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Cor-rispondenze

lunedì 3 febbraio 2020

Dittatori buoni e cattivi




Caro professore,
La figura del dittatore nasce a Roma durante il periodo repubblicano, ma in quell’epoca il dittatore era una figura positiva. Come mai il dittatore si è trasformato nella figura tipica dell’uomo crudele e assetato di potere con idee estremiste che conosciamo oggi? Nonostante io ritenga la dittatura una “forma di governo” assolutamente crudele e spietata e nonostante io pensi che le dittature sia di destra che di sinistra non dovrebbero esistere in quanto negazione delle libertà da un punto di vista sociale ed economico, non riesco a capacitarmi del fatto che il dittatore sia passato dall’essere una figura positiva e di aiuto nei momenti di difficoltà all’essere una figura così negativa sotto ogni punto di vista. Come e perché la dittatura è passata dall’essere positiva all’essere negativa?
Francesco, 2a beta


Caro Francesco,
Nella Roma repubblicana il dittatore veniva nominato dai consoli e, come dici tu, effettivamente non veniva eletto; era un magistrato che aveva poteri civili e militari, però  la sua carica non poteva durare più di sei mesi. Nominato nelle istituzioni repubblicane, serviva allo Stato per uscire da alcune circostanze difficili. Avrai forse pensato alla figura Cincinnato, il nobile del V secolo a.C. che mentre lavorava nei campi venne chiamato a governare da solo Roma per cacciare gli aggressori. Ciò che lo ha reso simpatico è il fatto che, dopo essere stato al comando solo per sedici giorni, abbandonò poi la politica e tornò ad arare la propria terra. Quando Niccolò Machiavelli nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (1531) analizza la figura del dittatore nella Roma repubblicana scrive: «[…] donde i Romani, intra gli altri rimedii soliti farsi da loro negli urgenti pericoli, si volsono a creare il Dittatore; cioè dare potestà a uno uomo che sanza alcuna consulta potesse diliberare, e sanza alcuna appellagione potesse esequire le sue diliberazioni. Il quale rimedio, come allora fu utile, e fu cagione che vincessero i soprastanti pericoli, così fu sempre utilissimo in tutti quegli accidenti che, nello augumento dello imperio, in qualunque tempo surgessono contro alla Republica». Machiavelli ritiene pertanto che in un certo periodo quella carica sia stata positiva, «utile», per «vincere i pericoli». In fondo era una carica momentanea e non definitiva, certamente non a vita né ereditaria. In qualche modo i Romani avevano la capacità di controllare e di licenziare il dittatore, anche quando avesse compiuto opere buone o risolutive nelle situazioni conflittuali. Se in quel periodo la figura del dittatore era in un certo senso vantaggiosa, essa verrà meno qualche secolo dopo, perché poi il Sentato acquisirà più poteri e non avrà più bisogno di servirsi saltuariamente dei dittatori. E quando la dittatura significherà monarchia e tirannia, ad esempio dopo la morte di Cesare («dittatore a vita»), non sarà più riproposta. Le parole nel corso della storia acquisiscono più significati, si caricano di nuovi sensi. Così, il termine dittatore è diventato il simbolo di chi agisce sempre in modo arrogante e violento. A dir la verità, tale parola è stata usata anche nel nostro Risorgimento. Garibaldi era chiamato “dittatore”, non in senso spregiativo, ma ancora con la connotazione antica. In un dispaccio di Liborio Romano, prefetto di polizia di Napoli e ministro dell’Interno, a Garibaldi si legge: «All’invittissimo general Garibaldi Dittatore delle Due Sicilie». Il prefetto gli scrive questa lettera: «Con la maggiore impazienza Napoli attende il suo arrivo per salutarla il redentore d’Italia e deporre nelle sue mani i poteri dello Stato ed i propri destini. [...] Napoli, 7 settembre 1860» (Antonio Maria Banti, Il Risorgimento italiano). Nel Novecento, però, l’autoritarismo si è caricato di retorica, arroganza, sfrontatezza e violenza e ha dato origine a regimi corrotti, dispotici e totalitari. Storici e filosofi hanno pertanto cercato di verificare la possibilità dell’esistenza del “dittatore buono”. Tale autorità sarebbe animata da buone intenzioni e vorrebbe realizzare il bene per il suo popolo. Ma la storia ci ha insegnato che tutti i dittatori incoraggiati da ottime intenzioni hanno invece commesso atrocità incredibili. Ovunque. Pur di ottenere gli obiettivi che ritenevano urgenti, hanno ridotto in schiavitù gli uomini e hanno fatto torturare, deportare e uccidere coloro che non si conformavano alla rigidità delle loro imposizioni. Ne La Società aperta e i suoi nemici (uscito nel 1945 e in italiano nel ‘73-‘74) Karl Popper scrive: «Una delle difficoltà che incontra un dittatore buono è di stabilire se gli effetti delle misure adottate sono conformi alle sue buone intenzioni […]. La difficoltà deriva dal fatto che l'autoritarismo è per sua natura destinato a scoraggiare la critica e, quindi, il dittatore buono non verrà facilmente a conoscenza delle lamentele suscitate dalle misure che ha preso. Ma, senza siffatto controllo, egli non può sapere se le sue misure conseguono il desiderato fine buono». Lo storico Francesco Filippi in Mussolini ha fatto anche cose buone (Boringhieri 2019) ha dedicato un capitolo ad analizzare la retorica del dittatore “buono” e ha svelato l’inconsistenza di tale figura. Egli l’ha definita una delle «principali storture della percezione» del regime fascista, ma potremo applicare tale giudizio a tutti i dittatori che hanno vergognosamente ambito a presentarsi come governanti «dal volto umano».
Un caro saluto,
Alberto

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