Caro professore,
A che età si diventa
saggi?
Federico Tommaso, 3H
Caro Federico Tommaso,
Sono contento che tu ambisca alla saggezza e non solo a incrementare
le tue competenze ora che hai iniziato un nuovo anno scolastico. È un’aspirazione
alta. Significa che riconosci che la saggezza vale più delle abilità conseguite
in uno specifico settore lavorativo. Il saggio, direbbero gli antichi, è colui
che ha senno: che giudica con oculatezza dopo aver ponderato bene una causa,
che ascolta con attenzione senza trascurare i particolari, che valuta con
prudenza calcolando le conseguenze delle proprie azioni, che rispetta l’altro e
sa discernere in una matassa intricata la soluzione più ragionevole. Non
giudica quindi in modo viscerale, ma presta ascolto alla complessità della
vita. Poiché il saggio si sa muovere a suo agio nelle difficoltà e non si
lascia sopraffare dagli eventi, sa essere felice. Gli uomini aspirano dunque alla
saggezza perché sanno che da essa discende una vita buona. C’è un’età per
diventare saggi? Un tempo il saggio era considerato l’anziano, perché attraverso
l’esperienza aveva affinato la capacità di discernere. Ma la saggezza non appartiene
necessariamente ad una età precisa. Ascoltando le parole essenziali dei bambini,
riconosciamo la verità del loro
discorso; dialogando con i ragazzi scopriamo che spesso hanno paradigmi interpretativi
e emotivi meno rigidi di quelli degli adulti. William Shakespeare nella
tragedia “Timone di Atene” mette in
bocca ad un soldato questa descrizione del suo generale: «Giovane d'anni, ma vecchio di senno». Capacità di discernimento e
ragionevolezza devono necessariamente appartenere ad un giovane chiamato a
guidare altri giovani in battaglia. Non di rado incontriamo persone «giovani d’anni» che definiamo mature o viceversa
adulti dissennati e farneticanti. Spesso, tuttavia, sono gli adulti o gli
anziani ad essere saggi, perché solo chi conosce le contraddizioni e le
ambivalenze che abitano in ogni uomo può dare giusto peso ai vari problemi. La
nostra tradizione occidentale, che è formata dalla cultura greca e da quella
cristiana, ci ha fornito due idee di saggezza. La tradizione greca ha affidato
la ricerca della saggezza alla filosofia. Epicuro (IV sec. a. C.) diceva che
nessuno è troppo giovane o troppo vecchio per chiedere di diventare saggio e riferisce
che l’anziano, possedendo i beni in modo saldo nella sua memoria, ha un
vantaggio sul giovane: è più felice. Scrive Epicuro: «Non il giovane è felice, ma il vecchio che ha vissuto bene; il giovane
infatti, nel fiore dell'età, è spesso, per la sua mutevolezza di opinioni,
facile bersaglio della sorte, mentre il vecchio è approdato alla sua vecchiaia
come ad un porto, e quei beni che prima aveva sperato dubbiosamente li possiede
ora racchiusi nella sicura gioia del ricordo» (“Sentenze vaticane”, 17). La tradizione cristiana offre una nuova
idea di saggezza, che non si fonda solo sull’autonomia della ragione, ma ha
bisogno del divino. Negli Opuscoli
teologico-spirituali Tommaso d’Aquino (XIII sec.) ricorda che uno dei doni
dello Spirito Santo è “la scienza”. Quest’ultima deve essere intesa come la
sapienza che insegna a vivere bene. L’azione dello Spirito Santo, spiega
Tommaso, non solo «rende l'uomo riverente
e affezionato nei confronti di Dio, ma lo fa diventare saggio». È la
saggezza che il re Davide ha chiesto a Dio. È la saggezza del re Salomone. Per
il Cristianesimo saggio è dunque l’uomo che non si considera autosufficiente e che
non si affida esclusivamente alla propria ragione ma rimane aperto alla voce di
Dio. Bene: ma come si riconosce la saggezza? Nel 1859 il filosofo inglese John
Stuart Mill nel Saggio sulla libertà,
ha proposto questa soluzione: «Consideriamo
una persona il cui giudizio sia veramente degno di fiducia: come lo è
diventato? Perché si è mantenuto aperto alle critiche riguardanti le sue
opinioni e la sua condotta. Perché si è
imposto come prassi costante di ascoltare tutto ciò che potesse venire detto
contro di lui; di metterne a profitto quanto fosse giusto, e di chiarire, a se
stesso e se necessario ad altri,
l'erroneità di quanto fosse erroneo. Perché ha intuito che il solo modo in cui un uomo può in una certa misura
avvicinarsi alla conoscenza complessiva di un argomento è ascoltando ciò che ne
dicono persone di ogni opinione, e studiando tutte le modalità secondo cui può essere considerato
da ogni punto di vista». Per diventare saggi bisogna «imporsi come prassi costante»
l’ascolto dell’altro. Senza comprendere le ragioni degli altri, senza entrare
in empatia con i nostri simili, si corre il rischio di diventare sostenitori faziosi
di un’idea o di un’altra. L’equilibrio non si raggiunge una volta per sempre;
va cercato anche quando si è sottoposti a forze contrastanti e implica pertanto
un continuo assestamento della propria interpretazione e del proprio giudizio. Diventare
saggi, allora, non è un traguardo a cui si perviene in un anno stabilito. È il
compito di una vita intera.
Un caro saluto,
Alberto
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