adulti. William Shakespeare nella tragedia “Timone di Atene” mette in bocca ad un soldato questa descrizione del suo generale: «Giovane d'anni, ma vecchio di senno». Capacità di discernimento e ragionevolezza devono necessariamente appartenere ad un giovane chiamato a guidare altri giovani in battaglia. Non di rado incontriamo persone «giovani d’anni» che definiamo mature o viceversa adulti dissennati e farneticanti. Spesso, tuttavia, sono gli adulti o gli anziani ad essere saggi, perché solo chi conosce le contraddizioni e le ambivalenze che abitano in ogni uomo può dare giusto peso ai vari problemi. La nostra tradizione occidentale, che è formata dalla cultura greca e da quella cristiana, ci ha fornito due idee di saggezza. La tradizione greca ha affidato la ricerca della saggezza alla filosofia. Epicuro (IV sec. a. C.) diceva che nessuno è troppo giovane o troppo vecchio per chiedere di diventare saggio e riferisce che l’anziano, possedendo i beni in modo saldo nella sua memoria, ha un vantaggio sul giovane: è più felice. Scrive Epicuro: «Non il giovane è felice, ma il vecchio che ha vissuto bene; il giovane infatti, nel fiore dell'età, è spesso, per la sua mutevolezza di opinioni, facile bersaglio della sorte, mentre il vecchio è approdato alla sua vecchiaia come ad un porto, e quei beni che prima aveva sperato dubbiosamente li possiede ora racchiusi nella sicura gioia del ricordo» (“Sentenze vaticane”, 17). La tradizione cristiana offre una nuova idea di saggezza, che non si fonda solo sull’autonomia della ragione, ma ha bisogno del divino. Negli Opuscoli teologico-spirituali Tommaso d’Aquino (XIII sec.) ricorda che uno dei doni dello Spirito Santo è “la scienza”. Quest’ultima deve essere intesa come la sapienza che insegna a vivere bene. L’azione dello Spirito Santo, spiega Tommaso, non solo «rende l'uomo riverente e affezionato nei confronti di Dio, ma lo fa diventare saggio». È la saggezza che il re Davide ha chiesto a Dio. È la saggezza del re Salomone. Per il Cristianesimo saggio è dunque l’uomo che non si considera autosufficiente e che non si affida esclusivamente alla propria ragione ma rimane aperto alla voce di Dio. Bene: ma come si riconosce la saggezza? Nel 1859 il filosofo inglese John Stuart Mill nel Saggio sulla libertà, ha proposto questa soluzione: «Consideriamo una persona il cui giudizio sia veramente degno di fiducia: come lo è diventato? Perché si è mantenuto aperto alle critiche riguardanti le sue opinioni e  la sua condotta. Perché si è imposto come prassi costante di ascoltare tutto ciò che potesse venire detto contro di lui; di metterne a profitto quanto fosse giusto, e di chiarire, a se stesso  e se necessario ad altri, l'erroneità di quanto fosse erroneo. Perché ha intuito che il solo  modo in cui un uomo può in una certa misura avvicinarsi alla conoscenza complessiva di un argomento è ascoltando ciò che ne dicono persone di ogni opinione, e studiando tutte le  modalità secondo cui può essere considerato da ogni punto di vista». Per diventare saggi bisogna «imporsi come prassi costante» l’ascolto dell’altro. Senza comprendere le ragioni degli altri, senza entrare in empatia con i nostri simili, si corre il rischio di diventare sostenitori faziosi di un’idea o di un’altra. L’equilibrio non si raggiunge una volta per sempre; va cercato anche quando si è sottoposti a forze contrastanti e implica pertanto un continuo assestamento della propria interpretazione e del proprio giudizio. Diventare saggi, allora, non è un traguardo a cui si perviene in un anno stabilito. È il compito di una vita intera.
Un caro saluto,

Alberto

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