«Diventa ciò che sei» è una saggia
prescrizione, ma ad una prima lettura suona un po’ sibillina: come si fa a
diventare ciò che si è già? Se si sollecita qualcuno a diventare “qualcosa” o “qualcuno” – professionalmente o umanamente parlando – significa che
tale persona deve fare un percorso e pertanto deve cambiare; se si sottolinea che
un uomo ha già una propria natura specifica, allora non dovrebbe mutare, ma rimanere
pertanto ciò che è. Il motto pare dunque contenere una misteriosa prescrizione.
L’imperativo «diventa» è infatti
legato al «progetto». Progettare, in
fondo, vuol dire “gettare avanti” (“pro”: avanti; “jacere”: gettare), quando si ha l’idea di fare qualcosa, di
formarsi o di realizzare un proposito, si pianifica, si programma, si inventa e
ci si predispone a realizzare ciò che si è immaginato. «Ciò che sei» è legato invece al «destino» e segnala un nucleo originario ineludibile che non deve
essere snaturato. La parola «destino»,
dal greco “ìstemi” “sto”, indica lo stare fermo, fisso. Troviamo
la stessa radice anche nella parola “ostinazione”.
L’uomo ostinato è infatti colui che rimane ancorato alle proprie posizioni; e
ancora nelle parole “statico” e “stabile”. Statico è ciò che è immobile o
comunque in equilibrio, e stabile è ciò che è saldo. La parola “destino” indica pertanto la fissità.
Possiamo anche utilizzare altri concetti, come “fato” o “necessità”, per
esprimere ciò che non muta. Ma là dove esistono il “fato” e la “necessità”
allora la libertà è impossibile e viene negata. Vengono dunque respinti sia il
movimento sia la trasformazione. Allora come può essere inteso il motto? Credo
che possiamo interpretarlo in questo modo: «Diventa»,
indica sì un movimento, ma «ciò che sei»
segnala che le variazioni e il viaggio debbono essere realizzati dentro una
precisa configurazione («ciò che si è»).
La libertà consiste allora nell’assecondare la propria natura: oggi si tende a
dire il proprio “desiderio”, il
nucleo fondamentale che caratterizza in modo esclusivo ciò che siamo, la nostra
personale predisposizione, la soggettiva sensibilità. L’uomo deve quindi portare
alla luce la propria personalissima natura, deve farla emergere e prendersene
cura. Tra le più belle interpretazioni di questo invito arcaico vi è quella di Mario
Trevi, uno dei più autorevoli psicoanalisti junghiani della seconda metà del
secolo scorso. Secondo Trevi il suggerimento di Pindaro e di Nietzsche deve
essere sviluppato da un punto di vista logico. Nella logica, quando si hanno
due alternative le possibilità che si aprono sono quattro. Se consideriamo i
due verbi: «diventare» ed «essere», allora possiamo riformulare la
riflessione in questo modo: «Diventa ciò che sei», «Diventa ciò che non sei», «Non diventare ciò che sei», «Non diventare ciò che non sei». Se non vi è ancora venuto il mal di
testa, vi assicuro che vale la pena pazientare per seguire questo curioso e
insolito sentiero. «Diventa ciò che sei» deve essere considerato un
percorso in più stadi. Colui che vuole realizzare veramente la propria natura ascolta
pian piano ciò che si agita nel proprio mondo sotterraneo, nella propria
intimità; cerca di comprendere ciò che spesso agli altri è inaccessibile, cerca
di riconoscere la propria specificità. Dà ascolto alla propria voce interiore e
ai propri bisogni. È come se lasciasse parlare il “dèmone socratico” che cerca di affiorare in ogni uomo:
l’attitudine, la passione, la predisposizione, la vocazione. Per comprendere
autenticamente la nostra inclinazione, dobbiamo tuttavia aprirci alla cultura.
Diventando altro da ciò che siamo comprendiamo meglio i nostri bisogni. Ecco
qui la ragione del secondo momento: «Diventa ciò che non sei»: nessuno
deve fermarsi ad uno stadio infantile, né rimanere quello di oggi, ma deve
aprirsi alle novità e alla conoscenza per non essere costretto a vivere
completamente determinato dalla biologia, dalla cultura e dalla tradizione. Il
passaggio successivo consiste invece nel «Non diventare ciò che sei»: perché se la trasformazione ci
conduce nello stesso punto in cui ci troviamo ora, allora non si danno né
evoluzione né crescita autentica. L’ultimo ammonimento può essere compendiato nella
sentenza: «Non diventare ciò che non sei». Nel cambiamento non bisogna smarrire la propria vera indole,
assecondando le aspettative degli altri o le suggestioni momentanee. Il
percorso per diventare ciò che si è può essere considerato un percorso a spirale
e altro non è che il processo di “individuazione” di cui ha parlato a lungo
Carl Gustav Jung nella sua opera. Possiamo tradurlo con le parole di un altro
grande studioso junghiano, Aldo Carotenuto (“La chiamata del daimon”): «Individuarsi
vuol dire cominciare a guardare il mondo in modo nuovo. Quando abbiamo la
sensazione che tutti i problemi, per quanto gravi e difficili, siano nostri
problemi, quando non desistiamo dall'affrontarli e non ci scoraggiamo perché
sentiamo che quello è il nostro terreno, il nostro campo d'azione, questo è il
segno che si è colto il filo di Arianna». È un invito per tutti voi ragazzi che in questo
momento state meditando sulle scelte scolastiche o di lavoro. Cercate di
cogliere il vostro filo di Arianna per attraversare la vita con più energia,
sapendo che ognuno di voi è unico, e unica è la vostra capacità di sentire, di
progettare, di agire, di relazionarvi. Di vivere e di narrare la vostra avventura.
lunedì 24 maggio 2021
Diventa ciò che sei 2/2
lunedì 17 maggio 2021
Diventa ciò che sei 1/2
Ho recentemente riletto questa frase in un libro di Fréderic
Lenoir, “L’anima del mondo”, in cui
l’autore immagina che, presagendo la fine del mondo, sette saggi partano da varie
aree del pianeta per radunarsi a Tulanka, un remoto monastero tra le montagne
tibetane, con il proposito di trasmettere a due giovani adolescenti, Tenzin e
Natina, alcune idee essenziali sulla saggezza. Una di queste è proprio: «Diventa ciò che sei. Fai ciò che solo tu
puoi fare. Segui la voce del tuo cuore». Così, l’esortazione a «diventare ciò che si è» può essere considerata
una massima imprescindibile della sapienza universale. Arriva da lontano. Per
noi occidentali, dal mondo greco: ed è un invito che da Pindaro a Nietzsche
viene regolarmente rivolto a tutti gli uomini. Non si limita a suggerire un
orientamento conoscitivo o etico, ma prescrive un modo preciso di condurre
l’esistenza. Probabilmente, quello migliore o l’unico autentico. Sembra una
risposta categorica e un po’ sibillina ad una domanda che attraversa spesso i
nostri pensieri e che in un’espressione rudimentale e certamente incompleta può
essere formulata in questo modo: “cosa
farò da grande?”, ma in termini più complessi rappresenta la questione cruciale
dell’esistenza: “chi sono io?”, “che cosa dovrò diventare?”, “che cosa farò della mia vita?”. Sono riflessioni
irrinunciabili, perché interpellano l’individuo sulle sue scelte fondamentali. “Che cosa farò della mia vita” è una questione
che prima o poi tutti gli adolescenti si pongono indipendentemente dal loro
grado di alfabetizzazione. Il biografo di Cartesio, Adrien Baillet, riferisce che
il filosofo aveva fatto tre sogni che considerava importanti per comprendere lo
sviluppo della propria ricerca. Nel terzo di questi egli immaginava di aprire
una raccolta di poesie e il suo occhio cadeva su un verso del poeta Ausonio: «Quod vitae sectabor iter?», «Quale cammino prenderò nella vita?». Concentrarsi
su tale interrogativo ha aperto al filosofo una nuova direttiva di studio: gli ha
consentito di operare una svolta nella propria vita e nella propria filosofia. La
stessa domanda gravita nei pensieri dei ragazzi che cercano di capire chi sono
e immaginano chi vorranno diventare, ma di riflesso è anche il tema che disorienta
i genitori – quando pensano al futuro dei figli – perché scardina i loro schemi
e le loro aspettative. Secondo l’insegnamento di Pindaro e Nietzsche gli adulti
dovrebbero agevolare la vocazione dei giovani, incoraggiare il loro talento e sostenere
i loro desideri più profondi. Va da sé che c’è un forte legame tra due importanti
massime del mondo antico: «conosci te
stesso» e «diventa chi sei».
Conoscere se stessi è la premessa per poter realizzare la propria natura. Come facciamo
a conoscerci? Attraverso il dialogo interno, l’auto-osservazione, le relazioni
e la sperimentazione continua ricaviamo costantemente informazioni sulle nostre
qualità. Poi occorrono tanti sforzi, ripetuti atti di coraggio e di creatività
per avverare ciò che abbiamo intuito. Forse è per questo che nella seconda “Pitica” Pindaro dice: «diventa chi sei imparando (chi sei)», perché in fondo nessuno sa
chi è senza mettersi alla prova. E Nietzsche, in “Così parlo Zarathustra”, confessa il grande lavoro da “maestri severi” che occorre fare su se stessi: «Tale, infatti, son io dal mio
profondo e fui da principio, tirando, traendo a me, portando in alto, facendo
crescere: uno che tira su, un allevatore, un maestro severo, che non invano
disse una volta a se stesso: “Diventa
chi sei!”». Si prova angoscia per la scelta di ciò che si vuole diventare,
perché una volta individuata una rotta occorre investire energie e studio in
una direzione piuttosto che in un’altra. Dalla risposta sulla visione del
futuro, occorre poi predisporre il tempo e organizzare la fatica. Sappiamo che
le decisioni più importanti vengono prese da giovani: a cinquant’anni è
possibile iniziare lo studio del pianoforte, ma al massimo si potrà diventare dei
buoni dilettanti e non certo aspirare ad eccellere in quella professione. Ci
sono poi alcuni rischi che possono minare l’autorealizzazione: alcuni
provengono dalle aspettative spesso esplicite della famiglia, altri da quelle
tacite, ma altrettanto consistenti, della società. Fréderic Lenoir, riflettendo
sulla propria esperienza e sulle difficoltà incontrate per poter esprimere la
propria natura, scrive: «Diamo
un’immagine di noi che corrisponde a ciò che gli altri si aspettano da noi. O a
ciò che immaginiamo si aspettino da noi, per piacere loro, per essere
socialmente accettabili. […] La mia esperienza è stata così. Per anni ho avuto
bisogno di piacere agli altri, sacrificando me stesso. Pensavo di poter essere
amato solo a questa condizione. Dicevo sì quando invece volevo dire no.
Accettavo cose che mi costavano fatica e sofferenza». E il filosofo Umberto
Galimberti avverte: «realizzo chi sono o
ciò che vuole l’apparato?», e ancora: «Siamo
certi che la vita che viviamo sia la nostra?». Perché dall’autorealizzazione
dipende la nostra felicità. Per questo, ammonisce il filosofo: «Distratti da noi, fino a diventare perfetti
sconosciuti, ci arrampichiamo ogni giorno su pareti lisce per raggiungere
modelli di felicità che abbiamo assunto dall'esterno […], naufragando ogni
giorno, perché quei modelli probabilmente sono quanto di più incompatibile
possa esserci con la nostra personalità». Il pericolo di soddisfare i
desideri degli altri è davvero grande. Ma come si fa a diventare ciò che si è?
Un caro saluto,
Alberto
lunedì 10 maggio 2021
Ama e fa' quel che vuoi
È una massima piuttosto nota e davvero molto
bella. È una sorta di suprema riduzione effettuata da S. Agostino delle
prescrizioni del mondo ebraico e cristiano. Secondo la “Bibbia” Dio ha dato a Mosè i dieci comandamenti sul monte Sinai. E
Gesù ha riassunto il decalogo in quello che è conosciuto come il duplice
comandamento dell’amore: “Ama il Signore
Dio tuo con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutta la tua mente. Questo
è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo:
Ama il prossimo tuo come te stesso”. È possibile un’ulteriore riduzione di
questo binomio in un’unica norma ancora più sintetica? Aurelio Agostino
compendia tutte le regole in un’espressione apparentemente elementare: «Dilige et quod vis fac», ossia «Ama e fa’ quello che vuoi». Questa
direttiva è composta da due parti, ossia due imperativi: il primo è: «ama», e il secondo è: «fa’ ciò che vuoi». Dei due, il secondo è
immediatamente comprensibile: «fa’ ciò
che vuoi» ha un carattere intuitivo, eppure richiede qualche riflessione.
Comanda infatti di realizzare quello che la volontà suggerisce, ma solo dopo
aver rispettato l’imperativo di amare. Non si tratta quindi di un generico e
ghiotto invito ad agire in modo indiscriminato, compiendo semplicemente ciò che
si ritiene giusto ed opportuno, né tantomeno si tratta di una sollecitazione ad
assecondare prontamente l’istinto. Fai ciò che vuoi – ma solo se sei in grado
di amare – da questo momento verrà considerato il fondamento dell’etica
cristiana. Insomma, chi è in grado di amare non deve preoccuparsi eccessivamente
della rettitudine delle proprie azioni, perché se la radice da cui esse scaturiscono
è l’amore, da esse seguirà necessariamente il bene. Questo perché, secondo
Agostino, a partire dall’amore la volontà è indirizzata umanamente e
cristianamente. Così, l’uomo che si sottomette a tale legge non può produrre
errori che conducano ad esiti moralmente riprovevoli. Egli chiarisce bene questo
concetto nel “Commento alla Prima Lettera
di Giovanni” quando scrive: «sia in
te la radice dell’amore, poiché da questa radice non può procedere se non il
bene». Ecco allora i suoi consigli: «sia
che tu taccia, taci per amore; sia che tu parli, parla per amore; sia che tu
corregga, correggi per amore; sia che perdoni, perdona per amore». La parte
più problematica della prescrizione agostiniana – che sentiamo ora ripetere con
una certa ridondanza – è certamente la prima e consiste nella corretta
comprensione dell’imperativo «ama». Pur essendo un verbo assai familiare e
apparentemente chiarissimo, è proprio sul significato dell’amore che si creano le
maggiori ambiguità. L’amore non è da intendersi come legame sentimentale tra persone e neppure come attrazione fisica. La traduzione che verosimilmente
si avvicina di più all’intenzione di Gesù, secondo il teologo svizzero
contemporaneo Hans Küng recentemente scomparso, potrebbe essere espressa in
questo modo: «un’esistenza-per-gli-altri
piena di disponibilità e di aiuto», seguendo l’esempio di Cristo. Se questa
è la radice dell’amore, da essa deriva certamente un’etica nuova e
rivoluzionaria. Nell’opera Cristianesimo.
Essenza e storia, Hans Küng suggerisce di declinare il “volere” a partire
dall’amore, facendo riferimento a queste riflessioni di un autore a lui ignoto:
«Il dovere senza amore rende uggiosi; il
dovere compiuto nell’amore rende equilibrati. La responsabilità senza amore
rende spietati; la responsabilità esercitata nell’amore rende premurosi. La
giustizia senza amore rende duri; la giustizia praticata nell’amore rende
coscienziosi. L’educazione senza amore rende contraddittori; l’educazione
praticata nell’amore rende pazienti. La saggezza senza amore rende scaltri; la
saggezza esercitata nell’amore rende comprensivi. La gentilezza senza amore
rende ipocriti; la gentilezza esercitata nell’amore rende buoni. L’ordine senza
amore rende meschini; l’ordine esercitato nell’amore rende magnanimi. La
competenza senza amore rende prepotenti; la competenza esercitata nell’amore
rende degni di fiducia. Il potere senza amore rende violenti; il potere
esercitato nell’amore rende disponibili all’aiuto. L’onore senza amore rende
superbi; l’onore praticato nell’amore rende moderati. Il possesso senza amore
rende avari; il possesso praticato nell’amore rende liberali. La fede senza
amore rende fanatici; la fede praticata nell’amore rende tolleranti». Si
può ottenere un analogo risultato di elevazione morale utilizzando altri verbi?
Proviamo con “vivere” e “lavorare”: «Vivi
e fa’ quel che vuoi», oppure «lavora
e fa’ quel che vuoi». In entrambi i casi avvertiamo immediatamente che in
queste ulteriori raccomandazioni sembra mancare qualcosa. L’attenzione alla
persona e il rispetto dell’altro non sono affatto impliciti nell’ordine. Non è
detto, infatti, che vivere e fare ciò che si vuole sia un buon modo di relazionarsi
con il prossimo; e neppure il nesso tra lavorare e agire sembra nobilitare l’azione
dell’uomo a dignità morale. In entrambe le sentenze si riconosce che l’altro
non è tutelato o è posto in secondo piano: non è garantita la sua sopravvivenza
e non è assicurato il suo benessere. Se nelle ultime due massime le
prescrizioni all’imperativo non modificano l’agire dell’uomo, l’invito di
Agostino mostra la potenza eccezionale dell’amore nel determinare la metamorfosi
dei comportamenti umani: assistiamo al passaggio dall’invito a un semplice operare nel mondo all’agire etico.
Un caro saluto,
Alberto
lunedì 3 maggio 2021
La trama nascosta 2/2
L’idea che la trama della realtà sia accessibile alla mente dell’uomo è stata condivisa dagli alchimisti di ogni tempo: con le loro bizzarre e sofisticate pratiche quotidiane essi hanno infatti pensato di cogliere la rete invisibile che unisce i fenomeni. Hanno considerato tuttavia che solo alcune persone particolarmente istruite nelle discipline più disparate potessero avere accesso a tale dimensione profonda e “occulta”. La scienza occidentale è nata invece rifiutando il rapporto privato e personale tra alcuni iniziati e la natura. Essa ritiene che l’universo e le sue leggi si offrano in modo invariante a tutti coloro che ne conoscono il linguaggio. Il suo obiettivo è pertanto quello di individuare i codici oggettivi in cui la natura si esprime. Nel periodo in cui è nata la scienza moderna, lo sforzo di unire fisica e metafisica – nel tentativo di spiegare proprio tutto – è stato davvero notevole. Alcuni filosofi hanno sentito la necessità non solo di dare conto dei fenomeni naturali, ma di esplicitare la trama sotterranea che annoda ogni singolo aspetto: pensiero, natura e Dio. Baruch Spinoza ha tentato di mostrare una sorta di codice unitario, scrivendo un libro meraviglioso intitolato “Etica” (1677) in cui ha provato a tenere insieme l’intreccio tra Dio e il mondo attraverso un modello geometrico, dove il disegno razionale della realtà, che funge da ordito, gradualmente si manifesta e si lascia comprendere. Grazie a questa gigantesca impresa geometrizzante egli ha affermato pertanto che «l’ordine e la connessione delle idee è lo stesso che l’ordine e la connessione delle cose» («ordo et connexio idearum idem est ac ordo et connexio rerum»). C’è un ordine perenne di ciò che esiste e i legami tra i vari elementi sono necessari. La parola “necessario”, in logica, non significa qualcosa di cui si ha bisogno, qualcosa di fondamentale o indispensabile; significa semplicemente un elemento inevitabile, ossia conseguente da un punto di vista razionale. Qualche secolo dopo anche il filosofo tedesco Friedrich Hegel nei «Lineamenti di filosofia del diritto» (1820) ha un’idea pressoché analoga a quella di Spinoza quando afferma che «Ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale». Dal suo punto di vista l’infinito si concretizza nella realtà e nella coscienza. L’infinito diventa finito e diventa consapevole di sé nell'uomo, manifestando la logica del cosmo. Oltre ad una realtà che si può rispecchiare nel pensiero o ad un pensiero che è trama della realtà, nel corso del tempo sono emerse altre trame. C’è una struttura chimica della materia, compendiata nella tavola di Mendeleev, secondo cui dalla combinazione di un certo numero di elementi si possono pertanto generare tutti gli oggetti esistenti. E c’è la trama del genoma degli esseri viventi e dell’uomo stesso. Dall’esterno ammiriamo corpi di diversa fattezza, ma sappiamo che ogni elemento è retto da una logica sottostante, quella del Dna, che gli fa da supporto. Ci sono poi le strutture della psiche individuale e collettiva esplorate dalla psicologia e dalla psicoanalisi che si sforzano di portare alla luce la dimensione “profonda” dell’attività mentale. Ma le trame impercettibili si moltiplicano: quelle nascoste in una classe, in un gruppo di amici, in una famiglia, sul luogo di lavoro, in una relazione d’amore. Siamo costantemente sorretti da trame che non vediamo. Nasciamo in un preciso contesto storico, con consuetudini etiche che respiriamo dalla nascita in famiglia e nella comunità di appartenenza e che ci consentono di orientarci e di relazionarci con il prossimo. Ma nasciamo anche in uno Stato che concede diritti e garantisce libertà a partire da una costituzione. Senza saperlo ci muoviamo in un intreccio di diritti predisposto attentamente da coloro che ci hanno preceduto: la famiglia, la comunità, lo Stato. Prendiamo atto di quell’articolato ordito di norme e convenzioni solo in un secondo tempo, quando siamo in grado di accostare e comparare sistemi di riferimento normativi ed etici differenti. Il filosofo italiano Salvatore Natoli ne “Il rischio di fidarsi” ricorda che anche la fiducia primaria nel mondo e negli uomini nasce in un contesto di trame che anticipano la nostra nascita. Scrive Natoli: «da dove viene la fiducia? Perché ci consegniamo in mani d'altri? Perché qualcuno – chiunque egli fosse – al nostro entrare nel mondo ci ha preso per mano, avviandoci in esso. Ci ha originariamente rassicurato, ci ha preso in custodia – senza contraccambio – e da lui abbiamo appreso che ci si può fidare. […] Vi è stato «un» qualcuno che ha avuto cura di noi senza che lo chiedessimo […]. Nei fatti, qualcuno è da assumere in senso lato: sono i legami parentali, le regole comportamentali, le tradizioni familiari, il senso di appartenenza, i sistemi di credenza. Tutto ciò ci dà «certezza del mondo» e insieme la certezza che in esso si può sempre trovare qualcosa o qualcuno su cui fare assegnamento». Anche la nostra fiducia scaturisce dal radicamento in una certezza originaria che ci consente di entrare nel mondo e di aprirci ad esso. Tanti fili sottili ma consistenti, dunque, rendono possibile la vita del cosmo, della natura e delle varie dimensioni dell’attività umana. Ci muoviamo su di essi come pattinatori che tracciano il loro percorso sorretti da una pista di ghiaccio. Il ghiaccio è l’arcano “Logos” di Eraclito, l’origine delle trame.
Un caro saluto,
Alberto