Caro professore,
il dolore è ovunque in questo mondo, ed è da sempre che
l'uomo si ingegna per non sentirlo o per evitare di arrivare al punto di
percepirlo. A volte il dolore è utile in quanto ci ricorda i nostri limiti e,
in un certo senso, ci tiene in vita perché ci insegna ad esempio che è meglio
non buttarsi tra le fiamme. A volte però non riesco a trovare un senso ad esso:
il dolore fisico di malattie, soprusi, guerre, ma anche quello mentale ed
emotivo come può essere la perdita di una persona cara o quello provocato dagli
insulti. Tutto questo porta a chiedermi se non vivremmo meglio senza dolore,
ma a questa domanda credo di saper rispondere: vivremmo meglio senza ciò che
provoca dolore. Allora, che senso ha tutto questo dolore?
Roberta, 3h
Cara Roberta,
Forse dovremmo cominciare a pensare la vita non in funzione
dell’uomo e dei suoi bisogni, ma al contrario l’uomo come parte del movimento
della vita. Il più radicale dei dolori è la consapevolezza che la vita
svanisce. Perché contiene in sé la sua transitorietà, dicevano gli antichi
filosofi; la sua “impermanenza”, ripetono le religioni, soprattutto quelle
orientali che segnalano nelle varie forme di attaccamento l’origine dei
tormenti. La precarietà della vita e il suo dileguare sono da sempre fonte di
angoscia. E già questo è male, un male abissale in quanto non può essere
rimosso. Più del dolore fisico, che secondo Epicuro se è breve è
sopportabile e se è straziante non può essere illimitato, perché conduce alla
morte; più della sofferenza spirituale, che trova il proprio lenimento nei
pensieri che possono mostrare gli eventi sotto una luce diversa, perché la
forza delle parole è in grado di mitigare i turbamenti dell’anima. È lo stesso
Eschilo a considerare il dolore un «errore
della mente». La natura fa il suo corso ed è estranea alle aspettative
umane e ostinarsi a pensare che il male sia eliminabile è un errore di
valutazione o di prospettiva. Il dolore c’è: calamità naturali, tragedie
personali, ingiustizie sociali sono delle sventure evidenti. E se ci spostiamo di
qualche grado di latitudine, uscendo dalla nostra società funzionale e
confortevole o se osserviamo la storia non abbiamo dubbi sulla dimensione del
dolore eccessivo che non solo gli uomini, ma tutte le specie hanno dovuto (e
devono) patire. Non è un caso che nella bella preghiera cristiana del “Salve
Regina” si qualifichi il mondo come una «valle di lacrime». François-René de Chateaubriand, all’inizio
dell’Ottocento, difendendo la bellezza del Cristianesimo nell’opera “Genio
del Cristianesimo”, scrive infatti che «Il cristiano si vede sempre
nelle vesti di un viaggiatore che passa quaggiù in una valle di lacrime e che
trova riposo soltanto nella tomba. Il mondo non è l'oggetto dei suoi desideri,
perché il cristiano sa che l'uomo vive pochi giorni, e sa che quell'oggetto
presto gli sfuggirebbe». Nessuno, dunque, ha dubbi sui mali di questo
mondo. Ma se usiamo una categoria cara alla filosofia, potremmo dire che la
natura è “al di là del bene e del male”, ossia non ha un’intenzionalità
positiva o negativa nei confronti dell’uomo, non premedita gli eventi, è
inconsapevole di ciò che accade, indifferente al benessere del singolo
individuo come a quello di un popolo; è imperturbabile alle gioie e alle
sofferenze degli uomini, estranea ai loro scopi. Per la natura è irrilevante
cosa accade agli esseri senzienti, perché essa non ha possibilità di sentire né
di volere. Parafrasando Kant potremmo definire il suo movimento una sorta di “estraneità
senza intenzione”. Chiediamo allora il senso del dolore per pura incomprensione
del meccanismo che può generare danno agli individui. La dimensione della
natura rimane pertanto extramorale, in quanto le categorie della morale ad essa
non possono essere applicate. Però il male esiste, come offesa per la vita
delle varie specie. A partire da questa fredda estraneità del mondo fisico, che
fa implodere il nostro bisogno di senso, possiamo tuttavia ricavare sia una
definizione di male sia un rimedio ad esso: il male è indifferenza verso la
sofferenza. Se il danno che si patisce deriva dall’imperturbabilità della
natura nei confronti di tutte le specie viventi, allora si può pensare di
correggere la fonte del dolore. L’uomo ha il dovere di intervenire sulla natura
riducendo lo svantaggio che essa può procurare: la ricerca scientifica e la
tecnologia servono soprattutto a mitigare i danni che non solo gli uomini, ma
anche tutte le specie possono subire. Se la forza annientatrice dell’universo
non si può certo sensibilizzare, si può tuttavia limitare e in parte arginare.
Se il male è invece il prodotto dell’azione dell’uomo, allora è necessario
rimuovere l’indifferenza per imparare a sentire l’altro e la sua pena. Da una
parte la potenza della natura va ridimensionata, dall’altra l’apatia dell’uomo
va sradicata. Il senso non sta nel dolore, ma nell’attività umana, che è in
grado di contenere l’indifferenza della natura e accrescere la propria
sensibilità all’altro e al sistema di relazioni in cui è inserito.
Un caro saluto,
Alberto
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