Piero Boitani, Timeo in Paradiso. Metafore e bellezza da Platone a Dante, Donzelli 2023.
https://www.youtube.com/watch?v=Y03IXckscXY&ab_channel=italiamedievale
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La quarta rivoluzione - Luciano Floridi - Raffaello Cortina Editore -
Pietà e terrore, Giulio Guidorizzi. Giulio Einaudi editore - ET Saggi
Maria Lorenza Chiesara, Sette brevi lezioni sullo scetticismo
John Sellars, Sette brevi lezioni sull’epicureismo, Epicuro e l'arte della felicità
Lucio Anneo Seneca, La brevità della vita
Lucio Anneo Seneca, Dialoghi morali
Lucio Anneo Seneca, La vita felice
Ecco una questione spinosa: “Al di là del bene e del male” o “al di qua del bene e del male”? Quale espressione vi sembra
preferibile? La tematica è intrigante, le proposizioni appaiono simili, pare
che la posta in gioco sia la stessa, ma il modo di affrontare la vita che
discende dalla condivisione della prima o della seconda valutazione è
profondamente diverso. Questa settimana indaghiamo la prima espressione e
rinviamo alla prossima il commento della seconda. La frase «al di là del bene e del male» è il
titolo di un libro di Nietzsche (1886) scritto nel periodo in cui il filosofo lavorava
ad una delle sue opere più importanti, “Così
parlò Zarathustra” («durante gli
intermezzi di quella nascita»). Nietzsche afferma che, dopo aver «vagabondato» tra molte morali «più raffinate e più rozze che hanno dominato
fino ad oggi o dominano ancora sulla terra», è riuscito a classificare la
varietà dei casi in cui si è imbattuto in due tipologie fondamentali. Il giudizio
del filosofo è perentorio, esistono «una
morale dei signori» e «una
morale degli schiavi». Nella storia si possono individuare fondamentalmente
due classi sociali, ossia due gruppi antagonisti: i dominatori e i dominati di
ogni epoca. «Bene» e «male» avranno dunque significati diversi
a seconda se a creare la tavola dei valori saranno i primi o i secondi. Scrive
l’autore: «Le differenziazioni morali di
valore sono sorte o in mezzo a una stirpe dominante, che con un senso di
benessere acquistava coscienza della propria distinzione da quella dominata -
oppure in mezzo ai dominati, gli schiavi e i subordinati di ogni grado». Nel
corso dei secoli i dominatori hanno imposto i propri valori e hanno determinato
un preciso significato da attribuire ai concetti di «bene» e «male»; in altri periodi, i dominati che
si sono ribellati alle condizioni dispotiche e opprimenti dei primi hanno
ribaltato quella tavola dei valori e ne hanno imposto una alternativa. «Bene» e «male» non indicano pertanto delle realtà oggettive («ontologiche»): le azioni sono
considerate buone o cattive a seconda dei punti di vista e dell’utilità di chi
le pratica. Gli aristocratici, ad esempio, nelle scelte di vita esprimono la
loro volontà di potenza e, secondo l’autore, sono pertanto degli autorevoli creatori
di valori, mentre gli schiavi e gli oppressi, poiché subordinano se stessi alla
collettività e considerano l’individuo meno importante della comunità,
pretendono che questi agisca non per se stesso ma per gli altri. Privilegiano dunque
azioni di segno opposto, quali la compassione e l’altruismo. Gli aristocratici
considerano «buono» ciò che è
superiore ed esprime fierezza d’animo e disprezzano chi non sa elevarsi ad
essere sufficientemente orgoglioso, a compiacersi di sé. In questo caso i
termini «buono» o «cattivo» vengono tradotti nei concetti
di «nobile» e «spregevole». Scrive Nietzsche: «L’uomo
di specie nobile sente se stesso come determinante il valore, non ha bisogno di
riscuotere approvazione, il suo giudizio è «quel che è dannoso a me, è dannoso
in se stesso», conosce se stesso come quel che unicamente conferisce dignità
alle cose, egli è creatore di valori». Chi è forte fa un po’ quello che gli
pare e dà valore a ciò che potenzia la propria attività. La trasposizione dei
concetti di «bene» e «male» nelle categorie di «buono» e «malvagio» ha invece un’altra origine: rispecchia la visione – e
dunque la morale – degli oppressi e dei sofferenti, che serve loro a sopportare
il peso dell’esistenza. I deboli definiscono pertanto “malvagio” ciò che un dominatore
considera invece espressione di fierezza o potenza. Protagonisti della «morale degli schiavi» sono «gli oppressi, i conculcati [quelli
calpestati], i sofferenti, i non liberi,
gli insicuri e stanchi di se stessi». La diversa disposizione gerarchica di
ciò che è desiderabile può andare dunque a vantaggio di una classe sociale o di
un’altra. È come se le due classi sociali si orientassero con mappe territoriali
reciprocamente capovolte, per questo gli obiettivi da raggiungere sono così
diversi e impossibili da condividere. I filosofi occidentali che hanno cercato di
razionalizzare la vita e di fissare rigorosamente le qualità della morale,
secondo Nietzsche, non hanno capito – o hanno fanno finta di non capire – che
vita e morale non sono sovrapponibili. La vita è sempre «al di là del bene e del male», perché è potenza vitale che deriva
dalla natura e come questa non ha obiettivi particolari se non quello di
esprimere la propria forza. La natura dell’uomo è dunque volontà di potenza, è
vita che vuole la vita, ossia vuole solo la propria espansione. Scrive il
filosofo: «Un’entità vivente vuole
soprattutto scatenare la sua forza – la
vita stessa è volontà di potenza». La vita è dunque al di là del bene e del
male, sfugge ad ogni tentativo di costringerla in un ordine, perché è
indifferente alle categorie umane. È semplicemente energia che pulsa, mentre il
tentativo di ricondurre l’agire agli schemi di «bene» e «male» è
un’esigenza umana o, per dirla con Nietzsche, semplicemente «troppo umana». Tuttavia, anche se la
natura è indifferente all’uomo, alle sue intenzioni e ai suoi programmi, molti
filosofi non si sono rassegnati a ostentare o a condividere il punto di vista
del più forte, ma hanno mostrato che è necessario considerare tutta quella
realtà che esiste invece «al di qua del
bene e del male».
Un caro saluto,
Alberto
Nei primi giorni del nuovo anno molti quotidiani hanno riportato questa notizia: «Gli italiani tornano a scommettere e a giocare online». Apprendiamo così che nel corso del 2022 la spesa per gratta e vinci, lotto e giochi online è arrivata quasi a 20 miliardi di euro e che è aumentata del 28% rispetto all’anno precedente. Siamo dunque un popolo di santi, poeti, navigatori e soprattutto di scommettitori. Per carità, gli uomini scommettono da sempre: quando intraprendono una guerra, stipulano un’alleanza, assumono un cibo sconosciuto, si avventurano in luoghi inesplorati, fanno scelte azzardate, si fidano di una persona – nelle amicizie o in amore –, rischiano la vita in mare o avviano attività economiche. Non solo gli uomini comuni, ma anche i grandi protagonisti della storia sono stati incalliti scommettitori. Winston Churchill puntava denaro un po’ su tutto: sulle date di scioglimento del parlamento, sui risultati dei casi giudiziari e delle partite di tennis, sull’entità delle avanzate militari sui campi di battaglia, su chi sarebbe diventato primo ministro inglese o presidente americano. Se la scommessa può essere indirizzata ad ogni ambito in cui si scorgono delle alternative, occorre considerare che la vita stessa è la prima grande scommessa dell’uomo, giorno dopo giorno, contro la fame, le malattie e alla fine contro la morte. Gli uomini potevano lasciar fuori dal brivido dell’azzardo la questione di Dio? Certamente no. Nel suo breve trattato su “L’utilità di credere”, Agostino nel IV secolo d.C. afferma che la fede cristiana è una sorta di scommessa necessaria in cui il rischio è modesto e il guadagno alto. Ma è il filosofo francese Blaise Pascal a riproporre la questione in una parte dell’opera conosciuta sotto il titolo di “Pensieri” (1670) intitolata «le pari», «la scommessa». Pascal tratta la questione dal punto di vista del calcolo delle probabilità. Non propone pertanto un’appassionata riflessione teologica, ma una sobria indagine statistica. Scommettiamo allora? Pari o dispari? Alcuni sceglieranno pari, altri dispari. Chi ha ragione? Secondo Pascal, nessuno: «Infatti, sebbene si trovi ugualmente in errore sia chi sceglie croce sia l’altro, entrambi sbagliano. Il partito giusto è non scommettere». Alla domanda: «scommetti?», la risposta più razionale sarebbe dunque: «preferirei di no», oppure: «facciamo un’altra volta». Si possono esibire molte scuse: «l’argomento non mi interessa», «non ho abbastanza denaro». Oltre alle due classiche alternative (sì o no, testa o croce) abbiamo pertanto anche la possibilità di declinare l’invito. Sulla questione di Dio, Pascal avverte che la posizione dei giocatori è diversa. Perché? Il filosofo francese ripete: perché «Vous êtes embarqués», «voi siete imbarcati», intendendo con questa espressione che gli uomini sono già dentro la vita e non possono chiamarsi fuori dal gioco. Essere imbarcati nella vita è diverso dall’imbarcarsi su una nave. Un tempo si saliva a bordo di una nave per sfuggire ad una pena ineluttabile, a una vita infelice, per curiosità, per sfida, per mostrare il proprio coraggio, per denaro, per noia. In ogni caso, per scelta personale. Gli uomini, invece, non hanno ricevuto incentivi per imbarcarsi nell’esistenza: si sono già ritrovati dentro, dalla nascita, senza alternative possibili. Sono da sempre “imbarcati”. Essere imbarcati è dunque una condizione ineluttabile – il corpo è il vascello – e ogni persona condivide la stessa sorte con gli altri esseri umani. Nessuno ha firmato un contratto per salire a bordo. Ci si è semplicemente già svegliati sulla nave. Così, anche se gli uomini decidessero di non scommettere, in ogni caso vivrebbero come se Dio ci fosse o non ci fosse. E alla fine la vita finisce per tutti. Se Dio esiste, secondo il filosofo, saranno le azioni individuali a giocare a vantaggio dei vari soggetti: in particolare la capacità di amare il prossimo e di rispettare i valori universali. Se guardiamo da vicino gli uomini, scopriamo che essi si comportano in un modo curioso: quando rischiano una somma finita sperano di guadagnare una somma più grande, pur sapendo che con grande probabilità perderanno il loro denaro. Comprano il biglietto della Lotteria Italia a 5 euro e sono consapevoli che l’opportunità di vincere è solitamente remota e che i 5 euro sono in fondo buttati. «Ma che sono 5 euro?», pensa la gente. «Si può vivere anche senza». Pascal afferma che se gli uomini trovano dunque “ragionevole” – ossia sopportabile – perdere qualcosa del finito per avere anche una sola possibilità di guadagnare una parte più grande sempre nel finito (5 milioni di euro), allora dovrebbero puntare su Dio, perché se perdono non perdono nulla (tutti muoiono), ma se vincono, vincono l’infinito. Scrive il filosofo: «Valutiamo questi due casi: se vincete, vincete tutto; se perdete, non perdete nulla. Scommettete dunque che esiste, senza esitare!». «È sorprendente. Sì, bisogna scommettere». Pascal è un uomo di fede profonda, e nelle “Lettere provinciali” (1657) critica la fede di maniera, calcolatrice, quella che non proviene dal cuore. Per il filosofo la questione di Dio è di somma importanza e questa riflessione statistica è una sorta di gioco, di divertimento. La sua fede è sorretta da un bisogno interiore non da un calcolo utilitaristico. Egli, tuttavia, sembra avvertire i propri concittadini: «se proprio amate scommettere, allora deducete almeno le conclusioni corrette».
Un caro saluto,
Alberto
Chi è vissuto negli anni Settanta – o chi in quegli anni è nato – porta con sé il ricordo di una canzone che ha cantato con gli amici o ha frequentemente ascoltato perché ha segnato un’epoca. La canzone è “Dio è morto”, di Francesco Guccini. Lo storico Miguel Gotor in “Generazione Settanta” (2022), riflettendo sull’impegno dei giovani cattolici nell’Italia del periodo del ’68, ricorda che molte canzoni del tempo erano considerate elementi di coesione ideale e morale. Parlando di questa canzone «scandalosamente intitolata Dio è morto, portata al successo dal gruppo dei Nomadi nel 1967» egli afferma infatti che essa era «una sorta di inno generazionale per i giovani cattolici impegnati nella politica e nel sociale contro il consumismo, animati da una speranza cristiana che veniva ad assomigliare a una radicale palingenesi rivoluzionaria: «perché noi tutti sappiamo / che se Dio muore è per tre giorni e poi risorge / in ciò che noi crediamo». L’espressione «Dio è morto» ha ovviamente molti significati, basti pensare che nel Novecento c’è stata persino una teologia della “morte di Dio” sviluppatasi negli anni Sessanta e Settanta. Qui ci limitiamo a prendere in considerazione solo alcune tracce di tale formula contenuta nel libro “La gaia scienza” (1882) di Friedrich Nietzsche. Chi legge la pagina in cui il filosofo tedesco parla della morte di Dio («Gott ist tot») sa che si trova di fronte ad una delle pagine a più alta intensità drammatica della storia della filosofia dell’Occidente. Nietzsche introduce la vicenda attraverso l’annuncio di un «uomo folle» che dopo aver acceso una lanterna nella luce del mattino corre al mercato a gridare incessantemente «Cerco Dio! Cerco Dio!». Scrive Nietzsche: «E poiché proprio là si trovavano raccolti molti di quelli che non credevano in Dio, suscitò grandi risa. "Si è forse perduto?" disse uno. "Si è smarrito come un bambino?" fece un altro. "Oppure sta ben nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? È emigrato?" gridavano e ridevano in una gran confusione». Ma la scena cambia immediatamente. Scrive il filosofo: «E l’uomo folle balzò in mezzo a loro e li trapassò con i suoi sguardi: "Dove se ne è andato Dio?" gridò, "Ve lo voglio dire! L'abbiamo ucciso - voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto? Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all'ultima goccia? Chi ci diede la spugna per cancellare l'intero orizzonte? Che mai facemmo per sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dove va essa ora? Dove andiamo noi, lontani da ogni sole? Non è il nostro un eterno precipitare? E all'indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non fa sempre più freddo? Non è sempre notte, e sempre più notte?». Nietzsche non ha come obiettivo dimostrare razionalmente la non esistenza di Dio. In fondo, se Dio esiste non dipende certo dalla consapevolezza dell’uomo o dalla sua capacità di attestarne l’esistenza attraverso la logica. La logica funziona bene quando si tratta di chiarire i discorsi, ma non può dimostrare né confutare ciò che eccede la natura umana. Allora cosa intende il filosofo? Egli si muove su un piano diverso. Spiega bene questo concetto il filosofo Umberto Galimberti nel libro “Le orme del sacro” (2000) quando scrive: «Per Nietzsche il problema non è di sapere se Dio esiste o non esiste, ma se Dio è vivo o è morto, se intorno all'idea di Dio ancora si organizza o non si organizza un mondo. E allora se, come nel Medio Evo, la letteratura è inferno, purgatorio e paradiso, se l'arte è arte sacra, se la donna è donna-angelo, Dio esiste, cioè "fa mondo". Ma se il mondo si organizza prescindendo dall'idea di Dio, allora "Dio è morto" e ad annunciarlo non sarà certo l'ateo, ma il folle che lo rivela sia ai credenti sia agli atei, legati gli uni agli altri dal problema dell'esistenza di Dio, invece che dal problema della sua presenza nella storia, della sua efficacia nel fare mondo». Il filosofo fa riferimento ad un processo di progressivo venir meno del sacro nella vita degli uomini che si chiama secolarizzazione. Gli uomini vivono facendo a meno di Dio: Dio non è centrale nella loro esistenza, essi indirizzano pertanto le loro domande di senso altrove e cercano di comprendere il mondo e la vita prescindendo dalla religione. Secondo Nietzsche sono dunque gli uomini ad aver ucciso Dio voltando lo sguardo in altre direzioni. Lo hanno ucciso nel momento in cui hanno deciso di pianificare la vita orientandosi su altri ideali come il denaro, la tecnica o su altre convinzioni. Per questo Nietzsche interpella non solo i credenti, ma anche i non credenti che pensano che l’antica certezza sia crollata e sbeffeggiano “l’uomo folle”. Essi si sentono sicuri che la scienza sia la certezza stabile da cui derivare i valori e che ad essa occorra rivolgersi per risolvere tutti i problemi: sono persuasi che la certezza religiosa sia tramontata lasciando il posto ad un’unica verità possibile. Nietzsche non si accontenta di questo esito. L’espressione “Dio è morto” per il filosofo significa che ogni certezza assoluta è destinata a naufragare e che l’uomo non ha né avrà mai fondamenti stabili. Il riso dei positivisti dell’Ottocento si ritorce contro i positivisti stessi che non intendono ancora la portata del venir meno di tutte le verità e non si rendono conto che è in atto un cambiamento storico epocale irreversibile.
Un caro saluto,
Alberto
Nella sentenza 146 contenuta in “Al di là del bene e del male”, Nietzsche scrive: «se tu scruterai a lungo in un abisso, anche
l'abisso scruterà dentro di te». Che cosa significa esplorare un abisso? La
parola abisso deriva dal greco: «byssos»
significa «fondo» e il prefisso
negativo «a» nega il vocabolo. Dunque,
l’abisso è letteralmente qualcosa che non ha fondo («a-byssos»). Ora, perché scandagliare ciò che non ha fondo può ripercuotersi
– magari negativamente – sulla persona? Il filosofo è chiaro: gli effetti non
vengono avvertiti da chi sbircia frettolosamente, ma da chi scruta a lungo: insomma,
gli individui superficiali non sembrano essere soggetti a rischio. Nella
psicologia e nella filosofia si sono aperte almeno due strade interpretative. Il
grande psichiatra Eugenio Borgna, nella sua straordinaria delicatezza narrativa,
riferisce esperienze di depressione molto dolorose, quelle che sembra non abbiano
fine. Nel libro “L’ascolto gentile”
(2017), parlando di una donna di nome Francesca, scrive: «Quando la incontrai, l’angoscia dilagava nel suo volto talora percorso
dal lampo di un sorriso fragile e fuggitivo che si spegneva. La rivedo nella
sua grazia ferita, e mi domando come abbia potuto reggere il confronto con lei,
con il suo dolore, con la sua sventura, con le sue parole e con il suo
silenzio, nel corso di dodici mesi scanditi da colloqui, da telefonate, da
e-mail, che mi portavano ogni volta sull’orlo di abissi senza fondo nei quali
lei avrebbe potuto precipitare: recidendo la sua vita, e lasciando ferite anche
nella mia». L’autore afferma che la contiguità prolungata con l’immensità
del dolore altrui è in grado di contagiare e scandagliare in profondità anche
la sensibilità del terapeuta, «lasciando
ferite» anche in chi si avvicina
per porgere aiuto. Così, è noto che dopo una lunga esposizione alla sofferenza,
medici, psichiatri e psicologi possono correre dei rischi, poiché, per eccesso
di empatia, possono essere «divorati»
dalla pena dell’altro. Borgna ha sperimentato su se stesso tale condizione: «Certo, non veniva mai meno la mia attenzione
alle cose che ascoltavo, la mia emozione, la mia angoscia: quando una persona
cammina sull’orlo degli abissi anche la persona che l’accompagna rischia di
essere contemporaneamente divorata dagli stessi abissi di angoscia, e
disperazione». Per questo anche i professionisti, che si occupano di coloro
che stanno affrontando una malattia o ad essa si sono stancamente arresi, hanno
bisogno di sostegno, perché un’eccessiva esposizione al male li può piegare: l’abisso
inghiotte, la sofferenza si espande, l’angoscia dilaga. Sul versante filosofico
l’esperienza dello sgomento per il vuoto non proviene (solo) dai meandri del
supplizio interiore, ma dalla perdita di un punto di appoggio per le proprie certezze.
Blaise Pascal constata che l’uomo cerca di colmare il proprio desidero di
infinito con oggetti finiti, e afferma che tale tentativo è fallimentare,
perché l’aspirazione all’infinito che l’uomo scopre dentro di sé può essere
colmata solo da Dio («quell’abisso
infinito può esser colmato soltanto da un oggetto infinito ed immutabile»).
Un’idea che condivide anche Spinoza, ma da una prospettiva diversa: se per Pascal
il Dio che riempie l’abisso dell’animo umano è il dio del Cristianesimo – un
dio di amore e di consolazione –, per Spinoza quel Dio è la struttura
matematica della realtà e solo la comprensione di tale intelaiatura può fornire
un fondamento saldo per la felicità dell’uomo. Entrambi hanno trovato un «byssos», un fondamento che li ripara
dall’assurdo. Un paio di secoli dopo, Nietzsche constata invece che le certezze
dell’uomo sono basi fragili ed effimere, supporti traballanti pronti a
incrinarsi facilmente nel corso del tempo, perché nascondono spesso convenzioni
e abitudini, paure e bisogni molto umani. E se sotto ogni fondo si spalancasse
ancora un abisso, le certezze fossero costantemente scalfite e l’uomo non
trovasse più punti di riferimento stabili per il proprio agire? Gli uomini
vagherebbero senza meta, insicuri, perché confonderebbero convenzioni con
verità, tradizioni con certezze. La prospettiva di Nietzsche è pertanto più
inquietante e dolorosa. Egli è persuaso che l’uomo non approderà mai a certezze
definitive e che ci sia «dietro ogni
caverna una caverna più profonda», o meglio: «un abisso sotto ogni fondo». È questa consapevolezza che può
destabilizzare l’uomo, perché lo colloca in alto mare sprovvisto di punti di
riferimento sicuri. Da questa riflessione può essere sconvolto e avvertire che
l’abisso “scruta” dentro di lui e che anche la scienza non lo salverà, come ha
scritto Bertolt Brecht nella “Vita di
Galileo”, ove afferma: «E quando,
coll’andar del tempo, avrete scoperto tutto lo scopribile, il vostro progresso non
sarà che un progressivo allontanamento dall’umanità. Tra voi e l’umanità può
scavarsi un abisso così grande, che ad ogni vostro “éureka rischierebbe di rispondere un grido di
dolore universale». Il Novecento ha capito presto che alcune invenzioni non
hanno portato progresso ma distruzione di massa. Più esaminiamo le nostre
accurate certezze più siamo consapevoli che possiamo sempre sprofondare: più
guardiamo l’abisso più siamo destabilizzati e la voragine che si apre sotto i
nostri piedi non si lascia colmare da alcuna ingenuità.
Un caro saluto,
Alberto