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Cor-rispondenze

lunedì 24 maggio 2021

Diventa ciò che sei 2/2



«Diventa ciò che sei» è una saggia prescrizione, ma ad una prima lettura suona un po’ sibillina: come si fa a diventare ciò che si è già? Se si sollecita qualcuno a diventare “qualcosa” o “qualcuno” – professionalmente o umanamente parlando – significa che tale persona deve fare un percorso e pertanto deve cambiare; se si sottolinea che un uomo ha già una propria natura specifica, allora non dovrebbe mutare, ma rimanere pertanto ciò che è. Il motto pare dunque contenere una misteriosa prescrizione. L’imperativo «diventa» è infatti legato al «progetto». Progettare, in fondo, vuol dire “gettare avanti” (“pro”: avanti; “jacere”: gettare), quando si ha l’idea di fare qualcosa, di formarsi o di realizzare un proposito, si pianifica, si programma, si inventa e ci si predispone a realizzare ciò che si è immaginato. «Ciò che sei» è legato invece al «destino» e segnala un nucleo originario ineludibile che non deve essere snaturato. La parola «destino», dal greco “ìstemi” “sto”, indica lo stare fermo, fisso. Troviamo la stessa radice anche nella parola “ostinazione”. L’uomo ostinato è infatti colui che rimane ancorato alle proprie posizioni; e ancora nelle parole “statico” e “stabile”. Statico è ciò che è immobile o comunque in equilibrio, e stabile è ciò che è saldo. La parola “destino” indica pertanto la fissità. Possiamo anche utilizzare altri concetti, come “fato” o “necessità”, per esprimere ciò che non muta. Ma là dove esistono il “fato” e la “necessità” allora la libertà è impossibile e viene negata. Vengono dunque respinti sia il movimento sia la trasformazione. Allora come può essere inteso il motto? Credo che possiamo interpretarlo in questo modo: «Diventa», indica sì un movimento, ma «ciò che sei» segnala che le variazioni e il viaggio debbono essere realizzati dentro una precisa configurazione («ciò che si è»). La libertà consiste allora nell’assecondare la propria natura: oggi si tende a dire il proprio “desiderio”, il nucleo fondamentale che caratterizza in modo esclusivo ciò che siamo, la nostra personale predisposizione, la soggettiva sensibilità. L’uomo deve quindi portare alla luce la propria personalissima natura, deve farla emergere e prendersene cura. Tra le più belle interpretazioni di questo invito arcaico vi è quella di Mario Trevi, uno dei più autorevoli psicoanalisti junghiani della seconda metà del secolo scorso. Secondo Trevi il suggerimento di Pindaro e di Nietzsche deve essere sviluppato da un punto di vista logico. Nella logica, quando si hanno due alternative le possibilità che si aprono sono quattro. Se consideriamo i due verbi: «diventare» ed «essere», allora possiamo riformulare la riflessione in questo modo: «Diventa ciò che sei», «Diventa ciò che non sei», «Non diventare ciò che sei», «Non diventare ciò che non sei». Se non vi è ancora venuto il mal di testa, vi assicuro che vale la pena pazientare per seguire questo curioso e insolito sentiero. «Diventa ciò che sei» deve essere considerato un percorso in più stadi. Colui che vuole realizzare veramente la propria natura ascolta pian piano ciò che si agita nel proprio mondo sotterraneo, nella propria intimità; cerca di comprendere ciò che spesso agli altri è inaccessibile, cerca di riconoscere la propria specificità. Dà ascolto alla propria voce interiore e ai propri bisogni. È come se lasciasse parlare il “dèmone socratico” che cerca di affiorare in ogni uomo: l’attitudine, la passione, la predisposizione, la vocazione. Per comprendere autenticamente la nostra inclinazione, dobbiamo tuttavia aprirci alla cultura. Diventando altro da ciò che siamo comprendiamo meglio i nostri bisogni. Ecco qui la ragione del secondo momento: «Diventa ciò che non sei»: nessuno deve fermarsi ad uno stadio infantile, né rimanere quello di oggi, ma deve aprirsi alle novità e alla conoscenza per non essere costretto a vivere completamente determinato dalla biologia, dalla cultura e dalla tradizione. Il passaggio successivo consiste invece nel «Non diventare ciò che sei»: perché se la trasformazione ci conduce nello stesso punto in cui ci troviamo ora, allora non si danno né evoluzione né crescita autentica. L’ultimo ammonimento può essere compendiato nella sentenza: «Non diventare ciò che non sei». Nel cambiamento non bisogna smarrire la propria vera indole, assecondando le aspettative degli altri o le suggestioni momentanee. Il percorso per diventare ciò che si è può essere considerato un percorso a spirale e altro non è che il processo di “individuazione” di cui ha parlato a lungo Carl Gustav Jung nella sua opera. Possiamo tradurlo con le parole di un altro grande studioso junghiano, Aldo Carotenuto (“La chiamata del daimon”): «Individuarsi vuol dire cominciare a guardare il mondo in modo nuovo. Quando abbiamo la sensazione che tutti i problemi, per quanto gravi e difficili, siano nostri problemi, quando non desistiamo dall'affrontarli e non ci scoraggiamo perché sentiamo che quello è il nostro terreno, il nostro campo d'azione, questo è il segno che si è colto il filo di Arianna». È un invito per tutti voi ragazzi che in questo momento state meditando sulle scelte scolastiche o di lavoro. Cercate di cogliere il vostro filo di Arianna per attraversare la vita con più energia, sapendo che ognuno di voi è unico, e unica è la vostra capacità di sentire, di progettare, di agire, di relazionarvi. Di vivere e di narrare la vostra avventura.

Un caro saluto,
Alberto

lunedì 17 maggio 2021

Diventa ciò che sei 1/2

 


Ho recentemente riletto questa frase in un libro di Fréderic Lenoir, “L’anima del mondo”, in cui l’autore immagina che, presagendo la fine del mondo, sette saggi partano da varie aree del pianeta per radunarsi a Tulanka, un remoto monastero tra le montagne tibetane, con il proposito di trasmettere a due giovani adolescenti, Tenzin e Natina, alcune idee essenziali sulla saggezza. Una di queste è proprio: «Diventa ciò che sei. Fai ciò che solo tu puoi fare. Segui la voce del tuo cuore». Così, l’esortazione a «diventare ciò che si è» può essere considerata una massima imprescindibile della sapienza universale. Arriva da lontano. Per noi occidentali, dal mondo greco: ed è un invito che da Pindaro a Nietzsche viene regolarmente rivolto a tutti gli uomini. Non si limita a suggerire un orientamento conoscitivo o etico, ma prescrive un modo preciso di condurre l’esistenza. Probabilmente, quello migliore o l’unico autentico. Sembra una risposta categorica e un po’ sibillina ad una domanda che attraversa spesso i nostri pensieri e che in un’espressione rudimentale e certamente incompleta può essere formulata in questo modo: “cosa farò da grande?”, ma in termini più complessi rappresenta la questione cruciale dell’esistenza: “chi sono io?”, “che cosa dovrò diventare?”, “che cosa farò della mia vita?”. Sono riflessioni irrinunciabili, perché interpellano l’individuo sulle sue scelte fondamentali. “Che cosa farò della mia vita” è una questione che prima o poi tutti gli adolescenti si pongono indipendentemente dal loro grado di alfabetizzazione. Il biografo di Cartesio, Adrien Baillet, riferisce che il filosofo aveva fatto tre sogni che considerava importanti per comprendere lo sviluppo della propria ricerca. Nel terzo di questi egli immaginava di aprire una raccolta di poesie e il suo occhio cadeva su un verso del poeta Ausonio: «Quod vitae sectabor iter?», «Quale cammino prenderò nella vita?». Concentrarsi su tale interrogativo ha aperto al filosofo una nuova direttiva di studio: gli ha consentito di operare una svolta nella propria vita e nella propria filosofia. La stessa domanda gravita nei pensieri dei ragazzi che cercano di capire chi sono e immaginano chi vorranno diventare, ma di riflesso è anche il tema che disorienta i genitori – quando pensano al futuro dei figli – perché scardina i loro schemi e le loro aspettative. Secondo l’insegnamento di Pindaro e Nietzsche gli adulti dovrebbero agevolare la vocazione dei giovani, incoraggiare il loro talento e sostenere i loro desideri più profondi. Va da sé che c’è un forte legame tra due importanti massime del mondo antico: «conosci te stesso» e «diventa chi sei». Conoscere se stessi è la premessa per poter realizzare la propria natura. Come facciamo a conoscerci? Attraverso il dialogo interno, l’auto-osservazione, le relazioni e la sperimentazione continua ricaviamo costantemente informazioni sulle nostre qualità. Poi occorrono tanti sforzi, ripetuti atti di coraggio e di creatività per avverare ciò che abbiamo intuito. Forse è per questo che nella seconda “Pitica” Pindaro dice: «diventa chi sei imparando (chi sei)», perché in fondo nessuno sa chi è senza mettersi alla prova. E Nietzsche, in “Così parlo Zarathustra”, confessa il grande lavoro da “maestri severi” che occorre fare su se stessi: «Tale, infatti, son io dal mio profondo e fui da principio, tirando, traendo a me, portando in alto, facendo crescere: uno che tira su, un allevatore, un maestro severo, che non invano disse una volta a se stesso:Diventa chi sei!”». Si prova angoscia per la scelta di ciò che si vuole diventare, perché una volta individuata una rotta occorre investire energie e studio in una direzione piuttosto che in un’altra. Dalla risposta sulla visione del futuro, occorre poi predisporre il tempo e organizzare la fatica. Sappiamo che le decisioni più importanti vengono prese da giovani: a cinquant’anni è possibile iniziare lo studio del pianoforte, ma al massimo si potrà diventare dei buoni dilettanti e non certo aspirare ad eccellere in quella professione. Ci sono poi alcuni rischi che possono minare l’autorealizzazione: alcuni provengono dalle aspettative spesso esplicite della famiglia, altri da quelle tacite, ma altrettanto consistenti, della società. Fréderic Lenoir, riflettendo sulla propria esperienza e sulle difficoltà incontrate per poter esprimere la propria natura, scrive: «Diamo un’immagine di noi che corrisponde a ciò che gli altri si aspettano da noi. O a ciò che immaginiamo si aspettino da noi, per piacere loro, per essere socialmente accettabili. […] La mia esperienza è stata così. Per anni ho avuto bisogno di piacere agli altri, sacrificando me stesso. Pensavo di poter essere amato solo a questa condizione. Dicevo sì quando invece volevo dire no. Accettavo cose che mi costavano fatica e sofferenza». E il filosofo Umberto Galimberti avverte: «realizzo chi sono o ciò che vuole l’apparato?», e ancora: «Siamo certi che la vita che viviamo sia la nostra?». Perché dall’autorealizzazione dipende la nostra felicità. Per questo, ammonisce il filosofo: «Distratti da noi, fino a diventare perfetti sconosciuti, ci arrampichiamo ogni giorno su pareti lisce per raggiungere modelli di felicità che abbiamo assunto dall'esterno […], naufragando ogni giorno, perché quei modelli probabilmente sono quanto di più incompatibile possa esserci con la nostra personalità». Il pericolo di soddisfare i desideri degli altri è davvero grande. Ma come si fa a diventare ciò che si è?

Un caro saluto,

Alberto

lunedì 10 maggio 2021

Ama e fa' quel che vuoi

 


È una massima piuttosto nota e davvero molto bella. È una sorta di suprema riduzione effettuata da S. Agostino delle prescrizioni del mondo ebraico e cristiano. Secondo la “Bibbia” Dio ha dato a Mosè i dieci comandamenti sul monte Sinai. E Gesù ha riassunto il decalogo in quello che è conosciuto come il duplice comandamento dell’amore: “Ama il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Ama il prossimo tuo come te stesso”. È possibile un’ulteriore riduzione di questo binomio in un’unica norma ancora più sintetica? Aurelio Agostino compendia tutte le regole in un’espressione apparentemente elementare: «Dilige et quod vis fac», ossia «Ama e fa’ quello che vuoi». Questa direttiva è composta da due parti, ossia due imperativi: il primo è: «ama», e il secondo è: «fa’ ciò che vuoi». Dei due, il secondo è immediatamente comprensibile: «fa’ ciò che vuoi» ha un carattere intuitivo, eppure richiede qualche riflessione. Comanda infatti di realizzare quello che la volontà suggerisce, ma solo dopo aver rispettato l’imperativo di amare. Non si tratta quindi di un generico e ghiotto invito ad agire in modo indiscriminato, compiendo semplicemente ciò che si ritiene giusto ed opportuno, né tantomeno si tratta di una sollecitazione ad assecondare prontamente l’istinto. Fai ciò che vuoi – ma solo se sei in grado di amare – da questo momento verrà considerato il fondamento dell’etica cristiana. Insomma, chi è in grado di amare non deve preoccuparsi eccessivamente della rettitudine delle proprie azioni, perché se la radice da cui esse scaturiscono è l’amore, da esse seguirà necessariamente il bene. Questo perché, secondo Agostino, a partire dall’amore la volontà è indirizzata umanamente e cristianamente. Così, l’uomo che si sottomette a tale legge non può produrre errori che conducano ad esiti moralmente riprovevoli. Egli chiarisce bene questo concetto nel “Commento alla Prima Lettera di Giovanni” quando scrive: «sia in te la radice dell’amore, poiché da questa radice non può procedere se non il bene». Ecco allora i suoi consigli: «sia che tu taccia, taci per amore; sia che tu parli, parla per amore; sia che tu corregga, correggi per amore; sia che perdoni, perdona per amore». La parte più problematica della prescrizione agostiniana – che sentiamo ora ripetere con una certa ridondanza – è certamente la prima e consiste nella corretta comprensione dell’imperativo «ama». Pur essendo un verbo assai familiare e apparentemente chiarissimo, è proprio sul significato dell’amore che si creano le maggiori ambiguità. L’amore non è da intendersi come legame sentimentale tra persone e neppure come attrazione fisica. La traduzione che verosimilmente si avvicina di più all’intenzione di Gesù, secondo il teologo svizzero contemporaneo Hans Küng recentemente scomparso, potrebbe essere espressa in questo modo: «un’esistenza-per-gli-altri piena di disponibilità e di aiuto», seguendo l’esempio di Cristo. Se questa è la radice dell’amore, da essa deriva certamente un’etica nuova e rivoluzionaria. Nell’opera Cristianesimo. Essenza e storia, Hans Küng suggerisce di declinare il “volere” a partire dall’amore, facendo riferimento a queste riflessioni di un autore a lui ignoto: «Il dovere senza amore rende uggiosi; il dovere compiuto nell’amore rende equilibrati. La responsabilità senza amore rende spietati; la responsabilità esercitata nell’amore rende premurosi. La giustizia senza amore rende duri; la giustizia praticata nell’amore rende coscienziosi. L’educazione senza amore rende contraddittori; l’educazione praticata nell’amore rende pazienti. La saggezza senza amore rende scaltri; la saggezza esercitata nell’amore rende comprensivi. La gentilezza senza amore rende ipocriti; la gentilezza esercitata nell’amore rende buoni. L’ordine senza amore rende meschini; l’ordine esercitato nell’amore rende magnanimi. La competenza senza amore rende prepotenti; la competenza esercitata nell’amore rende degni di fiducia. Il potere senza amore rende violenti; il potere esercitato nell’amore rende disponibili all’aiuto. L’onore senza amore rende superbi; l’onore praticato nell’amore rende moderati. Il possesso senza amore rende avari; il possesso praticato nell’amore rende liberali. La fede senza amore rende fanatici; la fede praticata nell’amore rende tolleranti». Si può ottenere un analogo risultato di elevazione morale utilizzando altri verbi? Proviamo con “vivere” e “lavorare”: «Vivi e fa’ quel che vuoi», oppure «lavora e fa’ quel che vuoi». In entrambi i casi avvertiamo immediatamente che in queste ulteriori raccomandazioni sembra mancare qualcosa. L’attenzione alla persona e il rispetto dell’altro non sono affatto impliciti nell’ordine. Non è detto, infatti, che vivere e fare ciò che si vuole sia un buon modo di relazionarsi con il prossimo; e neppure il nesso tra lavorare e agire sembra nobilitare l’azione dell’uomo a dignità morale. In entrambe le sentenze si riconosce che l’altro non è tutelato o è posto in secondo piano: non è garantita la sua sopravvivenza e non è assicurato il suo benessere. Se nelle ultime due massime le prescrizioni all’imperativo non modificano l’agire dell’uomo, l’invito di Agostino mostra la potenza eccezionale dell’amore nel determinare la metamorfosi dei comportamenti umani: assistiamo al passaggio dall’invito a un semplice operare nel mondo all’agire etico.    

Un caro saluto,

Alberto

lunedì 3 maggio 2021

La trama nascosta 2/2




L’idea che la trama della realtà sia accessibile alla mente dell’uomo è stata condivisa dagli alchimisti di ogni tempo: con le loro bizzarre e sofisticate pratiche quotidiane essi hanno infatti pensato di cogliere la rete invisibile che unisce i fenomeni. Hanno considerato tuttavia che solo alcune persone particolarmente istruite nelle discipline più disparate potessero avere accesso a tale dimensione profonda e “occulta”. La scienza occidentale è nata invece rifiutando il rapporto privato e personale tra alcuni iniziati e la natura. Essa ritiene che l’universo e le sue leggi si offrano in modo invariante a tutti coloro che ne conoscono il linguaggio. Il suo obiettivo è pertanto quello di individuare i codici oggettivi in cui la natura si esprime. Nel periodo in cui è nata la scienza moderna, lo sforzo di unire fisica e metafisica – nel tentativo di spiegare proprio tutto – è stato davvero notevole. Alcuni filosofi hanno sentito la necessità non solo di dare conto dei fenomeni naturali, ma di esplicitare la trama sotterranea che annoda ogni singolo aspetto: pensiero, natura e Dio. Baruch Spinoza ha tentato di mostrare una sorta di codice unitario, scrivendo un libro meraviglioso intitolato “Etica” (1677) in cui ha provato a tenere insieme l’intreccio tra Dio e il mondo attraverso un modello geometrico, dove il disegno razionale della realtà, che funge da ordito, gradualmente si manifesta e si lascia comprendere. Grazie a questa gigantesca impresa geometrizzante egli ha affermato pertanto che «l’ordine e la connessione delle idee è lo stesso che l’ordine e la connessione delle cose» («ordo et connexio idearum idem est ac ordo et connexio rerum»). C’è un ordine perenne di ciò che esiste e i legami tra i vari elementi sono necessari. La parola “necessario”, in logica, non significa qualcosa di cui si ha bisogno, qualcosa di fondamentale o indispensabile; significa semplicemente un elemento inevitabile, ossia conseguente da un punto di vista razionale. Qualche secolo dopo anche il filosofo tedesco Friedrich Hegel nei «Lineamenti di filosofia del diritto» (1820) ha un’idea pressoché analoga a quella di Spinoza quando afferma che «Ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale». Dal suo punto di vista l’infinito si concretizza nella realtà e nella coscienza. L’infinito diventa finito e diventa consapevole di sé nell'uomo, manifestando la logica del cosmo. Oltre ad una realtà che si può rispecchiare nel pensiero o ad un pensiero che è trama della realtà, nel corso del tempo sono emerse altre trame. C’è una struttura chimica della materia, compendiata nella tavola di Mendeleev, secondo cui dalla combinazione di un certo numero di elementi si possono pertanto generare tutti gli oggetti esistenti. E c’è la trama del genoma degli esseri viventi e dell’uomo stesso. Dall’esterno ammiriamo corpi di diversa fattezza, ma sappiamo che ogni elemento è retto da una logica sottostante, quella del Dna, che gli fa da supporto. Ci sono poi le strutture della psiche individuale e collettiva esplorate dalla psicologia e dalla psicoanalisi che si sforzano di portare alla luce la dimensione “profonda” dell’attività mentale. Ma le trame impercettibili si moltiplicano: quelle nascoste in una classe, in un gruppo di amici, in una famiglia, sul luogo di lavoro, in una relazione d’amore. Siamo costantemente sorretti da trame che non vediamo. Nasciamo in un preciso contesto storico, con consuetudini etiche che respiriamo dalla nascita in famiglia e nella comunità di appartenenza e che ci consentono di orientarci e di relazionarci con il prossimo. Ma nasciamo anche in uno Stato che concede diritti e garantisce libertà a partire da una costituzione. Senza saperlo ci muoviamo in un intreccio di diritti predisposto attentamente da coloro che ci hanno preceduto: la famiglia, la comunità, lo Stato. Prendiamo atto di quell’articolato ordito di norme e convenzioni solo in un secondo tempo, quando siamo in grado di accostare e comparare sistemi di riferimento normativi ed etici differenti. Il filosofo italiano Salvatore Natoli ne “Il rischio di fidarsi” ricorda che anche la fiducia primaria nel mondo e negli uomini nasce in un contesto di trame che anticipano la nostra nascita. Scrive Natoli: «da dove viene la fiducia? Perché ci consegniamo in mani d'altri? Perché qualcuno – chiunque egli fosse – al nostro entrare nel mondo ci ha preso per mano, avviandoci in esso. Ci ha originariamente rassicurato, ci ha preso in custodia – senza contraccambio – e da lui abbiamo appreso che ci si può fidare. […] Vi è stato «un» qualcuno che ha avuto cura di noi senza che lo chiedessimo […]. Nei fatti, qualcuno è da assumere in senso lato: sono i legami parentali, le regole comportamentali, le tradizioni familiari, il senso di appartenenza, i sistemi di credenza. Tutto ciò ci dà «certezza del mondo» e insieme la certezza che in esso si può sempre trovare qualcosa o qualcuno su cui fare assegnamento». Anche la nostra fiducia scaturisce dal radicamento in una certezza originaria che ci consente di entrare nel mondo e di aprirci ad esso. Tanti fili sottili ma consistenti, dunque, rendono possibile la vita del cosmo, della natura e delle varie dimensioni dell’attività umana. Ci muoviamo su di essi come pattinatori che tracciano il loro percorso sorretti da una pista di ghiaccio. Il ghiaccio è l’arcano “Logos” di Eraclito, l’origine delle trame.

Un caro saluto,

Alberto