Se abbandoniamo la strada del «cogito» tracciata da Cartesio –, che procede
prima a mostrare l’esistenza di una «cosa
pensante», poi si inerpica fino alla dimostrazione dell’esistenza di Dio, e
una volta dimostrata tale esistenza scopre che Dio, in quanto «fonte della verità», garantisce che la
realtà che si presenta ai nostri occhi non è effimera e simulata come quella di
Matrix, ma è unica e attendibile –, ci rendiamo conto che molti filosofi e
scrittori hanno utilizzato la locuzione inventata dal filosofo con infinite
varianti. Dalla più antica: Dubito, ergo
sum, di S. Agostino, fino ad arrivare ad Amo, dunque sono (1927), titolo del romanzo di Sibilla Aleramo (pseudonimo
di Rina Faccio), la poetessa e narratrice italiana del secolo scorso che si è
occupata molto della condizione femminile. Le varianti sono tante: Cogito ergo soffro, quando il pensiero amplifica
il dolore: una dimensione indagata in ambito psicoterapeutico da parte di Giorgio
Nardone e Giulio De Santis; Non cogito
ergo digito, titolo del romanzo dello scrittore Antonio Rezza, ma che
ricorda le frettolose sentenze generate sui social come reazione immediata a
qualche notizia; oppure Sum, ergo cogito,
del fisico Nicola Dallaporta Xydias, il quale, invertendo le parti, sottolinea
come prima venga l’essere e poi il pensiero; fino a Cogito, ergo amo di Antonio Maurizio Cirigliano, ove solo la
comprensione della realtà ad un livello meno egoistico e antropocentrico può
disporre all’amore del prossimo e del pianeta. Al di là delle ragionevoli e intelligenti
combinazioni tra verbi che vengono accostati con l’obiettivo di sollecitare
nuove riflessioni, il percorso prende una piega curiosa quando viene rivisitato
in chiave religiosa o semplicemente esistenziale. Il teologo svizzero Karl
Barth ha riformulato il detto cartesiano alla forma passiva: non «cogito», ossia «penso», ma «cogitor», «sono pensato». L’effetto è meraviglioso:
«Sono pensato, quindi esisto», oppure
«sono amato, quindi esisto». Per il
mondo cristiano, infatti, l’uomo è pensato e amato da Dio. Il teologo italiano Bruno
Forte, in “Parola e silenzio nella
riflessione teologica” scrive infatti: «Non
è più possibile dire: Cogito ergo sum. Dovremmo dire piuttosto: Cogitor ergo
sum; amor ergo sum. Io esisto non perché penso, non perché amo, ma perché
scopro di essere pensato, di essere amato. Scopro che la mia casa non è la mia,
ma è la casa dell' Altro in cui io esisto, da cui io vengo. Nell'abisso del
silenzio di esistere, io scopro di essere donato a me stesso». Nel mondo
cristiano l’esistenza è concepita come un dono che Dio fa all’uomo e grazie al
pensiero l’uomo può scoprire l’amore che Dio ha per lui. A partire da questa
fonte originaria di amore egli ricava la forza per generare altro amore nei
confronti del prossimo. Accanto a questa dimensione che apre alla trascendenza se
ne affianca un’altra esclusivamente umana. Sappiamo quanta energia si ricava
dall’essere immaginati, pensati e amati e dall’avvertire profondamente tali sensazioni.
La certezza di esistere – che consiste nell’intuire la nostra dignità e di
essere importanti almeno per qualcuno – è infatti data dal riconoscimento dell’altro:
ne abbiamo bisogno sia per acquisire un’identità sia per identificarci in un
gruppo. L’esperienza del riconoscimento da parte dell’altro fortifica l’idea
che ognuno si fa di sé, esattamente come l’esperienza del disconoscimento fa
soffrire e annulla l’individuo, perché lo isola, lo emargina e lo esclude da ogni
possibile condivisione. Il primo approccio compone l’identità, il secondo la
nega. Una poesia di Ángel González Muñiz, poeta spagnolo del secolo scorso, tratta
dalla raccolta “Aspro mondo” e
intitolata “Morte nell’oblio” esprime
bene questo concetto. Scrive l’autore: «So
di esistere / perché tu mi immagini. / Sono alto perché tu mi pensi / alto, e
sincero perché mi guardi / con occhi buoni, / con sguardo sincero. / Il tuo
pensiero mi rende / intelligente e nella tua semplice / tenerezza anch’io sono
semplice / e generoso. / Se tu però mi dimenticassi / io morirei senza che
nessuno / se ne accorgesse. Vedranno la mia carne / vivere, ma sarà un altro
uomo / – mediocre, goffo, malvagio – ad abitarla...». Ogni essere umano
cresce nell’immaginazione dell’altro, se qualcuno ne avverte le potenzialità e
aiuta a scoprirle. Tuttavia, la studiosa Ursula Frohne, in risposta alla
diffusione delle webcam, ha teorizzato che oggi «essere è essere visti». È utile allora leggere parallelamente il
libro dello psichiatra Giovanni Stanghellini, “Selfie. Sentirsi nello sguardo dell’altro”. L’autore riflette sul
fatto che oggi non è più il cogito a garantire l’esistenza; egli muta il detto
cartesiano in: «Videor, ergo sum», «sono visto, dunque sono», in quanto,
secondo l’autore, la «fame d’esserci»
viene oggi compensata dalla «bulimia
dell’immagine». Facendo riferimento a Sartre, egli ricorda che «si può
sentire, fare esperienza del proprio corpo in quanto ente
guardato da un’altra persona». Lo sguardo degli altri diventa allora la
condizione necessaria per sentire se stessi. Non siamo dunque più in grado di
avvertire la nostra esistenza senza essere attraversati dallo sguardo
dell’altro. È l’ultima frontiera per avere la certezza di esistere? Secondo Wendy
Chun, forse no, perché nell'era dei social media «essere è essere aggiornati». La vera esistenza si avverte se si è
al passo con il mondo, se si è perfettamente inseriti nel presente: informati,
ammodernati. O forse, semplicemente: integrati.
Un caro saluto,
Alberto
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