lunedì 27 dicembre 2021
Homo homini lupus
lunedì 20 dicembre 2021
Cogito, ergo sum 3/3
Se abbandoniamo la strada del «cogito» tracciata da Cartesio –, che procede
prima a mostrare l’esistenza di una «cosa
pensante», poi si inerpica fino alla dimostrazione dell’esistenza di Dio, e
una volta dimostrata tale esistenza scopre che Dio, in quanto «fonte della verità», garantisce che la
realtà che si presenta ai nostri occhi non è effimera e simulata come quella di
Matrix, ma è unica e attendibile –, ci rendiamo conto che molti filosofi e
scrittori hanno utilizzato la locuzione inventata dal filosofo con infinite
varianti. Dalla più antica: Dubito, ergo
sum, di S. Agostino, fino ad arrivare ad Amo, dunque sono (1927), titolo del romanzo di Sibilla Aleramo (pseudonimo
di Rina Faccio), la poetessa e narratrice italiana del secolo scorso che si è
occupata molto della condizione femminile. Le varianti sono tante: Cogito ergo soffro, quando il pensiero amplifica
il dolore: una dimensione indagata in ambito psicoterapeutico da parte di Giorgio
Nardone e Giulio De Santis; Non cogito
ergo digito, titolo del romanzo dello scrittore Antonio Rezza, ma che
ricorda le frettolose sentenze generate sui social come reazione immediata a
qualche notizia; oppure Sum, ergo cogito,
del fisico Nicola Dallaporta Xydias, il quale, invertendo le parti, sottolinea
come prima venga l’essere e poi il pensiero; fino a Cogito, ergo amo di Antonio Maurizio Cirigliano, ove solo la
comprensione della realtà ad un livello meno egoistico e antropocentrico può
disporre all’amore del prossimo e del pianeta. Al di là delle ragionevoli e intelligenti
combinazioni tra verbi che vengono accostati con l’obiettivo di sollecitare
nuove riflessioni, il percorso prende una piega curiosa quando viene rivisitato
in chiave religiosa o semplicemente esistenziale. Il teologo svizzero Karl
Barth ha riformulato il detto cartesiano alla forma passiva: non «cogito», ossia «penso», ma «cogitor», «sono pensato». L’effetto è meraviglioso:
«Sono pensato, quindi esisto», oppure
«sono amato, quindi esisto». Per il
mondo cristiano, infatti, l’uomo è pensato e amato da Dio. Il teologo italiano Bruno
Forte, in “Parola e silenzio nella
riflessione teologica” scrive infatti: «Non
è più possibile dire: Cogito ergo sum. Dovremmo dire piuttosto: Cogitor ergo
sum; amor ergo sum. Io esisto non perché penso, non perché amo, ma perché
scopro di essere pensato, di essere amato. Scopro che la mia casa non è la mia,
ma è la casa dell' Altro in cui io esisto, da cui io vengo. Nell'abisso del
silenzio di esistere, io scopro di essere donato a me stesso». Nel mondo
cristiano l’esistenza è concepita come un dono che Dio fa all’uomo e grazie al
pensiero l’uomo può scoprire l’amore che Dio ha per lui. A partire da questa
fonte originaria di amore egli ricava la forza per generare altro amore nei
confronti del prossimo. Accanto a questa dimensione che apre alla trascendenza se
ne affianca un’altra esclusivamente umana. Sappiamo quanta energia si ricava
dall’essere immaginati, pensati e amati e dall’avvertire profondamente tali sensazioni.
La certezza di esistere – che consiste nell’intuire la nostra dignità e di
essere importanti almeno per qualcuno – è infatti data dal riconoscimento dell’altro:
ne abbiamo bisogno sia per acquisire un’identità sia per identificarci in un
gruppo. L’esperienza del riconoscimento da parte dell’altro fortifica l’idea
che ognuno si fa di sé, esattamente come l’esperienza del disconoscimento fa
soffrire e annulla l’individuo, perché lo isola, lo emargina e lo esclude da ogni
possibile condivisione. Il primo approccio compone l’identità, il secondo la
nega. Una poesia di Ángel González Muñiz, poeta spagnolo del secolo scorso, tratta
dalla raccolta “Aspro mondo” e
intitolata “Morte nell’oblio” esprime
bene questo concetto. Scrive l’autore: «So
di esistere / perché tu mi immagini. / Sono alto perché tu mi pensi / alto, e
sincero perché mi guardi / con occhi buoni, / con sguardo sincero. / Il tuo
pensiero mi rende / intelligente e nella tua semplice / tenerezza anch’io sono
semplice / e generoso. / Se tu però mi dimenticassi / io morirei senza che
nessuno / se ne accorgesse. Vedranno la mia carne / vivere, ma sarà un altro
uomo / – mediocre, goffo, malvagio – ad abitarla...». Ogni essere umano
cresce nell’immaginazione dell’altro, se qualcuno ne avverte le potenzialità e
aiuta a scoprirle. Tuttavia, la studiosa Ursula Frohne, in risposta alla
diffusione delle webcam, ha teorizzato che oggi «essere è essere visti». È utile allora leggere parallelamente il
libro dello psichiatra Giovanni Stanghellini, “Selfie. Sentirsi nello sguardo dell’altro”. L’autore riflette sul
fatto che oggi non è più il cogito a garantire l’esistenza; egli muta il detto
cartesiano in: «Videor, ergo sum», «sono visto, dunque sono», in quanto,
secondo l’autore, la «fame d’esserci»
viene oggi compensata dalla «bulimia
dell’immagine». Facendo riferimento a Sartre, egli ricorda che «si può
sentire, fare esperienza del proprio corpo in quanto ente
guardato da un’altra persona». Lo sguardo degli altri diventa allora la
condizione necessaria per sentire se stessi. Non siamo dunque più in grado di
avvertire la nostra esistenza senza essere attraversati dallo sguardo
dell’altro. È l’ultima frontiera per avere la certezza di esistere? Secondo Wendy
Chun, forse no, perché nell'era dei social media «essere è essere aggiornati». La vera esistenza si avverte se si è
al passo con il mondo, se si è perfettamente inseriti nel presente: informati,
ammodernati. O forse, semplicemente: integrati.
Un caro saluto,
Alberto
lunedì 13 dicembre 2021
Cogito, ergo sum 2/3
C’è un’unica certezza che neanche il dubbio può intaccare: l’evidenza
di esistere. Ma che cosa esiste esattamente? Un uomo? Un corpo? In realtà potremmo
ancora ingannarci sui risultati delle nostre percezioni e dietro l’angolo potrebbe
sempre esserci il genietto maligno che si beffa di noi. Per ora possiamo solo
affermare che c’è «qualcosa che pensa».
Per poter dubitare, ed eventualmente essere ingannati su tutto, occorre
necessariamente che qualcosa esista, anche nella sola forma del pensiero. “Io penso, dunque io esisto” non è però il
frutto di un ragionamento – di un sillogismo –, ma è un’intuizione immediata
della mente – come una luce che illumina l’esistenza di una realtà nel momento
in cui si accende – tanto che nelle “Meditazioni
metafisiche” (1641) l’autore abbrevierà ancora l’espressione in un
laconico: “io sono, io esisto”. Ma
per quanto tempo? Beh, abbiamo la certezza di esistere almeno per tutto il
tempo in cui pensiamo. Quella cosa che pensa è tuttavia anche «una cosa che dubita, che concepisce, che
afferma, che nega, che vuole, che non vuole, che immagina anche, e che sente».
Di cosa parliamo quando parliamo della coscienza «che ci abbandona alla sera quando ci addormentiamo e ricompare al
mattino quando ci svegliamo»? Cartesio ha immaginato l’esistenza di una “cosa pensante” completamente separata
dal corpo: «una sostanza la cui intera
essenza o natura non è che pensare, e che, per essere, non ha bisogno di alcun
luogo, né dipende da alcuna cosa materiale. Cosicché questo io, ovvero l’anima
per la quale sono quel che sono, è interamente distinta dal corpo ed è anche
più facile a conoscersi di esso e, quand’anche il corpo non esistesse, l’anima
non cesserebbe di essere tutto ciò che è». Nella IV parte del “Discorso sul metodo”, egli afferma che
ad un certo punto della propria ricerca ha constatato il fatto che il pensiero
e il corpo sono due nature completamente diverse. Le ha chiamate “sostanze”,
per indicare due oggetti eterogenei: il pensiero, è denominato “res cogitans”, il corpo, “res extensa”. Cartesio ha concepito il
pensiero incorporeo, e non fisico; aspaziale, a differenza della materia che ha
estensione ed è riconducibile alle tre dimensioni; libero, mentre gli oggetti
della fisica sono sottoposti alle leggi della natura e dunque meccanicamente
determinati; consapevole, a differenza della materia che è ignara di esistere e
di ciò che accade. Anche il tempo funzionerebbe in modo diverso per queste due
realtà: se nella fisica scorre in un’unica direzione, il pensiero non sembra essere
sottoposto ad alcun vincolo e si può muovere avanti e indietro affrancandosi
ancora una volta dalla modalità a cui è sottoposta la materia. Nell’era dei
computer, non si poteva certo escludere la metafora del cervello come hardware,
la macchina e della mente come software, il pensiero, la coscienza. Già, ma se
si segue l’esempio di Cartesio e li si considera strutturalmente eterogenei
allora è difficile che possano interagire. Il filosofo britannico Gilbert Ryle
in “Il concetto di mente” nel 1949 ha
qualificato questo modo di considerare il rapporto mente e corpo con l’immagine
dello «spettro nella macchina» e ha
rigettato tale idea come un «mito». Il
premio Nobel per la medicina, Gerald M. Edelman, ha invece ritenuto che le
nuove ricerche sulla mente dell’inizio del secolo scorso avrebbero condotto ad
una «rivoluzione scientifica di più ampia
portata». E così è stato: le neuroscienze hanno mostrato che la mente è un
prodotto dell’evoluzione e non è una “sostanza” in senso cartesiano. Più che
due cose diverse, oggi si tende a pensare che la mente sia un processo e non
una cosa o un oggetto immateriale. Il neuroscienziato portoghese Antonio
Damasio, ha curiosamente intitolato un libro “L’errore di Cartesio”. In quest’opera egli ricorda semplicemente che
prima viene il corpo (l’essere) e poi gradualmente l’attività del pensiero.
Scrive pertanto: «A un certo punto
dell'evoluzione, una coscienza elementare ebbe inizio. Con essa arrivò una
mente, semplice; aumentando la complessità della mente, sopravvenne la
possibilità di pensare e, ancora più tardi, di usare il linguaggio per
comunicare e organizzare meglio il pensiero. Per noi, allora, all'inizio vi fu
l'essere e solo in seguito vi fu il pensiero; e noi adesso, quando veniamo al
mondo e ci sviluppiamo, ancora cominciamo con l'essere e solo in seguito
pensiamo. Noi siamo, e quindi pensiamo; e pensiamo solo nella misura in cui
siamo, dal momento che il pensare è causato dalle strutture e dalle attività
dell'essere». Presentando i risultati dell’attività della propria ricerca,
egli sottolinea il malinteso di Cartesio dicendo: «Eccolo, l’errore di Cartesio: ecco l’abissale separazione tra corpo e
mente - tra la materia del corpo, dotata di dimensioni, mossa meccanicamente,
infinitamente divisibile, da un lato, e la “stoffa” della mente, non
misurabile, priva di dimensioni, non attivabile con un comando meccanico, non
divisibile; ecco il suggerimento che il giudizio morale e il ragionamento e la
sofferenza che viene dal dolore fisico o da turbamento emotivo possano esistere
separati dal corpo. In particolare: la separazione delle più elaborate attività
della mente dalla struttura e dal funzionamento di un organismo biologico».
Egli ricorda che l’uomo è un’unità psico-fisica. Spinoza l’aveva capito. Ed è
per questo che il neurobiologo, evidentemente appassionato di filosofia, ha
continuato la propria opera di divulgazione con un secondo libro dal titolo “Alla ricerca di Spinoza”.
Un caro saluto,
Alberto