Caro professore,
La figura del dittatore nasce a Roma durante il periodo
repubblicano, ma in quell’epoca il dittatore era una figura positiva. Come mai
il dittatore si è trasformato nella figura tipica dell’uomo crudele e assetato
di potere con idee estremiste che conosciamo oggi? Nonostante io ritenga la
dittatura una “forma di governo” assolutamente crudele e spietata e nonostante
io pensi che le dittature sia di destra che di sinistra non dovrebbero esistere
in quanto negazione delle libertà da un punto di vista sociale ed economico,
non riesco a capacitarmi del fatto che il dittatore sia passato dall’essere una
figura positiva e di aiuto nei momenti di difficoltà all’essere una figura così
negativa sotto ogni punto di vista. Come e perché la dittatura è passata
dall’essere positiva all’essere negativa?
Francesco, 2a beta
Caro Francesco,
Nella Roma repubblicana il dittatore veniva nominato dai
consoli e, come dici tu, effettivamente non veniva eletto; era un magistrato che
aveva poteri civili e militari, però la
sua carica non poteva durare più di sei mesi. Nominato nelle istituzioni
repubblicane, serviva allo Stato per uscire da alcune circostanze difficili. Avrai
forse pensato alla figura Cincinnato, il nobile del V secolo a.C. che mentre lavorava
nei campi venne chiamato a governare da solo Roma per cacciare gli aggressori. Ciò
che lo ha reso simpatico è il fatto che, dopo essere stato al comando solo per sedici
giorni, abbandonò poi la politica e tornò ad arare la propria terra. Quando Niccolò
Machiavelli nei Discorsi sopra la prima
deca di Tito Livio (1531) analizza la figura del dittatore nella Roma
repubblicana scrive: «[…] donde i Romani,
intra gli altri rimedii soliti farsi da loro negli urgenti pericoli, si volsono
a creare il Dittatore; cioè dare potestà a uno uomo che sanza alcuna consulta
potesse diliberare, e sanza alcuna appellagione potesse esequire le sue
diliberazioni. Il quale rimedio, come allora fu utile, e fu cagione che
vincessero i soprastanti pericoli, così fu sempre utilissimo in tutti quegli
accidenti che, nello augumento dello imperio, in qualunque tempo surgessono
contro alla Republica». Machiavelli ritiene pertanto che in un certo
periodo quella carica sia stata positiva, «utile»,
per «vincere i pericoli». In fondo
era una carica momentanea e non definitiva, certamente non a vita né
ereditaria. In qualche modo i Romani avevano la capacità di controllare e di
licenziare il dittatore, anche quando avesse compiuto opere buone o risolutive
nelle situazioni conflittuali. Se in quel periodo la figura del dittatore era
in un certo senso vantaggiosa, essa verrà meno qualche secolo dopo, perché poi
il Sentato acquisirà più poteri e non avrà più bisogno di servirsi
saltuariamente dei dittatori. E quando la dittatura significherà monarchia e
tirannia, ad esempio dopo la morte di Cesare («dittatore a vita»), non sarà più riproposta. Le parole nel corso
della storia acquisiscono più significati, si caricano di nuovi sensi. Così, il
termine dittatore è diventato il simbolo di chi agisce sempre in modo arrogante
e violento. A dir la verità, tale parola è stata usata anche nel nostro Risorgimento.
Garibaldi era chiamato “dittatore”, non in senso spregiativo, ma ancora con la
connotazione antica. In un dispaccio di Liborio Romano, prefetto di polizia di
Napoli e ministro dell’Interno, a Garibaldi si legge: «All’invittissimo general Garibaldi Dittatore delle Due Sicilie». Il
prefetto gli scrive questa lettera: «Con
la maggiore impazienza Napoli attende il suo arrivo per salutarla il redentore
d’Italia e deporre nelle sue mani i poteri dello Stato ed i propri destini.
[...] Napoli, 7 settembre 1860» (Antonio Maria Banti, Il Risorgimento italiano). Nel Novecento, però, l’autoritarismo si
è caricato di retorica, arroganza, sfrontatezza e violenza e ha dato origine a
regimi corrotti, dispotici e totalitari. Storici e filosofi hanno pertanto cercato di
verificare la possibilità dell’esistenza del “dittatore buono”. Tale autorità sarebbe
animata da buone intenzioni e vorrebbe realizzare il bene per il suo popolo. Ma
la storia ci ha insegnato che tutti i dittatori incoraggiati da ottime
intenzioni hanno invece commesso atrocità incredibili. Ovunque. Pur di ottenere
gli obiettivi che ritenevano urgenti, hanno ridotto in schiavitù gli uomini e hanno
fatto torturare, deportare e uccidere coloro che non si conformavano alla
rigidità delle loro imposizioni. Ne La
Società aperta e i suoi nemici (uscito nel 1945 e in italiano nel ‘73-‘74)
Karl Popper scrive: «Una delle difficoltà
che incontra un dittatore buono è di stabilire se gli effetti delle misure
adottate sono conformi alle sue buone intenzioni […]. La difficoltà deriva dal fatto che l'autoritarismo è per sua natura
destinato a scoraggiare la critica e, quindi, il dittatore buono non verrà
facilmente a conoscenza delle lamentele suscitate dalle misure che ha preso.
Ma, senza siffatto controllo, egli non può sapere se le sue misure conseguono
il desiderato fine buono». Lo storico Francesco Filippi in Mussolini ha fatto anche cose buone (Boringhieri
2019) ha dedicato un capitolo ad analizzare la retorica del dittatore “buono” e
ha svelato l’inconsistenza di tale figura. Egli l’ha definita una delle «principali storture della percezione»
del regime fascista, ma potremo applicare tale giudizio a tutti i dittatori che
hanno vergognosamente ambito a presentarsi come governanti «dal volto umano».
Un caro saluto,
Alberto
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