Nel terzo libro del poema “De rerum natura”, “La natura delle cose” Tito Lucrezio Caro, il principale esponente dell’epicureismo romano del I sec. a.C., scrive: «Vitaque mancipio nulli datur, omnibus usu», «la vita non è data in proprietà a nessuno, ma in uso a tutti». La vita non ci appartiene. O forse ci appartiene solo in parte. Nessuno ha generato se stesso, ognuno ha ricevuto la vita da altri; per questo spesso si dice che la vita è un dono. E Lucrezio ricorda che questo dono è di natura particolare: non è definitivo, ma provvisorio. Come si riceve in prestito un libro, un appezzamento di terra o un appartamento per le vacanze. Prima o poi occorre restituirlo. Prima o poi, dunque, dovremo rendere il bene più prezioso che abbiamo: la vita intera. Si tratta certamente di un debito singolare. In genere, quando si prende in prestito un libro dalla biblioteca, si conosce la data di scadenza. Conoscere il termine ultimo condiziona il tempo residuo a disposizione. Posso accelerare la lettura per completare l’opera o rinunciare ad essa, ma ogni giorno so esattamente quanto manca alla scadenza. La vita, invece, non ha un limite univoco: nessuno sa se diventerà vecchio o morirà giovane o in età matura; così, senza tale certezza è più faticoso e problematico organizzare efficacemente il tempo in funzione di una fine inevitabile, ma indefinita. Talvolta si sprecano le opportunità e talvolta si è presi da angoscia e disorientamento. Il fatto che la vita vada consegnata tassativamente, senza eccezioni, ci ricorda che è un bene diverso dagli altri. Ci si può anche dimenticare di restituire un libro, andando incontro alla sanzione della biblioteca o al biasimo di un amico; ma anche se ci dimenticassimo dell’impegno preso alla nascita, la vita verrebbe restituita comunque, indipendentemente dalla nostra memoria o dalla nostra volontà. Quando si restituisce qualcosa di solito si ringrazia. Perché si è consapevoli di aver usufruito di un bene e ne si avverte il giovamento. Della vita sappiamo ringraziare? Consci di non averla ottenuta per i nostri meriti, spesso la abbandoniamo con un certo fastidio. A meno che non siamo sopraffatti da dolori irreversibili, cerchiamo sempre delle proroghe. E anche coloro che oggi fanno tentativi per ibernare il proprio corpo, e vorrebbero continuare a vivere in futuro, magari in eterno, molto probabilmente anch’essi dovranno restituire la vita. Qualcuno ringrazia Dio per aver preso parte ad un’esperienza straordinaria e pensa di restituire a lui la vita in prestito; altri esprimono una sorta di soddisfazione del pensiero, consapevoli di essere inseriti in un cosmo complesso che eccede la comprensione individuale e collettiva. Ciò che abbiamo ricevuto in prestito: libro, terreno o vita, possiamo però usarlo efficacemente per crescere e per potenziare noi stessi, ma, secondo Lucrezio, non dovremmo mai lamentarci per la restituzione. In questo senso i filosofi dell’antichità dicevano che gli uomini sono stolti a reclamare altro tempo. Lucrezio scrive che l’uomo è come un «pozzo senza fondo» che non si accontenta mai, sempre pronto a esigere nuovi tempi supplementari. Ma se è stato in grado di gioire per quello che ha avuto e non si è disposto nei confronti della vita come un «paiolo bucato» che mai si potrà riempire d’acqua, dovrà anche imparare gradualmente a cedere alla «necessità ineluttabile» dell’esistenza. Va da sé che il problema per gli uomini è sempre legato alla restituzione. Quello che abbiamo non lo restituiamo facilmente, vogliamo tenerlo per noi, magari per un tempo illimitato. Si può restituire la vita ringraziando, come pensavano epicurei e stoici, godendo del tempo avuto a disposizione e mettendolo a frutto. C’è tuttavia una differenza tra restituire un abito di scena affittato per una recita e restituire la vita. Si indossa l’abito di scena, poi lo si cede, ma si rimane quelli di prima. Cosa rimane di noi dopo la restituzione della vita? C’è ancora differenza tra soggetto e oggetto? Secondo Lucrezio la restituzione è totale. Ci sarà ancora altra vita, quella della natura, ma non ci saremo più noi. La poetessa polacca Wisława Szymborska, premio Nobel per la letteratura nel 1996, ha scritto una bellissima poesia su questa tematica dal titolo: “Nulla è in regalo”. «Nulla è in regalo, tutto è in prestito. / Sono indebitata fino al collo. / Sarò costretta a pagare per me / con me stessa, / a rendere la vita in cambio della vita. / È così che è stabilito, / il cuore va reso / e il fegato va reso / e ogni singolo dito. // È troppo tardi per impugnare il contratto. / Quanto devo / mi sarà tolto con la pelle. // Me ne vado per il mondo / tra una folla di altri debitori. / Su alcuni grava l’obbligo / di pagare le ali. // Altri dovranno, per amore o per forza, / rendere conto delle foglie. // Nella colonna Dare / ogni tessuto che è in noi. / Non un ciglio, non un peduncolo / da conservare per sempre. // L’inventario è preciso, / e a quanto pare / ci toccherà restare con niente. // Non riesco a ricordare / dove, quando e perché / ho permesso che aprissero / questo conto a mio nome. // La protesta contro di esso / la chiamiamo anima. / E questa è l’unica voce / che manca nell’inventario». Szymborska e Lucrezio hanno punti di vista differenti: la prima ritiene che l'anima sia esclusa dalle cose da restituire, il secondo è convinto che anche tale voce faccia parte dell’inventario.
Un caro saluto,
Alberto
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