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Cor-rispondenze

lunedì 30 novembre 2009

La meccanica quantistica: la più grande rivoluzione di tutti i tempi


"Chi non è attraversato da un senso di vertigine, non può dire di aver capito appieno la meccanica quantistica" (Seth Lloyd "Il programma dell'universo"). E' questo il nome della teoria su cui si fonda la fisica moderna. L'esigenza di tale teoria si è fatta strada nel momento in cui la comunità scientifica, dopo essere ormai pervenuta ai tre consolidati sistemi di leggi ( leggi del moto, leggi dell'elettromagnetismo, leggi della gravità), cercò di spiegare la costituzione microscopica della materia. La teoria dell' elettrone sviluppò l'ipotesi che l'atomo si costituisse di un nucleo pesante, attorno al quale ruotassero vorticosamente gli elettroni.
Quando, tuttavia, si cercò di spiegare il moto degli elettroni attraverso le leggi della meccanica classica teorizzata da Newton, il tentativo si rivelò un netto fallimento: i fenomeni atomici, sottraendosi alle leggi classiche del moto, risultano particolarmente strani. Dunque il senso di vertigine della quantizzazione deriva dal fatto che si tratta di una teoria che va contro le concezioni del senso comune, che sconvolge le più naturali aspettative: in una parola, una teoria "ASSURDA".
Ciononostante, per quanto assurda possa risultare anche alle menti più salde, la meccanica quantistica ben si appresta a spiegare fenomeni quali l'interazioni fra gli atomi (tant'è che per questo elemento è possibile considerare la chimica un aspetto della fisica), l'interazione della luce con la materia ( elettrodinamica quantistica o QED), e tanti altri. Inoltre, la meccanica quantistica è la teoria più precisa conosciuta dall'uomo, in quanto non presenta alcuna significativa discrepanza tra la teoria e gli esperimenti.
Altro aspetto particolare della teoria che segna una vera e propria rottura con la concezione classica è il seguente: se per la fisica classica il suono e la luce hanno comportamneto ondulatorio, per la fisica quantistica essi sono descritti in termini di particelle: ecco che il suono è un insieme di "fononi", la luce un fascio di "fotoni". Tuttavia, se , ad esempio, un fascio di fotoni (ma la stessa cosa vale per un fascio di elettroni, per esempio) viene convogliato verso una lastra a doppia fenditura ( esperimento di Young) continua a mostrare una figura di interferenza, in virtù della natura onda-corpuscolare della luce.
Ma la cosa più sorprendente è che tale dualità (onda-corpuscolo) si applica a tutti i corpi: a qualunque oggetto è associabile un comprtamento ondulatorio. A tal riguardo, l'aspetto che mi sconvolge profondamentesta nel fatto di come l'esperimento della doppia fenditura mostri, in realtà, come una particella non deve necessariemente trovarsi "qui" o "lì" ( nonchè scegliere per quale fenditura passare): grazie alla sua natura ondulatoria, la particella può stare "qui o lì" contemporaneamente (ossia passa contemporaneamente per entrambe le fenditure). "L'ubiquità" della materia è una proprietà ampiamente sfruttata nella computazione quantistica.
Infine, in un altro esperimento, quello della riflessione parziale della luce, su un fascio di 100 fotoni convogliato su una superficie di vetro, solo il 4% di essi viene riflesso: risulta evidente che, in un contesto del genere, la fisica si limita a calcolare la probabilità di un certo evento, in quanto è impossibile, in questo caso specifico, prevedere che cosa faccia il singolo fotone ( cioè se viene riflesso o rifratto).
A questo punto, come è possibile che la fisica, scienza da sempre ritenuta esatta nelle sue previsioni, passi da una concezione deterministica ad una concezione indeterministica, nella quale ogni forma di certezza è soppiantata da realtà probabilistiche?
E per quale motivo, invece, l'ubiquità della materia si manifesta a livello microscopico e non a quello macroscopico?
Paolo


“Quindi la situazione di fronte alla quale ci troviamo è la seguente: un elettrone che attraversa questo apparato, fin dove riusciamo a sondare il problema, non segue il percorso d, non segue il percorso t, non segue entrambi i percorsi e non è vero che non ne segue nessuno dei due. Il guaio è che queste quattro alternative esauriscono tutte le possibilità logiche che riusciamo sia pur vagamente a concepire!”
David Z. Albert, Meccanica quantistica e senso comune [1992], Milano, Adelphi 2002.

Caro Paolo,
Abbiamo intitolato questo post: “la meccanica quantistica, la più grande rivoluzione di tutti i tempi”. Il momento della scoperta scientifica, ma soprattutto della sua divulgazione, d’altra parte, è sempre stato un evento straordinario, sensazionale, accompagnato da meraviglia e stupore. Qualche esempio: il 13 marzo 1610 Galileo pubblicò il Sidereus nuncius con una “tiratura” di 550 copie. In meno di una settimana il libro fu introvabile. L’ambasciatore inglese a Venezia, Sir Henry Wotton, il giorno stesso, ne mandò una copia al re Giacomo I e la accompagnò con una lettera in cui scrisse: “la notizia più strana mai ricevuta da nessuna parte della Terra”. Si racconta che Keplero “arrossì per lo stupore e, incapace di trattenere la sua gioia, cominciò a ridere senza ascoltare fino in fondo l’amico che già sulla strada lo informava delle incredibili novità astronomiche”. (Introduzione di Andrea Battistini al Sidereus nuncius, Marsilio, 1993). La fama di Galileo si diffuse rapidamente. Infatti, due anni dopo, l’annuncio delle scoperte celesti arrivò a Mosca e in India e nel 1613 ne venne fatta una sintesi in cinese (Galileo=Chia-Li-Lueh); nel 1631 il cannocchiale venne segnalato in Corea, nel 1638 in Giappone. Mi piace ricordare che Benedetto Castelli, uno degli interlocutori di Galileo nelle lettere copernicane, quando ormai il suo maestro era ormai quasi cieco, utilizzò delle bellissime parole per descrivere gli “occhi” dell’uomo (Galileo) che avevano visto ciò che nessuno prima di lui era riuscito a scorgere. Egli scrisse che l’occhio del suo maestro fu: “occhio tanto privilegiato, e di tanto alte prerogative dotato, che si può dire, e con verità, ch’egli abbia visto più egli solo che tutti gli occhi insieme degli uomini passati, ed abbia aperti quelli de’ futuri, essendo toccato in gran parte a lui solo fare tutti gli scoprimenti celesti ammirandi a’ secoli futuri” (cit. dall’introduzione).
Nel 1686 Newton presentò i suoi Principia alla Royal Society di Londra. Il grande scienziato Ilya Prigogine (Mosca 1917), premio Nobel per la chimica nel 1977, insieme a Isabelle Stengers, nel libro La nuova alleanza. Metamorfosi della scienza (Einaudi [1981] 1999) scrive che: “Si esagera appena nel dire che il 28 aprile 1686 fu una delle piú grandi date nella storia dell'umanità”. Fu infatti il momento in cui vennero presentate le leggi fondamentali del moto e vennero spiegati concetti che usiamo ancora noi oggi, la massa, l’accelerazione, l’inerzia. Il terzo libro dei Principia di Newton parlava della gravitazione universale. Ilya Progogine dice che “I contemporanei di Newton afferrarono immediatamente l'eminente importanza di questo lavoro. La gravitazione divenne un argomento di conversazione a Londra e a Parigi.”
Per non parlare dello sconcerto che provocò nel secolo scorso al grande pubblico (e delle “perplessità” di alcuni suoi colleghi) la teoria della relatività di Einstein. Ma lo stupore non finisce qui. Altre “notizie più strane mai ricevute da nessuna parte della Terra”, si susseguirono rapidamente. La scienza, che si è sviluppata enormemente e in maniera molto inaspettata negli ultimi secoli, ci ha abituati a rivelazioni straordinarie che superano costantemente la fantasia, e continua quotidianamente a disorientarci nel mostrare la complessità dell’universo e ad aumentare la nostra meraviglia sia per il cosmo sia per la ricerca dell’uomo che sembra inesauribile. Prigogine, d’altra parte, ci ricorda che: “Il nostro orizzonte scientifico si è allargato fino a dimensioni veramente fantastiche. Su scala microscopica la fisica delle particelle elementari studia processi in cui sono in gioco dimensioni fisiche dell'ordine di 10ˉ15 cm e tempi dell'ordine di 10ˉ22 secondi. All'altro estremo, la cosmologia ci mette di fronte a tempi dell'ordine di 10 elevato a 10 anni, la cosiddetta «età dell'Universo». La scienza e la tecnologia sono piú vicine che mai. Le nuove biotecnologie, i progressi nella tecnica dell'informazione, promettono un cambiamento radicale nella vita delle nostre società.”
Sappiamo oggi ad es. che nel campo dell’infinitamente piccolo le leggi della meccanica quantistica hanno preso il posto di quelle della meccanica classica, mentre su scala dell'Universo, la fisica relativista ha sostituito la fisica newtoniana, anche se la fisica di Newton rimane il punto di riferimento per eccellenza, ed è sempre valida sulla nostra scala.
La natura non finisce dunque di stupirci e la scienza è “l’esaltante avventura” che ci permette di avvicinarci alla comprensione di questo mondo e di penetrarne i suoi “segreti”.

un caro saluto,
alberto

lunedì 23 novembre 2009

Identità e cambiamento



Caro professore,

L'altro giorno stavo osservando delle foto di famiglia di cui non ero mai stato a conoscenza; alcune di esse erano molto vecchie, e tra queste ho trovato una foto di mia nonna; però una non subito ho capito chi fosse... solo analizzando i tratti somatici e la sua espressione ho successivamente capito che era lei, anche se tuttavia mi sembrava di non conoscere la persona ritratta in quella foto... Subito in me è spuntata una domanda che più volte mi sono posto: è possibile che una persona cambi radicalmente o è valido il proverbio: "il lupo perde il pelo, ma non il vizio"? Sinceramente non ho ancora trovato una risposta a questo quesito, perché proprio nel momento in cui penso che il mio giudizio sia orientato verso uno dei due poli, accade qualcosa che mi riporta a quel bivio mentale e i miei dubbi ricominciano ad imperversare nella mia testa...
Mattia


Caro Mattia,
C’è qualcosa che sopravvive al cambiamento, alle più profonde trasformazioni che avvengono dentro di noi nel corso dell’esistenza? Che cosa conserviamo del bambino che eravamo o che cosa conserveremo dell’adolescente che ora siamo nell’età più adulta? E, al termine della vita, dove saranno tutte le varie identità che siamo stati o che abbiamo attraversato? Un importante psicoanalista americano contemporaneo, James Hillman (1926), nel libro La forza del carattere (Adelphi, 2000), ritiene che con il passare dell’età e dopo tutte le irreversibili modifiche a cui va incontro il nostro corpo, in realtà, si riveli sempre più il nostro “carattere”. Più o meno la stessa storia della nave di Teseo è raccontata anche dall’autore con un esempio (un po’ meno elevato di quello mitologico, ma sempre efficace): quello di un paio di calzini. Scrive Hillman: “Prendiamo, per esempio, il nostro paio di calzini di lana preferito. Si fa un buco in un tallone, e noi lo rammendiamo. Poi si fa un buco al posto dell'alluce, e rammendiamo anche quello. Rammenda oggi, rammenda domani, alla fine sono più i rammendi della lana originale e il nostro amato calzino è fatto di una lana completamente diversa. Eppure è sempre lo stesso calzino. In relazione all'aspetto e in relazione al suo compagno infilato nell'altro piede, è sempre lo stesso calzino. I due calzini vanno a spasso insieme, stanno ripiegati insieme nel cassetto; anzi, anche in relazione a se stesso, riguardo alla propria identità, si tratta sempre dello stesso calzino, benché sia diverso.” È cambiata tutta la lana, ma è rimasta la “forma” del calzino. Così avviene anche per il corpo. Dice l’autore: “Il corpo umano è simile al nostro calzino: si scrolla via le sue cellule, ricambia i fluidi, fa fermentare nuove colture di batteri per sostituire quelli morti. Con il passare del tempo, la materia di cui il nostro corpo è fatto diventa tutt'altra, ma noi siamo sempre noi, gli stessi. Non ho un centimetro quadrato di pelle visibile che sia uguale a prima, non un grammo di materia ossea uguale, eppure io non sono qualcun altro”.
Se la differenza tra noi e gli altri fosse definita dalla fisica (Due corpi non possono mai occupare lo stesso spazio nello stesso tempo), dalla logica (A=A, ogni cosa è uguale a se stessa) o dal diritto (tutti gli uomini sono uguali davanti alla legge: ossia ogni individuo ha gli stessi diritti), allora saremmo facilmente interscambiabili. In queste formule è salvaguardata la forma generale, ma non compare ancora l’unicità delle persone. C’è l’individualità, ma mancano le peculiarità specifiche della persona. L’individualità possiamo dire che è la “forma” dell’uguaglianza: ogni individuo è uguale ad un altro dal punto di vista del diritto. Ma l’unicità della persona dipende invece dalle differenze qualitative che formano ciascuno di noi; differenze che si affinano con il tempo. Certamente l’unicità della persona si deve realizzare nel corso di tutta la vita: è come dire che non solo A=A, secondo un principio di identità astratto, ma anche che A =A≠A (Hegel) ossia che A, proprio nella trasformazione, rimane fedele a se stesso. L’identità pertanto non è qualcosa di astratto, ma è legata alla specificità di ognuno di noi; è dunque segnata dai nostri tratti caratteristici e da ciò che ci distingue e ci rende esclusivi.
C’è qualcosa di coerente che si mantiene nel tempo e caratterizza la nostra identità? Pensiamo oggi ai trapianti di organi, agli innesti di vario tipo che già si fanno e che saranno all’ordine del giorno nei decenni futuri. Materiali estranei che entrano a far parte del nostro corpo e che vengono percepiti come qualcosa di noi stessi. Anche se non sempre accade così: il Corriere della Sera, qualche anno fa, riportò un caso famoso di un cinquantenne neozelandese Clint Hallam, operato nel 1998 a Lione da un’équipe di medici internazionali per un trapianto di mano, che poco tempo dopo l’intervento chirurgico rifiutò la nuova mano («Troppo larga per il mio braccio, aveva un colore diverso») e venne pertanto rioperato a Londra nel 2001 (Corriere della sera, 4 febbraio 2001).
Quindi a volte percepiamo ciò che è estraneo come qualcosa che, ormai integrato nel nostro corpo, fa parte di noi stessi, altre volte no. Ciò che viene introdotto nel nostro corpo o nel nostro sistema immunitario può diventare “la mia anca”, “la mia cornea o “il mio cuore” oppure no.
E qui non parliamo ancora della molteplicità di sfumature che viene percepita dagli altri (un po’ come in Uno, nessuno e centomila di Pirandello), ma di quell’identità che percepiamo di noi stessi con il variare del tempo; un’identità data attraverso cambiamenti e trasformazioni. Secondo Hillman, dunque, nel corso del tempo si rivelerebbe sempre più il nostro carattere, una sorta di disposizione, di modo di fare, di inclinazione che modellerebbe anche il nostro volto; come se nella vecchiaia faccia e carattere si amalgamassero maggiormente.
Le diverse psicologie fanno oggi riferimento a diversi concetti per parlare del carattere, ad es. «personalità», «Io», «Sé », «identità», «temperamento», ma secondo Hillman nessuno di questi (un po’ troppo astratti) rende “un insieme di tratti e di qualità, di abitudini e di motivi ricorrenti” della persona. Egli fa dunque riferimento al termine “carattere” (non inteso da un punto di vista religioso o scientifico), cioè alle caratteristiche individuali, all’istinto o all’intelligenza immaginativa di ognuno che rappresentano la tonalità tipica con cui ogni persona si rapporta alle cose e alle persone: “Perché il carattere agisce alla stregua di un istinto sottostante, che sottolinea incisivamente i gesti che facciamo, le parole che diciamo, segnalandone lo stile particolare. È una forza immaginante per cogliere le tracce della quale occorre intelligenza immaginativa. Esiste un sentimento intuitivo che ci impedisce di deviare troppo dalla nostra strada e di oltrepassare troppo i nostri confini coinvolgendoci in mondi estranei alla nostra natura autentica”. Allora, probabilmente, la nonna non ha “perso il pelo”, ma ha semplicemente tracciato la peculiarità della sua unicità, guidata dalla forza del suo carattere. Con questo non voglio che si pensi al carattere in modo deterministico: il vissuto, l’ambiente, la cultura, gli incontri modificano interessi, pensieri e valori. Preferisco pertanto intendere il carattere come quel tratto caratteristico con cui ognuno di noi rende unico quello che fa, la modalità con cui ognuno lascia il proprio tratto personale negli ambiti in cui è impegnato; un tratto che si modifica e si affina in base alle infinite relazioni con il mondo e con gli altri, grazie alle occasioni che via via vengono valutate, scelte o scartate nel corso della vita.

Un caro saluto,
alberto

lunedì 16 novembre 2009

Una vita felice


Caro professore,
C'è un interrogativo che mi è nato ultimamente e riguarda il futuro. Sin da più piccola ho sempre pensato di voler studiare, andare all'università e poi trovare un buon lavoro, e una parte di me lo vuole ancora. Crescendo poi, però, mi sono posta un interrogativo e cioè se sia più soddisfacente dedicare una buona vita allo studio e al lavoro, o se invece è più saggio pensare al proprio futuro in un senso più rivolto alla famiglia. Ora come ora la mia soluzione è quella di intraprendere gli studi universitari e poi se possibile trovare un lavoro che mi permetta di conciliare lavoro e famiglia al meglio. La domanda quindi è: “non rischiamo di vivere infelici pensando troppo ai nostri singoli obiettivi, rischiando di perdere le cose belle della vita?”. “Vive più felicemente colui che dedica la propria vita allo studio e al lavoro o chi la dedica alla famiglia?".

Sarah


“La vita umana non sarà mai capita, se non

si terrà conto delle sue aspirazioni più alte”.

Cara Sarah,
Verso la metà del secolo scorso lo psicologo statunitense Abraham Maslow ha cercato di studiare la personalità umana e le condizioni della felicità e della realizzazione dell’uomo. Ha così pubblicato un bel libro dal titolo Motivazione e personalità ([1954, 1970], Armando Editore, 2000) in cui propone anche una importante gerarchia di bisogni che le persone devono appagare nella loro esistenza per poter condurre una buona vita. Alla base della piramide, che oggi prende il suo nome (piramide di Maslow), ci sono i bisogni più urgenti, i bisogni fisiologici: (fame, sete, sonno, potersi coprire e ripararsi dal freddo), ossia i bisogni fondamentali, legati alla sopravvivenza. Maslow scrive che “sono i più prepotenti di tutti i bisogni”: Se non vengono appagati questi, tutti gli altri passano in secondo piano. Chi è da un po’ che non mangia, ovviamente, desidera solo il cibo, ecc. Gratificati i bisogni essenziali, si presentano però altri bisogni: i bisogni di sicurezza. Di fronte al mondo e ai pericoli che la vita ci prospetta, le persone hanno bisogno di protezione e tranquillità. Maslow elenca questi bisogni: “sicurezza, stabilità, dipendenza, protezione, libertà dalla paura, dall'ansia, dal caos; bisogno di struttura, di ordine, di legge, di limiti, di un forte protettore”. Ad un gradino più alto troviamo i bisogni di affetto, di amore e di appartenenza: le persone desiderano relazioni d’affetto, sentono il dispiacere per la mancanza di amici e di persone care, avvertono la necessità di sentirsi parte di un gruppo, di appartenere a qualcuno, di essere amati e di amare e di cooperare con altri. Dopo i bisogni di appartenenza vi è il bisogno di stima; anzi, di una doppia stima: quella di una valutazione positiva di se stessi (autostima) e quella di una valutazione positiva da parte degli altri: ogni persona sente infatti il bisogno di avere successo, padronanza, competenze, ma riconosce anche il valore della stima sociale, e dunque sente l’esigenza di essere rispettato, apprezzato, approvato e non solo di sentirsi competente. Però, per quanto tutte queste esigenze siano importanti, le persone hanno un’urgenza più importante: quella di realizzare la propria vita. Pertanto in cima alla scala dei bisogni Maslow pone il bisogno di autorealizzazione. Questo bisogno è l'esigenza di realizzare la propria identità e di portare a compimento le proprie aspettative. Maslow scrive: “attualizzare ciò che è potenziale”, o “diventare tutto ciò che si è capaci di diventare”. Ogni uomo sente dunque l’esigenza di attuare le proprie migliori potenzialità, culturali, affettive e relazionali. I bisogni, però, sono diversi da persona a persona. Maslow scrive: “in un individuo possono assumere la forma del desiderio di essere una madre ideale, in un altro possono esprimersi atleticamente, in un altro esprimersi nel fare quadri o invenzioni”. Abbiamo il desiderio di conoscere e capire, abbiamo bisogni estetici, ma non tutte le persone hanno le stesse priorità. In alcune persone ad esempio l’autostima è più importante dell’amore; altre persone particolarmente creative sentono invece l’impulso alla creatività più importante di altri, e riescono a realizzarsi anche se ad esempio manca loro il soddisfacimento di bisogni che da altri sono ritenuti fondamentali. Allora ciò che diventa importante è conoscere i nostri bisogni in un determinato momento e saper distinguere tra le cose a cui attribuiamo più valore e quelle meno indispensabili. Ad esempio sappiamo che alcuni bisogni sono inconsci altri consci e anche che la motivazione cosciente può essere diversa da persona a persona e da cultura a cultura. Talvolta, però, i nostri bisogni sono esigenze che altri si aspettano da noi. Non ogni nostro bisogno è veramente tale; molti desideri che sembrano consentirci di ottenere la felicità sono aspirazioni talvolta della maggioranza delle persone che vivono accanto a noi, del gruppo di appartenenza o di riferimento e che, per abitudine, per desiderio di compiacere, o semplicemente per timore di essere rifiutati, assecondiamo. Ma ci accorgiamo presto che alcuni bisogni importanti non conducono alla nostra felicità e non producono gli effetti sperati. Una persona sana, secondo l’autore, è quella che “è motivata primariamente dal suo bisogno di sviluppare e di attualizzare tutte le sue potenzialità e capacità”. Allora molto dipende dai significati che, di volta in volta, attribuiamo alle cose. Se per noi è indispensabile avere una famiglia, siamo disposti a qualche rinuncia, perché sappiamo che la nostra realizzazione passa attraverso la realizzazione di una vita di coppia con la finalità di abbozzare una nuova famiglia. Se per noi è importante ottenere un riconoscimento attraverso lo studio o il lavoro ad esempio, siamo disposti a sacrificare molto tempo per ottenere quel risultato. Ma l’urgenza nel soddisfacimento dei bisogni, col tempo, cambia. Ci sono bisogni che un tempo ci sembravano imprescindibili, come imperativi irrinunciabili, di cui gradualmente abbiamo ridimensionato l’importanza; oppure vi sono bisogni che compaiono in tempi più recenti e che in passato avevamo escluso di poter avere. Dico questo perché una persona sana è una persona complessa, che cerca di gestire molti aspetti della sua vita prendendosi cura dei vari aspetti di sé. È vero che spesso le scelte conducono a drastiche alternative, a decisioni risolutive e inconciliabili, ma è anche vero che gli obiettivi non sempre, o non necessariamente, si escludono a vicenda. Una vita sana è una vita di una persona che si prende cura dei vari aspetti di sé, in un lavoro parallelo. Forse è importante mentre si vive prendere in considerazione molti aspetti della vita e non concentrarsi in modo univoco su una cosa. Ossia ci si può dedicare allo studio, coltivando una buona vita di relazione, ampliando i propri interessi e le proprie conoscenze. Ognuno di noi non vive isolato, ma in una serie di rapporti: la scuola, il lavoro, gli amici, gli affetti cari, la famiglia, gli hobbies. La vita ci chiede di fare delle scelte: ci saranno momenti in cui dovremo sacrificare un po’ un aspetto della nostra vita, altre volte un altro. Nel tuo caso, credo che le alternative che presenti (università, famiglia) siano diverse, ma non contraddittorie. Ossia scegliendo la prima (che ti auguro), non annulli la seconda, ; decidi solo provvisoriamente di rinviarla. Nel frattempo vivi intensamente le relazioni interpersonali, offri la tua vitalità e le tue energie alle persone che incontri; la forza della relazione ti aiuterà anche a reggere l’impegno dei tuoi studi. È possibile che tra le amicizie con i tuoi compagni attuali o futuri e con altre persone che via via conoscerai, maturerai una legame bello e profondo a cui potrai dedicare anche più tempo. “L'auto-realizzazione, diceva Maslow, è priva di significato se non ci si riferisce ad un futuro attivo in ogni momento” (Verso una psicologia dell'essere, Ubaldini 1971).



Un caro saluto,

Alberto

lunedì 9 novembre 2009

La passione d'amore


Caro professore,

A volte mi capita di non riuscire a capire, a definire quello che provo per le persone a cui tengo, e come si fa a stabilire con certezza il punto in cui non si tratta solo più di affetto o di una profonda amicizia, ma di qualcosa di più. Sono quasi quattro anni che trascorro la maggior parte delle mie giornate con una persona di cui mi accorgo di non poter più fare a meno: ridiamo, parliamo, ci raccontiamo i nostri problemi e le nostre esperienze, siamo complici in tutto. Spesso, manifestandogli il mio affetto, mi sono chiesta se i sentimenti che provo per lui non siano quelli che si hanno verso un semplice compagno di scuola o vanno oltre e quello che ci lega sia qualcosa di più profondo. L'unica cosa di cui sono sicura è che non c'è momento della giornata in cui non sia nei miei pensieri: per me è un punto di riferimento, una certezza sulla quale so di poter contare costantemente: ho sempre bisogno della sua presenza, ma anche della sua approvazione in ogni mia scelta. Non posso dire di essergli amica, ma allo stesso tempo nemmeno di essere innamorata, al contrario di lui: è forse proprio il fatto che mi manifesti così apertamente i suoi sentimenti che rende così difficile definire i miei e quale sia il confine tra amicizia e amore; si escludono a vicenda o si possono considerare l'uno e il punto di partenza dell'altro?Ogni riferimento a persone e/o cose è puramente casuale!!!
Alessia


Cara Alessia,
La persona che amiamo è una persona di cui ci accorgiamo di “non poter più fare a meno”; ci sentiamo legati a lei, e “capita di non riuscire a capire, a definire quello che si prova”. I nostri pensieri rimandano continuamente alla sua presenza, l’ideazione ci restituisce la sua immagine, nelle decisioni sentiamo la necessità della sua partecipazione, e da lei non riusciamo a congedarci facilmente, perché è già in noi non solo come figura immaginata o idealizzata, ma come parte della nostra interiorità, come elemento rinnovatore e rivoluzionario della nostra vita. Così diventa anche “punto di riferimento” e “certezza”. Infatti, scrive Platone nel Simposio: “Gli amanti che passano la vita insieme non sanno dire che cosa vogliono l’uno dall’altro. Non si può certo credere che solo per il commercio dei piaceri carnali essi provino una passione così ardente a essere insieme. È allora evidente che l’anima di ciascuno vuole altra cosa che non è capace di dire, e perciò la esprime con vaghi presagi, come divinando da un fondo enigmatico e buio”. (Platone, Simposio, Feltrinelli, 2001).Dunque gli amanti hanno cose da dire che non riescono a dire, e perciò parlano in modo enigmatico, sfuggente e spesso impenetrabile. E qui si comprende che il discorso amoroso comincia proprio perché fallisce il discorso razionale. Il discorso razionale è stabilito dal principio di identità e dal principio di non contraddizione. Noi parliamo e pensiamo seguendo questi due principi. Platone ha insegnato questo. Ma il discorso razionale è solo una piccola parte di noi. Platone scrive infatti che: “I beni più grandi ci vengono dalla follia naturalmente data per dono divino”, e intende questa follia non come deragliamento della razionalità, ma come lo sfondo “enigmatico e buio” da cui si origina la razionalità. Lo sfondo che ci abita non è “irrazionale”, ma pre-razionale, ed è chiamato da Platone divino, tanto che Platone dice: “La follia dal dio proveniente è assai più bella della saggezza d’origine umana” (Platone, Fedro). Questa componente pre-razionale è dunque lo sfondo indistinto, irrazionale da cui l’umanità si emancipa grazie alla ragione. Il divino che ci abita è il non differenziato, l’incoerente che è presente in noi. La ragione poi decide, e nel decidere (de-caedere, tagliare) stabilisce il significato delle cose, abbandona i significati prossimi e affini di ciò che è indeterminato e oscuro. E la ragione diventa lo strumento per arginare la nostra parte irrazionale, per contenerla.Platone dice che l’amore è intermediario (metaxỳ) tra uomini e dei, ossia tra la nostra parte razionale e quella irrazionale, folle.In termini psicologici possiamo dire che è il mediatore che consente al nostro inconscio folle di parlare alla nostra parte razionale, e alla nostra parte razionale di parlare al nostro inconscio folle. È molto importante il dialogo tra la nostra dimensione razionale e quella folle. Ci sono persone che da sole si perdono nella follia e dalla follia non riescono a ritornare nella comunità degli uomini, e ci sono persone che non vogliono uscire dalla parte razionale e così però rinunciano alla possibilità del loro rinnovamento. Ed è per questo che ci vuole un mediatore per il dialogo tra queste due componenti e questo mediatore si chiama Eros.Prima di giungere alla casa di Agatone, Socrate ha un attacco di atopía. I suoi amici lo sanno, perché è una cosa che gli accade sovente e lo lasciano stare; attenderanno che si congiunga a loro più tardi. Atopía qui può essere intesa come dislocazione dalla parte razionale a quella pre-razionale o divina, infatti Socrate, quando parla delle cose d’amore, parla di “possessione” e dice il filosofo Umberto Galimberti, “Per questo l'amore di cui parla Socrate non ha la forma di un sentimento umano, ma quella più inquietante della possessione (katokoché) di un dio. L'entusiasmo che genera, lungi dall'essere un sentimento di esuberanza o di particolare eccitazione, dice che l'uomo in quella circostanza è abitato da un dio, ha dentro di sé un dio (éntheos), per cui non è l'lo razionale a proferir parola, ma il dio che lo possiede”. E più avanti scrive: “Amore, infatti, non è qualcosa di cui l'Io dispone, ma semmai è qualcosa che dispone dell'Io” (Galimberti, Le cose dell’amore, Feltrinelli 2004).Socrate, che è colui che dice di non sapere, di una cosa però si dice esperto, ossia delle cose d’amore. E chi glie le ha insegnate? Una donna, una sacerdotessa: Diotima di Mantinea. Cosa gli ha insegnato? Che amore è figlio di PENÌA e di POROS. Penìa è la mancanza e Poros la via, il passaggio. Questa genealogia di Eros è presente solo in Platone, perché la mitologia greca prevedeva come genitori di EROS, Afrodite e Ares, la divinità della sessualità e dell'aggressività, della guerra. Freud si rifà alla mitologia greca, infatti assume Afrodite (sessualità) e Ares (aggressività, distruttività) come le pulsioni fondamentali dell'inconscio. Mentre per Platone Eros deriva dalla mancanza, dalla nostra incompletezza e da Poros, il passaggio, che prevede il collegamento tra la parte razionale dell’uomo e la sua parte folle (divina). In questo senso l’amore è una relazione con l’altra parte di noi stessi, e avviene per un cedimento dell’io, ossia quando la ragione capitola e soccombe consentendoci di liberare una parte della follia che ci abita. Nell’amore l’io si deve dissolvere per rinascere, e ogni volta che si risveglia l’amore vengono continuamente spostati i confini dell’io. Galimberti scrive parole molto belle a questo proposito: “L'avvinghiarsi al corpo dell'altro, prima di un contatto, è dunque una presa. Per il solo fatto di esserci accanto, l'altro ci concede di perderci nella nostra follia e di riprenderci. Assistendo al cedimento del nostro Io, con la sua presenza, come la levatrice durante il parto, l'altro aiuta la nostra nascita.”Anche l’amicizia, a cui fai riferimento, ci consente di avvicinarci alla nostra parte irrazionale, perché con gli amici si abbassano le difese della nostra razionalità nel clima di fiducia, di confidenza e di abbandono che si è creato. Ma l’amore è più potente ancora, consente come la levatrice a cui fa riferimento Socrate, una nuova nascita, il nostro rinnovamento. Oltre a essere un rapporto tra gli uomini è un rapporto di noi con noi stessi grazie all’altra persona. Un rapporto che produce una vera e potente trasformazione che è la ri-generazione del nostro Io.



Un caro saluto,

Alberto

lunedì 2 novembre 2009

Mi sono accorto di essere innamorato


Caro professore,

Che cos'è l'amore? Questa è una domanda a cui è molto difficile rispondere e penso che molte persone rimarrebbero spiazzate di fronte a questo quesito. Sul vocabolario alla voce " amore " si legge: "affetto intenso, assiduo, fortemente radicato per qualcuno ". Secondo me, però, non esiste una vera e propria definizione della parola " amore ", perché ognuno di noi ha una diversa concezione di questo particolare sentimento. Se dovessi dare io una definizione di " amore ", direi che si tratta di un sentimento di affetto verso qualcuno che si manifesta in maniera diversa da persona a persona. Tale sentimento può essere provato verso i propri genitori e parenti, ma in questa lettera vorrei analizzare l'amore che riguarda l'attrazione per una persona del sesso opposto. Io penso di essermi innamorato veramente una volta sola nella vita, ed è successo quest'estate mentre ero al mare con i miei amici; e mi sono accorto che stava accadendo dentro di me qualcosa di strano, di inspiegabile e che, tutto ciò era causato dalla mia amica in vacanza con noi. Non avevo mai provato una tale sensazione prima di allora, ero felice, euforico, il cuore mi batteva forte quando lei si avvicinava, diventavo rosso, spesso facevo fatica a parlare insieme a lei e la notte non riuscivo a dormire. A poco a poco mi sono accorto di essermi innamorato e ho cominciato a chiedermi cosa potevo fare perché lei si accorgesse di me, ripromettendomi migliaia di volte che alla prima occasione le avrei rivelato i miei sentimenti, ma al momento opportuno mi mancava sempre il coraggio, non so bene per quale motivo, ma non ce la facevo proprio a confessarmi. Mi sono chiesto spesso perché ogni volta le parole che mi ero preparato e che avrei voluto dirle mi rimanevano bloccate in gola. Forse avevo paura che mi rifiutasse, della derisione dei miei amici se fossero venuti a saperlo, o forse era solo il coraggio a mancarmi, ma fatto sta che, rimandando rimandando, sono arrivato fino a oggi e la situazione non è cambiata di una virgola, e so che continuando così non cambierà mai e, se devo essere sincero, la cosa mi fa stare molto male. Devo dire che scrivere questa lettera mi è costato molto, perché non sono abituato a scrivere i " fatti miei " su un pezzo di carta, e provo anche un certo imbarazzo pensando che un'altra persona leggerà ciò che ho appena scritto. Molto probabilmente penserà che sono un debole e un immaturo, ma purtroppo sono fatto così e anche se sto cercando di cambiare in tutti i modi non ce la faccio proprio a modificare il mio carattere. Non so bene come concludere la lettera perché non ho vere e proprie domande da porre e molto probabilmente quello che ho scritto non è nemmeno un granché, ma se devo dire la verità, già solo scrivere queste tre pagine di foglio protocollo è stata un'impresa per me molto più impegnativa che studiare filosofia o storia e non avrei mai pensato che fosse così difficile. Grazie!

Simone

Caro Simone,
hai scritto una lettera molto bella e personale. Quando l’ho letta, ho pensato che potevo unirmi a te e aggiungere altre pagine alla tua storia, perché mi ha ricordato un po’ anche la mia. Anch’io alla tua età mi sono sentito debole o immaturo, ho avuto paura di perdere la persona che amavo e ho balbettato, come è accaduto a te. Anch’io ho temuto di essere rifiutato e ho rinunciato a qualche occasione, lasciando passare il tempo. E credo che, talvolta, sia stato più facile anche per me studiare filosofia e storia.D’altra parte l’innamoramento sfugge al nostro controllo e ricorderai che l’unico modo che nella storia gli uomini hanno inventato per padroneggiarlo è stato attraverso la creazione di filtri d’amore. L’elisir d’amore scombina le carte nella vicenda di Tristano e Isotta, e anche in quella, forse meno conosciuta, di Nemorino e Adina musicata da Gaetano Donizzetti. È una bella e divertente storia d’amore in cui il grande mago Dulcamara predispone i suoi potenti e ingegnosi incantesimi d’amore. In queste vicende, bellissime, l’innamoramento può essere indotto da un mezzo esterno (magari una bottiglia di buon vino), dunque incanalato, orientato e controllato. Ma non è così.Secondo Antonio Damasio (l’autore che ha citato nella lettera precedente Alessandra), l’idea che esistano alcune molecole che agiscono su particolari neuroni e producono il risultato sospirato: “Dal punto di vista dei meccanismi neurobiologici, […] suona come una specie di gioco di prestigio. Tristano e Isotta bevono il filtro d'amore, et voilà!, nella scena successiva sono innamorati”. Secondo questo studioso: “I meccanismi molecolari attivati dall'introduzione di un farmaco nel sistema rendono conto della catena di processi che porta all'alterazione del sentimento, ma NON DEI PROCESSI CHE ALLA FINE STABILISCONO IL SENTIMENTO STESSO” (Alla ricerca di Spinoza, Adelphi [2003] 2007). Quindi occorrerà indagare i processi che costituiscono il sentimento. Così la pensava anche Freud che, nell’Introduzione alla psicoanalisi, un po’ scherzando, scriveva: “L'anima popolare […]chiama l'amore una «ebbrezza» e fa nascere l'innamoramento per opera di filtri amorosi, spostandone in certo qual modo verso l'esterno la sostanza agente” (Introduzione alla psicoanalisi, 1915-1917). Già, perché la “sostanza agente” non sta all’esterno, ma all’interno di noi. Schopenhauer avrebbe detto che noi siamo agiti da due soggettività, una di cui siamo consapevoli (diciamo quella della mente e dei nostri progetti consapevoli) e una più potente di cui non siamo coscienti e che rappresenta le ragioni del nostro corpo. Di solito ci accorgiamo della soggettività del corpo quando proviamo piacere o dolore. In queste occasioni sentiamo fortemente di avere un corpo (o di essere un corpo). Riprendendo questa linea, un importante psicoanalista italiano, Aldo Carotenuto (1933-2005), dice che: “C'è un momento nella vita in cui ci accorgiamo di essere fatti di carne e qualcuno dice che in fondo essa si fa sentire soprattutto attraverso il dolore, ma io voglio riferirmi a un'esperienza diversa, vale a dire al fenomeno di riscoprire il proprio corpo attraverso il desiderio e questo non si limita a oggettivarci, ma attua, ogni volta e di nuovo, la rivelazione della nostra corporeità” (Eros e Pathos, 1987).Nel desiderio, e dunque nell’esperienza dell’innamoramento, si rivela la nostra corporeità. Viviamo un’esperienza unica: psicologica, fisica ed esistenziale. Sentiamo che tutte le sicurezze vengono meno, ci sentiamo vulnerabili, fragili, confusi. Sentiamo che dentro di noi sta avvenendo una trasformazione e temiamo di non poter controllare ciò che avviene. Si frantumano le nostre difese culturali e psicologiche. Sentiamo che la contraddizione e l’ambivalenza fanno parte di noi, ci rendiamo conto che siamo precipitati in una situazione oscura, indefinibile; constatiamo che le parole non sono sufficienti ad esprimere la metamorfosi che avviene dentro di noi, e che la ragione viene meno. Sperimentiamo che non siamo autonomi e non possediamo noi stessi. Perdiamo infatti ogni equilibrio consolidato e provvisoriamente raggiunto. Carotenuto scrive che nell’innamoramento si assiste alla “rottura violenta del proprio nucleo difensivo narcisistico: il soggetto è strappato dalla sua solitudine per tornare a essere in contatto con aspetti vitali di se stesso, fino ad allora rimossi”. Questa condizione che ci priva improvvisamente dell’equilibrio psichico e mette a soqquadro quello esistenziale, è tuttavia una condizione fondamentale, perché ci dispone ad una nuova conoscenza di noi stessi. Intanto ci scopriamo mancanti, insufficienti. Non a caso Platone fa dire a Socrate che Eros è figlio di Penìa, mancanza, povertà (ne parleremo nella prossima lettera). Siamo strutturalmente bisognosi e sentiamo l’urgenza di colmare questa mancanza. Siamo sedotti da qualche caratteristica dell’altro, da qualche particolare che per gli altri è insignificante e, poiché portatori di una carenza, siamo sempre spinti alla ricerca di ciò che può colmare la nostra mancanza. L’altra persona diventa così portatrice di speranza, e rappresenta la possibilità del nostro rinnovamento. Di solito tendiamo a illuderci di essere autosufficienti, ma il corpo scardina tutte le sicurezze e fa sentire prepotentemente la propria voce. Sentiamo la vulnerabilità, perché sentiamo che siamo esposti all’altro, e che l’altro è libero e non lo possiamo controllare. Siamo esposti all’altro, perché dobbiamo svelargli un sentimento che custodiamo dentro e che fa tutt’uno con noi stessi, senza maschera, senza finzioni. Sentiamo che l’altro può guardare dentro di noi e ci sentiamo deboli, come dici tu. Ma è solo attraverso questa esperienza che passa attraverso la perdita di una presunta autonomia che noi riusciamo veramente a rinnovarci. Così scrive Aldo Carotenuto: “Darsi a chi amiamo significa abdicare alla propria autonomia, e questa può essere restituita soltanto dalla persona a cui è stata data. Ecco quindi il gioco circolare della dimensione amorosa, vista nella prospettiva del dichiararsi: io riesco a offrirmi e ad aprirmi all'altro solo se metto a repentaglio la mia indipendenza, che può essermi restituita soltanto da lui. Rivelarsi può assumere diversi significati, ma per chi vive questa esperienza il valore più profondo e fondamentale sta nel comprendere che il dire di "sì" a qualcuno è un dire di "sì" a se stessi, in quanto capaci di mettersi a nudo e di accettare la propria debolezza”. Senza fare il tuo nome (Simone è nom de plume), ho provato a leggere la tua lettera in un paio di classi, perché quando dicevo che l’argomento della settimana successiva sarebbe stato l’innamoramento, e che avevamo scelto la lettera di un ragazzo, tutti mi chiedevano di leggere la lettera e di sapere chi era l’autore. Ammetto: ho ceduto davanti a tanta insistenza e voglio dirti questo: i ragazzi, in genere, dopo la lettura stavano in silenzio, e mi guardavano; qualcuno mi ha detto: “è un ragazzo in gamba se è riuscito a scrivere questo”; mentre le ragazze dicevano: “ma che tenero”, “è di questa scuola?” “prof., ci dica il nome, uno così è da conoscere subito”, “che persona sensibile” “ma si deve dichiarare, alle ragazze fa piacere”, ecc. ecc. Sono intervenute ragazze di cui non conoscevo ancora la voce. Per dire.

Quella che tu dici essere debolezza è l’intimità esposta che può essere accolta oppure no. Ma è un rischio che bisogna correre. Quella debolezza che senti in ogni caso ti rivela delle parti di te che non conoscevi, ti rimanda alla componente profonda di te stesso. Ma quella che ti sembra debolezza invece è la forza che ti permetterà di conoscerti meglio, di comprendere meglio quello che avviene dentro di te e di instaurare nuove relazioni positive con gli altri. Questa “fragilità” è invece cercata dagli altri e attesa (e conosciuta) come una particolare sensibilità, che altro non è che una capacità di sintonizzarsi con l’altro sesso più autentica e matura.

Un caro saluto,

alberto




P.S. Il musicista Gaetano Donizzetti (Bergamo, 1797-1848) ha scritto un’opera dal titolo “L'elisir d'amore” (oggi puoi trovare il testo tratto dal racconto di Eugène Scribe "Le philtre" -Il filtro d'amore- pubblicato da Archinto nel 1999 con i disegni di Tullio Pericoli).