Caro professore,
Sono sempre stata molto critica nei confronti degli
immigrati, in particolare dei “moru” (mori) come li chiamo io. Mi chiedevano se
avessi bisogno di una mano con le borse della spesa fuori dal supermercato e
non li consideravo minimamente; li incontravo per strada e se i nostri sguardi
si incrociavano quasi mi facevano paura. Vendevano le solite collanine
portafortuna in spiaggia e li mandavo via; li vedevo chiedere l'elemosina
davanti alla chiesa e mai una volta che io abbia pensato di lasciar loro il
resto del gelato. Credo che ognuno di noi sotto sotto sia razzista. Quante
volte ho sentito dire: «vengono qui e ci
rubano il lavoro», «arrivano e
portano criminalità», o addirittura «non
potevano starsene dov’erano?». So che è una cosa brutta da dire, ma noi ci
sentiamo superiori. Pensiamo di poter fare cosa ci pare di questi poveri immigrati.
Apriamo, chiudiamo i porti, sbarriamo le frontiere, li affidiamo a chi più fa comodo
allo Stato, e loro, naturalmente, indifesi e speranzosi seguono tutto quello
che il paese ospitante decide sia giusto. Era una sera come tante. Allenamento,
aperitivo con amiche, arrivo a casa stanca morta e taac… Due persone che non
avevo mai visto in vita mia erano sedute al tavolo e stavano mangiando il solito
riso alla parmigiana preparato da mio padre con il Bimby, la sua specialità. Subito
pensai: «ma io lui l'ho già visto» e mi
è bastato incrociare i suoi occhi per riconoscerlo: era il senegalese che
chiedeva l'elemosina il giovedì al mercato. Lì per lì ero imbarazzata. Quando
lo vedevo in centro a Borgo San Dalmazzo mi sembrava povero e indifeso; qui
invece, in casa mia, eravamo allo stesso livello. L’unica cosa che ci
differenziava era il colore della pelle. All'inizio ero un po’ taciturna, mi
facevo i fatti miei. Non sapevo neanche se sapesse parlare l’italiano. Con l’evolversi
della serata capii che una semplice conversazione con lui mi avrebbe potuto
aprire la mente. Non potevo starmene con le mani in mano, dovevo sfruttare l’opportunità.
Bastarono poche parole per impressionarmi: «non
ho mai avuto paura della morte, ho visto così tante persone morire davanti ai
miei occhi». Il discorso è andato avanti, ma sono rimasta talmente
scioccata che non ho più ascoltato. Come può non farti paura una cosa che ti
priva di tutto, perfino della vita stessa?! Iniziò a raccontare la sua vita. Nacque
in Senegal e a soli sette anni rimase orfano. Studiò fino alle scuole medie,
perché mancavano i soldi e a 14 anni iniziò a lavorare nei campi. In tarda
adolescenza si fidanzò e insieme alla sua ragazza decise di cambiare vita. Di
spostarsi in Italia. Con camioncini, macchine, mezzi pubblici e a piedi
raggiunsero la Libia dove, dopo poche settimane, si imbarcarono. Mentre
raccontava tutto ciò mi venivano i brividi. Non avevano un soldo, ma tanta
voglia di costruirsi una vita, un futuro migliore. Vennero smistati in due
barconi diversi e, quando arrivarono in Italia, riuscirono a rintracciarsi
grazie al telefonino. Pian piano non lo vedevo come il Senegalese che chiede
l'elemosina, ma come un ragazzo che, analogamente a me, ha tanta voglia di
stravolgere il suo domani e di provare l’impossibile. Ritornando alla sua vita,
venne mandato insieme alla sua ragazza in un centro di accoglienza in un
paesino vicino a Cuneo. Qui le condizioni non erano ottimali, ma poco dopo trovò
un lavoro ed ora eccolo a cena qui con noi. L’italiano non era perfetto, ma
riuscivo a capire tutto perché ero interessata alle sue parole. Avevo la
fortuna di avere di fronte a me una grande testimonianza. Mi ha fatto cambiare
la visione del problema dell'immigrazione. Se noi provassimo a metterci nei
loro panni le cose si ribaltebbero e, forse, si risolverebbero. Non è colpa
loro se sono nati nella parte sfortunata del mondo. Caro prof. questo incontro fu
ciò che fece scattare una scintilla nella mia testa ed ora, per fortuna, il mio
modo di vedere il mondo è cambiato.
Martina, 16 anni
Cara Martina,
La tua lettera, meravigliosa, mi ha commosso. E mi commuove
ogni volta che la rileggo. Nelle tue parole c’è un sorprendente concentrato di
intelligenza, sensibilità e maturità che raramente si trova nei giornali quando
trattano il tema dell’immigrazione. Di solito dilagano artificiose
semplificazioni, lontananza emotiva, ridondanza retorica oppure leziose ideologie.
Sei giunta all’essenziale e con la tua moderazione hai sbaragliato tutte le
esasperazioni. Tra i tanti spunti che offri alla meditazione, trovo
molto bello che tu dica che in casa tua eravate «allo stesso livello». Da una iniziale lontananza emotiva e
culturale che creava un’asimmetria relazionale, sei passata al riconoscimento autentico
dell’altro senza ridurlo ai tuoi schemi interpretativi. Dici di essere riuscita
inoltre a comprendere tutto, perché eri
«interessata alle sue parole». Già, la
volontà di comprendere è infatti così potente da consentire di cogliere l’essenziale
al di là dei tentennamenti linguistici. Alla fine affermi che «per fortuna» hai cambiato opinione. Quell’esclamazione
rappresenta una sorta di liberazione da pensieri stagnanti e confusi, come se la
vita sentisse la bellezza del bene. Anch’io dico «per fortuna» ci sono famiglie come la tua che praticano l’accoglienza
senza ostentarla e «per fortuna» ti è
venuto in mente di regalarci questa storia. Con la tua lettera anche noi
possiamo diventare adulti più responsabili. Grazie.
Un caro saluto,
Alberto
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