Il tema del tempo è caro a Lucio Anneo Seneca, il filosofo stoico
romano del I sec. d.C., che dedica il libro “De brevitate vitae”, “La
brevità della vita”, a chiarire la differenza tra vivere ed esistere. Il
libro è rivolto a Paolino, un funzionario di Stato che si sta ritirando dall’attività,
a cui il filosofo offre alcuni eccellenti consigli per la vecchiaia. L’opera
inizia riferendo una popolare lagnanza degli uomini che protestano contro la «taccagneria» della natura, madre
ingenerosa che concede all’uomo solo una manciata di anni per vivere («nasciamo destinati ad una vita molto breve
ed il tempo che ci è stato assegnato scorre tanto veloce»). Una lamentela che
Seneca ritiene propria non solo dell’uomo comune, ma spesso anche di persone di
cultura o di presunti saggi (e che appartiene anche all’uomo contemporaneo quando
pensa: «avevo troppe cose da fare e
troppo poco tempo per farle»). Seneca intende confutare tale tesi e già all’inizio
dell’opera chiarisce la propria posizione, contraria al sentire abituale: «Non è vero che abbiamo poco tempo: la verità
è che ne perdiamo molto». Spesso, secondo l’autore, lasciamo scorrere la
vita tra pigrizia e apatia, incapaci di mettere a fuoco le opportunità: siamo
sostanzialmente degli «sciuponi». Il
tempo viene così paragonato ad una grande ricchezza che può cadere nelle mani
di un re o un padrone inetto ed essere pertanto rapidamente dissipata, oppure nelle
mani di una persona abile e responsabile in grado di moltiplicarla nel corso degli
anni. Il fatto che gli uomini non trovino tempo da dedicare a se stessi, di
guardarsi dentro o – per dirla nel linguaggio giuridico – di «darsi udienza», significa che non hanno
imparato a vivere bene. Siamo, in fondo, esseri un po’ singolari: «avari delle nostre cose e prodighi di noi
stessi», dice l’autore; mentre quando
si tratta di perdere tempo diventiamo
«quanto mai prodighi dell'unico bene
di cui è bello essere avari». Destiniamo parte della vita alle polemiche, a
rivangare dissapori, alla chiacchiera, alle relazioni superficiali, alle preoccupazioni
futili, alle visite di convenienza, e molto altro tempo rimane inutilizzato. Tanto
che se sottraessimo dalla nostra vita tutti gli istanti sprecati, saremmo molto
più giovani dell’età cronologica che ci caratterizza. Seneca biasima coloro che
pensano di riservare del tempo per sé solo quando si ritireranno dal lavoro
attivo, che al tempo voleva dire a cinquanta o a sessant’anni. Chi garantisce
che avranno la fortuna di vivere così tanto e perché gli uomini dovrebbero dedicare
a se stessi solo dei «rimasugli di vita»?
Egli cita tre persone famose che si sono rammaricate: il grande Augusto – l’uomo
in grado di determinare le sorti dei popoli e degli uomini – in una lettera anticipava
con la fantasia la propria vita privata; Cicerone, «insoddisfatto nella prosperità ed insofferente nell'avversità», in
una lettera ad Attico rimpiangeva il passato, si lamentava del presente e
disperava del futuro; così il famoso tribuno Livio Druso malediceva la sua vita
irrequieta. Lamentarsi non serve. Secondo Seneca occorre organizzare le
giornate «come se ciascuna valesse una
vita», senza desiderare né temere il domani. Chi vive così non vacilla di
fronte alla sorte: la fortuna gli può predisporre ogni impedimento, ma la sua
vita è già al sicuro. Certo, qualcosa si può sempre aggiungere ad essa, ma nulla le si
può togliere e, scrive il filosofo, «le
aggiunte sono come il poco cibo che si offre ad un uomo già abbastanza sazio:
lo accetta, ma non lo desidera». C’è dunque una grande differenza tra
vivere ed esistere: si può esistere a lungo, sino ad avere i capelli bianchi,
ma non è detto che l’esistenza sia stata soddisfacente. Chi esce dal porto e si
muove in cerchio sul medesimo tratto di mare, perché sballottato da una brutta
tempesta, non si può dire che abbia navigato: è stato semplicemente spinto dalle
onde. Occorre quindi fare tesoro del tempo, perché «Nessuno ti restituirà gli anni, nessuno ti restituirà a te stesso».
Ecco l’invito a «vivere subito» senza
programmare oltremisura il futuro, perdendo di vista la quotidianità. Seneca esorta
a non vivere alienati, perché il futuro è incerto. Nelle nostre mani è solo il
presente, che dobbiamo abitare adeguatamente («devi contrapporre alla rapidità del tempo la tua prontezza nell'usarlo,
devi attingere come da un torrente rapido, che non scorrerà sempre»). Seneca
riprende così un’intuizione di Lucrezio e scrive: «come non giova a nulla versare nel vaso grandi quantità di liquido, se
non c'è un fondo che lo riceva e conservi, così non importa la quantità di
tempo che viene loro concessa, se non trova dove depositarsi: filtra attraverso
animi sconnessi e sforacchiati». Solo il saggio non spreca le opportunità, perché
dialogando con i grandi del passato aggiunge il loro tempo al proprio. Le fatiche
degli antichi hanno portato alla luce realtà meravigliose e chi dialoga con
loro può spaziare nel tempo. Conversare con i grandi significa aggiungere istanti
preziosi alla vita, comprendendo più rapidamente ciò che da soli non saremmo in
grado di conoscere. È preferibile dunque sottrarsi alla folla e rifugiarsi in
un posto tranquillo. E poiché Paolino è un amministratore, Seneca gli dice che
è meglio tenere in ordine il registro della propria vita che qualunque altro fascicolo
di cui quotidianamente e con tanta cura ci occupiamo.
Alberto
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